mercoledì 4 marzo 2015

Perry Anderson sa persino chi è Pippa Civati e vuole che usciamo dall'euro

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Il populismo continentale secondo Perry AndersonIntervista. Parla Perry Anderson, decano della "new left" inglese. Il populismo europeo, la debolezza dei "movimenti antisistemici" e il liberismo "made in Renzi"

Leonardo Clausi, il Manifesto 4.3.2015 

Perry Ander­son, docente della Uni­ver­sity of Cali­for­nia di Los Ange­les, non­ché tra i teo­rici fon­da­tori della «New Left» anglo­sas­sone e della rivi­sta «New Left Review», è osser­va­tore meti­co­loso della scena euro­pea e di quella ita­liana in par­ti­co­lare, da lui stu­diate secondo un metodo com­pa­ra­tivo delle strut­ture poli­ti­che e assetti cul­tu­rali che tiene ben pre­sente il magi­stero gram­sciano. Fin dagli anni Set­tanta, lo sto­rico inglese ha intrec­ciato dia­lo­ghi illu­mi­nanti con figure car­dine del nostro pano­rama intel­let­tuale: Lucio Col­letti, Nor­berto Bob­bio, Carlo Ginz­burg, fino alle recenti, sen­tite com­me­mo­ra­zioni di Seba­stiano Tim­pa­naro e Lucio Magri apparse sulla «Lon­don Review of Books». Gli arti­coli che da anni dedica all’Italia sulla «Lrb» sono stati ora pub­bli­cati, accom­pa­gnati da una nuova con­clu­sione, per la prima volta da Castel­vec­chi con il titolo L’Italia dopo l’Italia. Il libro è un’analisi spie­tata degli ultimi ven­ti­cin­que anni di poli­tica nazio­nale, dal domi­nio ber­lu­sco­niano all’offensiva neo­li­be­ri­sta dell’attuale pre­si­dente del con­si­glio, dove il per­so­na­li­smo auto­ri­ta­rio di Mat­teo Renzi, con­vinto com’è di poter rifor­mare il paese sul duplice fronte eco­no­mico e isti­tu­zio­nale, si tinge di gaul­li­smo. Lo abbiamo rag­giunto via email da Los Angeles. 

Il suo libro, «L‘Italia dopo l’Italia», che trac­cia l’intera sto­ria della Seconda Repub­blica fino allo scorso autunno, è stato accolto dal silen­zio quasi com­pleto dei media. Ne è sorpreso? 

No. «Pen­siero unico» è un ter­mine che con­tiene un ele­mento di esa­ge­ra­zione, ma indica un’ovvia realtà: l’ampiezza di un con­senso ideo­lo­gico neo­li­be­ri­sta dalla fine della guerra fredda, mai del tutto asso­luto, ma che lascia poco spa­zio per visioni del mondo meno con­for­mi­ste. I gior­na­li­sti che lo impon­gono non fanno che svol­gere pro­fes­sio­nal­mente il loro lavoro. Ciò detto, nem­meno molti libri che rien­trano nel pen­siero domi­nante sono recen­siti. Nell’accoglienza a un libro vi è sem­pre un ele­mento alea­to­rio, di occa­sione colta o man­cata, indi­pen­den­te­mente dalla sua qualità. 

Un anno fa, lei aveva pre­vi­sto il destino di Ber­lu­sconi e del Pd per mano di Renzi. Cosa la ren­deva così sicuro che sareb­bero finiti come poi è andata? 

Il patto di Ber­lu­sconi con Renzi era un pro­dotto sia dell’eccessiva debo­lezza della sua posi­zione, una volta giu­di­cato per eva­sione fiscale e radiato dal Senato, sia di una per­dita sog­get­tiva di discer­ni­mento, già evi­dente nella faci­lità con cui Napo­li­tano lo aveva liqui­dato come pre­mier, diven­tata poi palese quando le ansie per­so­nali otte­ne­bra­vano il cal­colo poli­tico. Rite­nendo inge­nua­mente che, al ritiro di Napo­li­tano, l’appoggio riso­luto alle mac­chi­na­zioni costi­tu­zio­nali ed elet­to­rali di Renzi gli avrebbe valso la sele­zione di un pre­si­dente a lui gra­dito e capace di ripu­lire i pro­pri tra­scorsi penali, si è lasciato com­ples­si­va­mente gab­bare dal suo socio. 

