Quello che Netanyahu non ha detto Gli interessi di Usa e Israele non sono in linea
Bibi è Churchill nell’isolare l’Iran ma è “assente ingiustificato” se si tratta di rischiare per riuscirci
di Thomas L. Friedman Repubblica 5.3.15
ORA che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha esposto al
Congresso americano le sue argomentazioni sull’Iran, con l’atmosfera da
circo annessa e connessa, andiamo al sodo: che interesse ha l’America a
raggiungere un accordo con l’Iran? I nostri interessi e quelli di
Israele, infatti, non sono del tutto in linea. Qual è il minimo
necessario a soddisfare i nostri interessi? E come dovremmo bilanciare
le critiche alla nostra politica provenienti da un Bibi in versione
seria rispetto a quelle di un Bibi in versione cinica?
Stati Uniti e Israele concordano, e così pure il sottoscritto, sulla
necessità di impedire che l’Iran metta a punto un ordigno nucleare,
perché potrebbe essere utilizzato per minacciare lo Stato di Israele e
anche l’Europa e gli Stati arabi. Oltretutto, qualora l’Iran si dotasse
dell’atomica, anche Arabia Saudita, Turchia ed Egitto avrebbero la
tentazione di agire nello stesso modo. Tutt’a un tratto ci troveremmo
alle prese con un Medio Oriente non solo già pieno di suo di guerre
settarie per procura, ma pieno anche di armi nucleari. In Medio Oriente
ci sono entità per le quali la “distruzione reciproca assicurata”
sarebbe un invito a nozze, non un sistema di mutua deterrenza. Inoltre,
qualora Teheran entrasse in possesso dell’atomica ci sono buone
possibilità che l’intero regime globale di non proliferazione nucleare,
già deteriorato, finisca con l’andare del tutto in pezzi. E ciò sarebbe
alquanto destabilizzante.
A questo proposito, il presidente Barack Obama e Netanyahu condividono
le medesime preoccupazioni. E, in tutta onestà, dubito che ci sarebbero
state le sanzioni e i negoziati in corso oggi con l’Iran se Bibi non
avesse minacciato di agire contro Teheran come il dottor Stranamore.
Tuttavia, Bibi sostiene che un accordo dovrebbe prevedere di fare piazza
pulita delle centrifughe iraniane insieme ai relativi componenti in
grado di arricchire l’uranio per confezionare un’atomica. Non biasimo
questo suo desiderio, condiviso dalla maggior parte dei miei amici
israeliani. Ma, come ha fatto notare in un articolo pubblicato dal New
York Times Robert Einhorn, parte in passato del gruppo di negoziatori
statunitensi in contatto con gli iraniani, quella condizione non è «né
raggiungibile né indispensabile» per garantire la nostra sicurezza o
quella dei nostri alleati mediorientali.
Netanyahu non ha mai addotto una motivazione convincente per spiegare
perché prendere le distanze dalla bozza di Obama di accordo con l’Iran
potrebbe portare a un accordo migliore, a più sanzioni o alla
capitolazione di Teheran, invece che a una situazione in cui l’Iran
continuerebbe a fare di tutto per entrare in possesso dell’atomica e a
noi non resterebbe altro che convivere con questo dato di fatto o con la
necessità di bombardarlo. Con il finimondo che potrebbe scaturirne. Da
questo punto di vista, il discorso di Bibi è stato perfetto per il
Congresso: ho in mente un piano migliore. Non vi costerà nulla. Non
implicherà sacrifici per gli americani. Sì, a ben vedere Bibi potrebbe
essere un membro del Congresso.
La posizione degli Stati Uniti — condivisa da Cina, Russia, Germania,
Gran Bretagna e Francia — è la seguente: tenuto conto che Teheran ha già
piena padronanza delle tecniche necessarie a costruire una bomba e,
malgrado le sanzioni, è riuscita a importare i componenti necessari, è
impossibile rimuovere le capacità dell’Iran di dotarsi dell’atomica. Ciò
che è possibile esigere è che l’Iran riduca e rallenti il processo di
arricchimento dell’uranio e le altre tecnologie, in modo tale che
qualora un giorno decidesse di costruirla davvero avrebbe bisogno di un
anno intero, tempo sufficiente per gli Stati Uniti e i loro alleati per
intervenire e distruggerlo.
Penso che un accordo di questo tipo sarebbe nell’interesse dell’America
se — e sottolineo “se” — prevedesse che Teheran accetti ispezioni
assidue e senza preavviso sulle sue capacità di costruire l’atomica e
se, dopo i dieci anni previsti, le ispezioni proseguissero in numero
superiore a quello consueto. Non mi dispiacerebbe, inoltre, se il
Congresso prevedesse di abbinare alla firma di questo patto
un’autorizzazione formale affinché il presidente — già adesso — possa
ricorrere a “qualsiasi mezzo necessario” per reagire nel caso in cui
l’Iran cercasse di infrangere gli accordi. Tali clausole appagherebbero
le preoccupazioni strategiche degli Stati Uniti offrendo all’Iran la
possibilità — niente di più — di integrarsi nel sistema globale. In
definitiva, l’unica garanzia contro le ambizioni nucleari iraniane è la
spinta interna al cambiamento della natura del regime iraniano stesso.
