mercoledì 22 aprile 2015

Cooptare l'anomalia selvaggia precaria per fare un dispetto a Toni Negri

Risultati immagini per Standing: Diventare cittadiniGuy Standing: Diventare cittadini, Feltrinelli

Risvolto
Ormai i giovani danno per scontato che le uniche possibilità di cominciare a lavorare saranno temporanee e poco garantite, mentre molti lavoratori stanno facendo i conti con la possibilità che tutta la loro vita professionale sia all’insegna della precarietà. Ma cosa significa questo per la società nel suo insieme? La diminuzione dei diritti e delle garanzie è una tendenza inarrestabile, che definirà il mercato del lavoro del futuro? E non c’è niente che si possa fare, almeno da parte della sinistra?

Dopo aver presentato il precariato come classe di massa emergente, e potenzialmente pericolosa per la stabilità politica, nel suo precedente libro (Precari. La nuova classe esplosiva), Guy Standing compie qui un passo ulteriore, approfondendo il discorso sul tipo di politiche progressiste necessarie per ridurre le ineguaglianze e l’instabilità caratteristiche dei precari nelle nostre società.
Le idee di Standing sulla condizione, sempre più globale, dei precari e le conclusioni a cui è giunto sono state ampiamente riprese da intellettuali come Noam Chomsky e Zygmunt Bauman, da attivisti e uomini politici. In questo autentico programma politico per una nuova sinistra, ricorda come i diritti – politici, civili, sociali ed economici – siano stati negati al precariato, favorendo nuove forme di sfruttamento e mettendo a rischio la democrazia, e sottolinea la necessità di riconsiderare la nozione stessa di “lavoro”, il fondamento del contratto sociale e l’idea di cittadinanza. Mettendo al centro di questo suo manifesto dei diritti di libertà, sicurezza ed eguaglianza, il tema, caldo e ineludibile anche in Italia, del reddito minimo garantito.
“Standing prosegue la sua influente analisi del precariato inteso come la ‘nuova classe esplosiva’ con un’esaustiva lista di domande e suggerimenti su come questa classe può ‘abolirsi’ attraverso una lotta per i diritti erosi dall’austerità neoliberale, che ha provocato ovunque insicurezza esistenziale.” Claus Offe, professore emerito di Scienze politiche alla Hertie School of Governance di Berlino

Il precariato è la grande questione politica oggi sul tavolo. I precari sono una nuova classe sociale, una realtà in crescita di lavoratori poveri che non può più essere ignorata.


Guy Standing sull’altalena del precariato 

Saggi. «Diventare cittadini» di Guy Standing. Analisi e proposta di una carta dei diritti di una condizione lavorativa che sfugge ai radar del movimento operaioMarco Bascetta, il Manifesto 22.4.2015 
«Una classe in dive­nire«, così Guy Stan­ding aveva defi­nito il Pre­ca­riato in un for­tu­nato sag­gio del 2011. Tre anni dopo torna sull’argomento con un nuovo libro : A pre­ca­riat char­ter from deni­zens to citi­zens, tra­dotto in ita­liano con il titolo Diven­tare cit­ta­dini. Un mani­fe­sto del pre­ca­riato. (Fel­tri­nelli, pp. 330, euro 19). In que­sto pas­sag­gio tra la «classe in dive­nire» e la «cit­ta­di­nanza in dive­nire» si annida una que­stione poli­tica della mas­sima rile­vanza. Stan­ding prende le mosse dal pre­ca­riato inteso come una con­di­zione per­ma­nente e tutt’altro che mar­gi­nale, deci­siva nell’universo com­pe­ti­tivo e glo­ba­liz­zato del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo. Ciò che lo rende «classe in dive­nire» è la con­di­vi­sione di spe­ci­fici rap­porti di pro­du­zione e di distri­bu­zione, non­ché il par­ti­co­lare rap­porto con lo stato, ma senza che que­sta con­di­vi­sione si sia tra­dotta in una coscienza col­let­tiva, una coscienza di classe appunto, e nella rela­tiva forza poli­tica. Que­sti rap­porti sono con­trad­di­stinti da una serie di nega­ti­vità (incer­tezza, ricat­ta­bi­lità, per­dita di con­trollo sul pro­prio tempo, povertà) e di estra­neità (distacco dal lavoro clas­sico, disin­te­resse per il «posto fisso», scarsa iden­tità pro­fes­sio­nale, scet­ti­ci­smo poli­tico). La prima serie mette il pre­ca­riato in con­tra­sto con il pro­gramma neo­li­be­ri­sta, che impone il mer­cato, (nel quale i pre­cari si tro­vano in una con­di­zione di ogget­tiva debo­lezza e labile pre­senza), come unica dimen­sione ammessa di socia­liz­za­zione. La seconda con la tra­di­zione labu­ri­sta e social­de­mo­cra­tica, che con­si­dera il lavoro sala­riato come con­di­zione neces­sa­ria per l’accesso alla cit­ta­di­nanza. Que­sto dop­pio con­flitto, secondo Stan­ding, farebbe del pre­ca­riato una «classe esplo­siva» che ricerca sicu­rezza fuori dal posto di lavoro e dun­que oltre il tra­di­zio­nale rag­gio di azione del sin­da­cato e della rap­pre­sen­tanza politica. 