Il patto si fon­dava su una riforma elet­to­rale stu­diata per la ripar­ti­zione del bot­tino tra i due, con un pre­mio che garan­tiva una mag­gio­ranza par­la­men­tare a chiun­que avesse otte­nuto più voti ed eli­mi­nato le forze minori sotto la soglia dell’8 per cento. Fin dall’inizio, que­sto ha pra­ti­ca­mente assi­cu­rato a Renzi – con il grosso van­tag­gio del Pd su Fi nei son­daggi, la vit­to­ria in qua­lun­que pros­sima ele­zione nel pros­simo par­la­mento. Ben pre­sto, tut­ta­via, Renzi ha ritoc­cato l’accordo per tenere a bordo Alfano e il suo par­tito, ridu­cendo la soglia dall’8 al 3 per­cento, e – cosa assai più impor­tante – ha mutato il per­corso per l’ottenimento del pre­mio auto­ma­tico, che nella ver­sione ori­gi­nale poteva essere vinto da una coa­li­zione di par­titi, ma che ora è diven­tato sol­tanto a lista unica.
Tra­di­zio­nal­mente, nel rac­co­gliere una più ampia coa­li­zione di forze dif­fe­renti il centro-destra è sem­pre stato più capace del centro-sinistra. Con un colpo solo, il cam­bia­mento lo ha spo­gliato di que­sto van­tag­gio, lasciando Forza Ita­lia espo­sta a una con­trap­po­si­zione fron­tale con il Pd, che al momento gode di quasi il dop­pio dei soste­gni. Come ha detto Fitto, per Fi, l’allinearsi alla ver­sione rive­duta del neo-Porcellum è stato un sui­ci­dio poli­tico. Eppure Ber­lu­sconi era così dispe­rato e bef­fato da insi­stere che Forza Ita­lia appog­giasse il pac­chetto, cre­dendo che Renzi lo ripa­gasse col con­ce­der­gli voce in capi­tolo nella scelta di un nuovo pre­si­dente, di lì a una set­ti­mana, offren­do­gli della pro­te­zione al Qui­ri­nale. Invece Renzi si è sem­pli­ce­mente inta­scato i pro­pri gua­da­gni, instal­lando un pre­si­dente che avrebbe pla­cato gli animi nel Pd. Poli­ti­ca­mente par­lando, Ber­lu­sconi ha fatto la figura dello sciocco che è diven­tato, con il suo par­tito in rivolta per la débâ­cle nella quale l’aveva sospinto. 
 Il risul­tato netto del suo amo­reg­giare con Renzi — nel quale ha gio­cato un ruolo una sorta d’infatuazione nar­ci­si­stica, come se quest’ultimo fosse una ver­sione più gio­vane di sé — è stata sem­pli­ce­mente quella di spac­care il suo par­tito e lasciare il campo libero alla Lega per­ché lo pren­desse in con­tro­piede nell’opposizione al governo. 

Dall’inizio, lei non ha preso in con­si­de­ra­zione una minima, effi­cace oppo­si­zione a Renzi nel Pd. Non vi sono forse mol­te­plici segni di disa­gio nei suoi con­fronti nel partito? 