Il mio problema nei confronti di Netanyahu è che egli aveva ammonito che
l’accordo a interim negoziato da Obama con Teheran — che ha congelato e
riportato indietro parti del programma nucleare iraniano, dando vita a
nuovi negoziati — sarebbe sfociato inevitabilmente in un fallimento
delle sanzioni e sarebbe stato violato dall’Iran. Nulla di tutto ciò è
accaduto. Per di più, il messaggio di Bibi è che non c’è niente di più
importante che esercitare la deterrenza nei confronti dell’Iran. Va
bene. Tuttavia, se questa fosse la mia priorità assoluta, mi darei da
fare per ottenere un invito a parlare al Congresso facendo leva sul solo
partito repubblicano, senza nep- pure informarne il presidente, che di
fatto dirige i colloqui con l’Iran? E lo farei ad appena due settimane
dalle elezioni in Israele, quando sembra che stia sfruttando il
Congresso americano come scenario di una campagna elettorale? Se avessi
bisogno che gli europei si schierassero al mio fianco per rendere le
sanzioni più severe, non annuncerei forse che non si costruiranno nuovi
insediamenti in Cisgiordania nelle aree che tutti sanno destinate a
entrare a far parte dello Stato palestinese, così come è previsto dai
negoziati? Una simile mossa potrebbe costare a Bibi la sua base, dal
punto di vista politico, ma aumenterebbe il sostegno dell’Europa a
Israele. Ahimè, Bibi è Churchill quando si tratta di isolare l’Iran, ma è
un “assente ingiustificato” quando si tratta di rischiare il proprio
futuro politico per riuscirci. E mi disturba. Non so ancora se sosterrò
questo accordo iraniano, ma mi disturba anche il modo col quale il
Congresso sbraita a sostegno di un leader straniero che cerca di mandare
deliberatamente in fumo i negoziati nei quali è impegnato il governo
prima ancora che questi abbia concluso ciò che sta facendo. Mi indispone
davvero. © 2-015, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti
Iran Tra la gente di Teheran che sogna l’intesa nucleare “Vogliamo finalmente essere un paese normale”
“È
l’occasione per ripartire da zero”, dicono gli studenti. Ma c’è anche
chi vuole il fallimento del negoziato: gli ultraconservatori, i
pasdaran, chi ha lucrato sulle sanzioni E quelli che temono che un’intesa cambi i giochi in vista della scelta del successore di Khameneidi Vanna Vannuccini Repubblica 6.3.15
TEHERAN «ANCHE noi dobbiamo ripartire da zero», dice uno studente che
tiene per mano la fidanzata. È venuto a visitare una mostra speciale,
che pochi si aspetterebbero di vedere al Museo di arte contemporanea di
Teheran, inaugurata dallo stesso ministro della Cultura Ali Jannati
(figlio di un ayatollah ultraconservatore, lui invece un liberale). Una
personale di Otto Piene, che era passata anche dal Guggenheim. Già sulle
scale siamo accolti da una spettacolare corona di inflatables, sculture
d’aria colorate che assomigliano a tronchi d’albero sormontati da
immensi fiori a stella. Piene è un pittore tedesco del famoso Gruppo
Zero. Negli anni del dopoguerra in Germania, come in altri paesi
d’Europa, gli artisti sentivano un’urgenza di rinnovamento, volevano
ripartire da zero, ma avevano anche fiducia nel futuro. Sentimenti che
oggi toccano un nervo sensibile dei giovani iraniani che aspettano col
fiato sospeso la conclusione dei negoziati sul nucleare a Ginevra.
“Arcobaleno” è intitolata la mostra, perché Piene dipingeva arcobaleni
in serie. E chi visita la mostra li vede come un simbolo di
riconciliazione. «Sogno un mondo più largo — dovrei forse desiderarne
uno più stretto?», è una citazione di Otto Piene nella prima pagina del
catalogo. “Conto alla rovescia per il domani”, è un altro titolo.
Ginevra, dicono tutti, segnerà la svolta decisiva per il futuro del
paese: «O diventiamo un paese normale, di cui il resto del mondo ha
rispetto e fiducia oppure che cosa?», si chiede lo studente. Nessuno
riesce a figurarsi quale sarebbe l’alternativa.