Una coa­li­zione in divenire
I sin­da­cati, per troppo tempo testi­moni atto­niti dell’erosione della pro­pria base sociale e forza con­trat­tuale, hanno infine preso atto della cre­scita inar­re­sta­bile del pre­ca­riato come ele­mento strut­tu­rale, e comin­ciato a dubi­tare del mito della «piena occu­pa­zione», almeno nella forma in cui lo ave­vano lun­ga­mente col­ti­vato. Tut­ta­via, nel «ten­dere la mano» al lavoro auto­nomo e inter­mit­tente, fit­ti­zio o effet­tivo che sia, non sem­brano avere per­ce­pito fino in fondo il rivo­lu­zio­na­mento con­cet­tuale che la nuova realtà com­porta. Non si tratta infatti di un ampio bacino fino ad oggi troppo tra­scu­rato e con il quale è ormai impos­si­bile elu­dere il pro­blema di una «coa­li­zione», di una realtà che «si aggiunge» a quelle abi­tuali, ma di un feno­meno che tra­sforma radi­cal­mente la natura stessa del lavoro in gene­rale, sta­bile o tem­po­ra­neo che sia, e tutte le sue forme di orga­niz­za­zione e sog­get­ti­va­zione. Si deli­nea così un con­te­sto nel quale la con­qui­sta di diritti e tutele non può più darsi, per nes­suno, su un piano che non inve­sta l’assetto dei poteri poli­ti­ca­mente orga­niz­zati attorno alle regole neo­li­be­ri­ste del mer­cato e dun­que le loro isti­tu­zioni. Il fatto che il sin­da­ca­li­smo di tra­di­zione social­de­mo­cra­tica si ritrovi oggi privo di qual­si­vo­glia sponda poli­tica, fino a dichia­rarsi per la prima volta in Ita­lia aper­ta­mente asten­sio­ni­sta, è diretta con­se­guenza della fusione com­piuta ( che è cosa diversa dalla sto­rica «com­pli­cità» bor­ghese) tra sovra­nità poli­tica e ordine eco­no­mico proprietario. 

È in que­sto con­te­sto che si col­loca il pro­blema, tutt’altro che sem­plice, posto da Stan­ding, vale a dire come una «classe in dive­nire» di non-cittadini, e dun­que una sog­get­ti­vità poli­tica, per così dire incom­piuta, possa con­qui­starsi l’accesso a una com­piuta cit­ta­di­nanza. Lo stu­dioso bri­tan­nico sem­bra inten­zio­nato ad acce­le­rare il rag­giun­gi­mento della coscienza col­let­tiva attra­verso la ste­sura di un mani­fe­sto del pre­ca­riato. Ma più che di un mani­fe­sto che col­lo­chi il pre­ca­riato nella sto­ria con­fe­ren­do­gli un com­pito e un ruolo, come aveva fatto, per il pro­le­ta­riato, quello fol­go­rante del 1848, si tratta di una estesa e arti­co­lata piat­ta­forma di obiet­tivi e riven­di­ca­zioni nella quale dimen­sione sociale e dimen­sione poli­tica appa­iono ben poco distinguibili. 
Oltre il mito produttivista 