Si, ci sono, ma nes­suna oppo­si­zione che possa minac­ciare la sua posi­zione o alte­rarne il corso. Lo scon­tento si pre­senta in due forme. Da una gene­ra­zione più anziana tutt’altro che radi­cale, ma la cui mode­ra­zione incarna ono­re­voli valori – un senso della decenza, un certo attac­ca­mento al movi­mento ope­raio – della tra­di­zione del Pci, in disac­cordo con le posture di sfac­ciato neo­li­be­ri­smo di Renzi: un’eredità imper­so­nata da figure come quella di Ber­sani o di Gotor. C’è poi una più gio­vane gene­ra­zione di car­rie­ri­sti, alcuni dei quali, come Orfini, sono saliti sul carro di Renzi, men­tre altri – Fas­sina, Civati – rumo­reg­giano cri­ti­che per­ché messi da parte. Nes­sun gruppo è incline a opporre alcuna ferma resi­stenza a Renzi, ne è testi­mone la loro per­for­mance sul Jobs Act, la riforma elet­to­rale, l’abolizione del Senato. Renzi getta loro delle bri­ciole di volta in volta, sapendo che di più non chie­de­ranno. La ragione è sem­plice. Con il declino di Forza Ita­lia e il pre­mio auto­ma­tico in Par­la­mento, il Pd potrebbe arri­vare ad avere un’egemonia in Ita­lia simile a quella della Dc, un quasi mono­po­lio del potere. Non sarebbe però la stessa cosa, per due ragioni.
La Dc era un vero e pro­prio par­tito di massa, con una tra­di­zione politico-culturale sostan­ziale e con radici pro­fonde nella società civile, men­tre ora il Pd è poco più dell’attrezzo elet­to­rale di un cari­sma­tico oppor­tu­ni­sta. In tal senso, il Pd è assai più debole. Ma d’altro canto ha nelle sue mani la carta vin­cente di una legge truffa che la Dc mancò per poco: con un mero quarto dell’elettorato – pur­ché la lista clas­si­fi­ca­tasi seconda nella vota­zione suc­ces­siva sia ancora più bassa – potrebbe con­ti­nuare a disporre di una mag­gio­ranza in par­la­mento schiac­ciante. La pro­spet­tiva di un man­te­ni­mento inde­fi­nito del potere è troppo appe­ti­bile per­ché una qua­lun­que cor­rente rile­vante nel Pd si opponga seria­mente lungo il percorso. 

Anche se fosse così, per­ché dovremmo imma­gi­nare che l’ordine neo­li­be­ri­sta di cui Renzi ha pro­messo l’introduzione sia a prova di rea­zioni sociali? 

Non lo sarà. Ma molto dipende dalla forma che que­ste pren­de­ranno. Negli anni Ottanta, Gio­vanni Arri­ghi, Imma­nuel Wal­ler­stein e altri teo­riz­za­rono quelli che chia­ma­rono «movi­menti anti­si­stema». Con que­sto inten­de­vano movi­menti che rifiu­ta­vano il capi­ta­li­smo. Tali movi­menti oggi in Occi­dente non vi sono. Il ter­mine è ancora rile­vante, ma il suo signi­fi­cato è cam­biato. Il «sistema» con­tro il quale si sono levati i movi­menti popo­lari non è il capi­ta­li­smo in quanto tale, ma la sua forma oggi domi­nante: il neo­li­be­ri­smo. Nell’Unione euro­pea, la cami­cia di forza isti­tu­zio­nale che lo impone sono il patto di sta­bi­lità e la moneta unica così come con­ce­piti a Maastricht. 

Le ribel­lioni anti­si­ste­ma­ti­che al neo­li­be­ri­smo — a dif­fe­renza di quelle che ave­vano in mente Arri­ghi e i suoi com­pa­gni — ven­gono sia da destra che da sini­stra. In un discreto numero di paesi euro­pei le rivolte da destra si sono dimo­strate più pugnaci ed effi­caci di quelle da sini­stra, pro­du­cendo lea­der di mag­gior talento, che hanno gua­da­gnato più ampi strati di classe ope­raia e posto più di una minac­cia all’ordine costi­tuito. In Fran­cia basta para­go­nare il Front Natio­nal con il Front de Gau­che, in Gran Bre­ta­gna l’UKIP coi Verdi, in Ita­lia la Lega con Sel. Solo in due paesi i movi­menti di sini­stra vanno per la mag­giore: la Spa­gna – (dove non c’è un movi­mento anti­si­stema di destra) e la Gre­cia (dove, a dif­fe­renza di altri movi­menti di destra, «Alba Dorata» è aper­ta­mente fasci­sta). Pode­mos e Syriza rap­pre­sen­tano di gran lunga lo svi­luppo più spe­ran­zoso in que­sto sce­na­rio. Ideo­lo­gi­ca­mente, il Movie­mento Cin­que Stelle è un caso inter­me­dio, un ibrido di ceppi di sini­stra e di destra in cui quelli di sini­stra pre­do­mi­nano, ma che rischia la ste­ri­lità sotto l’autocrazia del leader. 
Se guar­diamo all’Europa nel suo com­plesso, da nord a sud e da est a ovest, il bilan­cio com­ples­sivo del van­tag­gio finora pende dalla parte dei movi­menti anti­si­ste­mici di destra. 