«Dopo trentacinque anni di chiusura, tre decenni e mezzo in cui il mondo
ci ha considerati un popolo di second’ordine, vogliamo tutti che
l’isolamento abbia fine», mi dice un funzionario del ministero degli
Esteri. Anche la pressione economica ha fatto la sua parte: il crollo
dei prezzi del petrolio, che è calcolato a 130 dollari nella legge di
bilancio ed è sceso a 60, è stato l’ultimo colpo. Poi ci sono i cento
miliardi di dollari congelati all’estero per via delle sanzioni sulle
transazioni finanziarie, mentre i guadagni fatti quando il petrolio era a
150 dollari sono spariti (si parla di un buco di 6 miliardi di dollari
negli ultimi anni di Ahmadinejad e ieri il ministro dell’Interno Rahmani
Fazli ha detto che «denaro sporco» sta entrando nella politica per
manovrarla). «Nessun paese può crescere economicamente quando è
isolato», ha ammonito il presidente Rouhani.
Ma c’è anche chi vuole il fallimento del negoziato: non solo Netanyahu e
pezzi del Congresso a Washington, sono in tanti anche qui. «In questo
momento tacciono, nessuno vuol prendersi la responsabilità di un
fallimento dopo che il Leader Supremo Khamenei ha dato esplicito
sostegno al negoziato: semplicemente aspettano il momento opportuno per
alzare la voce», avverte un analista che preferisce rimanere anonimo.
Sono gli ultraconservatori, sono i pasdaran (almeno in parte), sono
tutti coloro che non solo perderanno i benefici portati dalle sanzioni,
che hanno consentito di accumulare enormi ricchezze. E per molti è in
gioco anche la sopravvivenza politica. «Se si farà l’accordo — dice un
professore universitario — i conservatori scompariranno nelle due
elezioni importanti che ci saranno a primavera: non saranno rieletti al
Majlis, il Parlamento dove oggi hanno la maggioranza, e, cosa forse
ancora più pericolosa per loro, all’Assemblea degli esperti, gli 86
eletti che stanno in carica otto anni e hanno il compito di nominare il
Leader Supremo». Va detto che Khamenei è più in salute di quanto sia
stato detto, anche se in questi giorni è di nuovo sotto osservazione in
ospedale dopo un’operazione alla prostata, ma comunque si avvicina agli
80 anni.
Al discorso di Netanyahu il governo ha reagito con ostentata pacatezza:
«Il mondo vede con soddisfazione i progressi fatti nel negoziato e solo
un governo che aggredisce e occupa non è contento», ha detto il
presidente Rouhani. «Il negoziato prosegue, e che Obama avesse
difficoltà col Congresso si sapeva. Il governo sottolinea lo sforzo
enorme fatto dall’Iran. È vero che i 5+1 riconosceranno il diritto
dell’Iran di arricchire l’uranio, il programma nucleare è considerato da
sempre lo strumento per entrare nella modernità, ed essere privati di
un diritto garantito a tutti i firmatari del Trattato di Non
Proliferazione sarebbe stato un affronto inaccettabile. Ma le condizioni
saranno durissime: riduzioni drastiche, chiusure o trasformazioni di
impianti, ispezioni ad libitum non annunciate dell’Aiea. Il tutto almeno
per dieci anni — un numero «a due cifre», come ha detto Obama. Tra
dieci anni la leadership presumibilmente sarà cambiata — sono tutti
piuttosto anziani — e il nucleare non sarà più al centro dell’orgoglio
nazionale iraniano. «Abbiamo dato prova di tanta buona volontà. Se non
avessimo fatto uno sforzo così grande non saremmo arrivati dove siamo»,
ha spiegato il consigliere diplomatico del Leader Ali Velayati al
ministro Gentiloni.
Ma se l’accordo si riuscirà a fare o no, è ancora scritto nelle stelle.
«Siamo vicini», ha detto Zarif dalla Svizzera, ma è come il cubo di
Rubik: nulla è a posto finché tutto non è a posto. Si prevede la firma
di un accordo politico entro marzo, poi seguirà un piano d’azione
tecnico da firmare entro il 30 giugno. Il 9 arrivano di nuovo gli
ispettori dell’Aiea, che vogliono soprattutto indagare sul passato, ma
Teheran dice che la documentazione nelle loro mani è un falso.
Per chi si oppone all’accordo, qui come a Washington, è facile far leva
su 35 anni di alienazione traumatica tra Iran e Stati Uniti. Riabilitare
l’Iran, consentire alla sua reintegrazione nella comunità
internazionale è un passo enorme per Obama e per Kerry. Da due decenni i
due paesi si considerano rispettivamente il Grande Satana e l’Asse del
Male. Non c’è film americano che non lo provi, non c’è manifestazione a
Teheran senza gli slogan “morte all’America”. Ma tutti oggi sanno anche
che in gioco c’è molto di più, per l’Iran e per il resto del mondo.
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