In 29 arti­coli, il mani­fe­sto di Stan­ding spa­zia dalle tutele pre­vi­den­ziali e nor­ma­tive ai diritti dei migranti, dalla giu­sti­zia all’istruzione, dal con­trollo del capi­tale finan­zia­rio ai beni comuni, dal red­dito di cit­ta­di­nanza alla demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva. A par­tire dall’articolo 1 nel quale si postula una ride­fi­ni­zione com­ples­siva del lavoro «come atti­vità pro­dut­tiva e ripro­dut­tiva» che lo sot­tragga alle mito­lo­gie quan­ti­ta­tive con­ver­genti della cre­scita eco­no­mica e della tra­di­zione labu­ri­sta. A par­tire, dun­que, da quel rove­scia­mento di pro­spet­tiva che il pre­ca­riato incarna e impone all’agenda poli­tica. Gli arti­coli del mani­fe­sto costi­tui­scono un cospi­cuo reper­to­rio, ampia­mente argo­men­tato, di pos­si­bili obiet­tivi per cam­pa­gne poli­ti­che a venire. Resta tut­ta­via pro­ble­ma­tico il rap­porto tra un pro­gramma com­piuto e un sog­getto incom­piuto («in dive­nire»), por­ta­tore di sto­rie, espe­rienze e sen­si­bi­lità in parte comuni, ma in parte diver­genti. Su quali gambe potrà mar­ciare il mani­fe­sto di Standing? 

Cit­ta­di­nanza ha due signi­fi­cati prin­ci­pali. Il primo riguarda un insieme più o meno esteso di tutele, diritti, garan­zie. Il secondo una que­stione di «peso poli­tico», di capa­cità di inci­dere sulle con­di­zioni mate­riali e cul­tu­rali del vivere in società, in breve, di potere. Lo stretto nesso tra que­sti due aspetti dovrebbe essere cosa ovvia, ma non sem­pre lo è. Meno che mai in un qua­dro poli­tico di natura sem­pre più spic­ca­ta­mente postdemocratica. 

Stan­ding sem­bra affi­dare la con­nes­sione tra coscienza e capa­cità di azione al con­cetto di Voice, pro­po­sto da Albert Hir­sch­man all’inizio degli anni Set­tanta. Ma è una rispo­sta piut­to­sto debole e gene­rica. Se il suo mani­fe­sto arti­cola con pre­ci­sione l’insieme dei diritti neces­sari a tra­sfor­mare la non-cittadinanza del pre­ca­riato in piena cit­ta­di­nanza, sul secondo aspetto, la forza per irrom­pere in que­sta dimen­sione deter­mi­nan­done anche la qua­lità, rimane nell’ambiguo con­cetto di «demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva» quando non imbocca una via deci­sa­mente discu­ti­bile. Ossia quella che con­duce verso una sorta di movi­mento neocorporativo. 
Derive pro­fes­sio­nali 