Secondo lei come si spiega? 

Attra­verso due fat­tori. Il primo è ovvia­mente che i movi­menti di destra di solito gio­cano sull’ostilità ai migranti, un sen­ti­mento ampia­mente dif­fuso in quasi tutti i paesi euro­pei e non meno tra le classi popo­lari. Que­sta è una potente attrat­tiva, oltre che — natu­ral­mente e giu­sta­mente – un tabù per la sini­stra. Ma che non è neces­sa­ria­mente in disac­cordo con una rivolta con­tro l’ordine neo­li­be­rale in quanto tale. Poi­ché nes­suno stato euro­peo ha mai con­sul­tato la pro­pria popo­la­zione su quanta immi­gra­zione voglia, o di che tipo. Il capi­tale ha sem­pli­ce­mente impor­tato o attratto forza lavoro in sur­plus dai paesi più poveri alle spalle della cit­ta­di­nanza. Il fatto che nel pro­ce­di­mento non sia mai stata espressa alcuna volontà demo­cra­tica, lo pone ogget­ti­va­mente in linea con il modo in cui i mer­cati finan­ziari — anzi­ché le assem­blee elet­tive — det­tano le poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali nel sistema neo­li­be­ri­sta. I movi­menti anti­si­ste­mici della sini­stra resi­stono alla xeno­fo­bia di quelli di destra, ma di solito man­cano di qua­lun­que con­tro­pro­po­sta coe­rente propria. 

Un secondo fat­tore è spe­ci­fi­ca­mente euro­peo. I movi­menti di destra non hanno dif­fi­coltà a riven­di­care aper­ta­mente l’uscita dall’Euro come dal giogo mone­ta­rio dell’austerità che il neo­li­be­ri­smo ora esige. Anche i movi­menti di sini­stra denun­ciano gli effetti della moneta unica, ma sull’Euro soli­ta­mente tem­po­reg­giano, sug­ge­rendo nel migliore dei casi varie mac­chi­na­zioni per alle­viarne i rigori. Que­ste ten­dono tut­ta­via a sof­frire di due svan­taggi poli­tici: sono tec­ni­ca­mente troppo com­pli­cate per essere intel­le­gi­bili ai più e non hanno pra­ti­ca­mente alcuna chance di accet­ta­zione da parte di Bru­xel­les o Fran­co­forte. In con­fronto, le riso­lute chia­mate a disfarsi dell’Euro sono non solo pron­ta­mente com­pren­si­bili da tutti, ma, rea­li­sti­ca­mente par­lando, più plau­si­bili come sce­na­rio pos­si­bile. Dun­que la sini­stra è svan­tag­giata anche qui. 

Come valuta le pos­si­bi­lità di suc­cesso oggi di una rivolta di que­sto o quel tipo? 

Come dimo­strano tutti i son­daggi, l’attaccamento all’Unione euro­pea è sce­mato dra­sti­ca­mente nell’ultimo decen­nio, e per una buona ragione. Ora è ampia­mente visto per quello che è diven­tato: una strut­tura oli­gar­chica, zeppa di cor­ru­zione, costruita sul diniego di qua­lun­que tipo di sovra­nità popo­lare che impone un aspro regime eco­no­mico di pri­vi­le­gio per i pochi e di costri­zione per i molti. Ma ciò non signi­fica che abbia di fronte alcun mor­tale peri­colo dal basso. La rab­bia nella popo­la­zione cre­sce. Ma la paura la sovra­sta ancora lar­ga­mente. In con­di­zioni d’insicurezza cre­scente, ma a una certa distanza da una cata­strofe, il primo istinto natu­rale sarà sem­pre quello di aggrap­parsi all’esistente per quanto ripu­gnante, piut­to­sto che rischiare quel che potrebbe essere radi­cal­mente diverso. Ciò cam­bierà sol­tanto se — e quando — più della paura sarà la rabbia.

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