Richia­mare la tra­di­zione cor­po­ra­tiva o le «comu­nità pro­fes­sio­nali» come argine con­tro la spie­ta­tezza dere­go­lata del mer­cato o il con­trollo buro­cra­tico dello stato, rima­nendo di fatto, pur denun­cian­dola, nella trap­pola, pre­di­spo­sta dall’ideologia neo­li­be­rale che con­trap­pone lavo­ra­tori a con­su­ma­tori, rap­pre­senta una deriva peri­co­losa e una seria con­trad­di­zione nella stessa argo­men­ta­zione di Stan­ding. Se la classe in dive­nire resta tale in assenza di una coscienza col­let­tiva, che senso ha pre­giu­di­carne lo svi­luppo sosti­tuen­dola, per l’intanto, con la «coscienza pro­fes­sio­nale» o con una som­ma­to­ria di coscienze pro­fes­sio­nali «coalizzate»? 
È esat­ta­mente que­sto tipo di oriz­zon­ta­lità intesa come affian­ca­mento di affe­zioni iden­ti­ta­rie poco per­mea­bili, di sto­rie sepa­rate e inco­mu­ni­canti, di «codici etici» par­ti­co­lari e pri­vi­legi di sta­tus, di abi­tu­dini e pre­ro­ga­tive acqui­site a com­pro­met­tere in radice la for­ma­zione di una forza poli­tica effi­cace. Non si tratta ovvia­mente di negare la mol­te­pli­cità irri­du­ci­bile delle sog­get­ti­vità in con­flitto con l’ordine pro­prie­ta­rio del neo­li­be­ri­smo per ricon­durla all’unicità del «Sog­getto Sto­rico della Rivo­lu­zione», ma di scon­giu­rarne la fram­men­ta­zione cate­go­riale e cor­po­ra­tiva, tenuta insieme da una labile con­ver­genza di inte­ressi, attra­verso la costru­zione di una politica. 
Pre­ca­riato, secondo le stesse osser­va­zioni di Guy Stan­ding, è in primo luogo estra­neità a una iden­tità con­fe­rita dal lavoro, com­ples­sità e mol­te­pli­cità che attra­versa il sin­golo sog­getto, neces­sità di ripen­sare modi e fina­lità dell’attività umana con­tro la tiran­nia del lavoro alie­nato. Quanto di più lon­tano, si direbbe, dalla logica dello «sta­tus» pro­fes­sio­nale e dalle rela­tive forme di coscienza. Dalla tra­di­zione cor­po­ra­tiva della comu­nità chiusa e pro­tetta. Pren­dere le distanze da que­sta sto­ria non signi­fica natu­ral­mente legit­ti­mare il deprez­za­mento o l’asservimento delle pro­prie com­pe­tenze impo­sto dalla dot­trina della com­pe­ti­ti­vità, ma aprire a una pra­tica di libertà che non ne resti inte­ra­mente pri­gio­niera o dipen­dente. Biso­gnerà pur deci­dere, insomma, se cit­ta­di­nanza signi­fi­chi un rico­no­sci­mento di sta­tus, l’inquadramento in un ruolo sociale rico­no­sciuto, oppure l’esercizio di diritti e poteri che non si pie­gano ai rap­porti di forza dati e scar­di­nano il qua­dro delle com­pa­ti­bi­lità. Stan­ding non sem­bra averlo deciso, ma del resto nean­che il pre­ca­riato lo ha ancora chia­ra­mente fatto. Sem­pre diviso tra il desi­de­rio di sta­bi­liz­zarsi nelle vec­chie forme, e quello di con­qui­stare l’agio e la «voce» a una forma di vita che vuole o deve con­ser­varsi nomade, che aspira a ren­dere effet­tiva e potente la pro­pria auto­no­mia. Nel primo caso il pre­ca­riato, qui inteso come bacino del lavoro auto­nomo o inter­mit­tente, assume la veste di una «cate­go­ria» che va ad aggiun­gersi a quelle varia­mente codi­fi­cate del pub­blico impiego, dell’industria e del ter­zia­rio, dei pen­sio­nati o degli «eso­dati», ma più debole in con­se­guenza della sua con­di­zione fram­men­tata e ricat­ta­bile. In poche parole un «pro­blema sociale», sia pure di dimen­sioni cre­scenti. Nel secondo caso si tratta di ripen­sare inte­ra­mente non solo l’impianto labu­ri­sta del wel­fare state, ma anche di imporre diversi rap­porti di pro­du­zione e distri­bu­zione della ric­chezza sociale, di orga­niz­zare, insomma, una forza col­let­tiva di nuovo conio. 

Il veleno lavorista 
E que­sto è deci­sa­mente un pro­blema poli­tico. Che, del resto, sot­tende gran parte dei punti elen­cati nel «mani­fe­sto del pre­ca­riato», ponendo una que­stione di nuova isti­tu­zio­na­lità. In radi­cale con­tra­sto con la ten­denza, oggi poli­ti­ca­mente e cul­tu­ral­mente domi­nante, che punta a rior­ga­niz­zare gli equi­li­bri sociali intorno al cosid­detto work­fare e alle sue isti­tu­zioni di con­trollo e disci­pli­na­mento. Un sistema che, nel vin­co­lare il diritto a vedersi garan­tite le con­di­zioni minime di esi­stenza all’accettazione di un lavoro quale che sia e a qual­si­vo­glia con­di­zione, blocca la mobi­lità sociale e isti­tui­sce, come ben spiega Stan­ding, un cir­colo vizioso della povertà: il lavoro mise­ra­bile scac­cia quello più gra­ti­fi­cante e red­di­ti­zio e nega ogni atti­vità non alienata. 
La cul­tura social­de­mo­cra­tica e sin­da­cale non ha saputo svi­lup­pare suf­fi­cienti anti­corpi con­tro que­sto veleno «lavo­ri­sta» che minac­cia la qua­lità stessa del vivere in società. La sog­get­ti­vità della «classe in dive­nire» potrebbe farlo a patto di non rico­no­scersi in una asso­cia­zione di gilde o in una cate­go­ria di dere­litti smer­ciati sul «secondo mer­cato» del lavoro, l’outlet di ogni capa­cità umana.

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