mercoledì 22 aprile 2015

Dal partito di Macaluso al partito di Orfini...

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Emanuele Macaluso «Il partito vive alla giornata, senza un’idea»

intervista di Andrea Garibaldi Corriere 22.4.15

ROMA «Sarà colpa della mia vecchiaia...».
Ha compiuto 91 anni da un mese, Emanuele Macaluso.
«Sì, e quando vedo centinaia di persone che muoiono in mare riesco a pensare solo a questo».
Intanto, Renzi ha fatto sostituire i membri Pd in commissione per la legge elettorale.
«Ha sbagliato! Ma che mi importa! Ci si concentra sulla legge elettorale, mentre tutto dovrebbe essere dedicato alla tragedia nel Mediterraneo».
Facendo cosa?
«Anche andando fra la gente a discuterne, perché siamo di fronte a un fatto epocale. Su questo la sinistra, non solo quella italiana, sta perdendo la faccia». Macaluso è a Sesto San Giovanni, presenta il suo libro «Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo». È stato nel Pci, dal 1951, nella Cgil, direttore dell’ Unità e del Riformista . Al Pd non si è mai iscritto.
Renzi non le piace.
«La sua qualità è di essere un riformatore in velocità. Ma oggi il Pd mi sembra un partito che vive alla giornata. Politique d’abord , politica innanzitutto, come diceva Nenni. Mai una prospettiva, un’idea per far camminare la società».
Ci sono molti casi locali nel Pd.
«De Luca condannato e candidato in Campania, sindaci veneti che si tolgono la fascia per l’arrivo degli immigrati: allineati con la Lega. Se un partito non ha cultura, identità, valori e regole, può succedere qualunque cosa».
Lei è d’accordo con la minoranza del Pd?
«Per niente. È la minoranza degli emendamenti. Il Pd non ha una cultura politica di riferimento e la minoranza non ne propone una alternativa: dovrebbe fare una battaglia per stabilire cosa è oggi il Pd».
L’era Renzi è stata preparata da ciò che è accaduto prima?
«Se penso alla campagna elettorale di Bersani nel 2013, non ricordo accenni alla politica internazionale. Eppure la sinistra si è sempre distinta per i suoi rapporti con il mondo».
E prima di Bersani?
«Dopo la svolta di Occhetto, la tensione di tutti è stata di andare al governo: D’Alema, Veltroni, Turco, perfino Mussi. Ma per fare cosa?».
Le riforme di Renzi: c’è qualcosa di sinistra?
«Ho molte riserve sulla riforma elettorale. Sulla riforma del lavoro penso che la Cgil avrebbe dovuto proporre un suo progetto, anziché dire sempre no. Ripeto, però: oggi sarebbe di sinistra occuparsi delle stragi nel Mediterraneo».
Lo fa la sinistra di altri Paesi?
«La crisi è di tutto il socialismo, europeo e mondiale. L’ultimo atto importante fu il documento sul Terzo mondo di Willy Brandt, del 1980. Poi ognuno si è ripiegato sui casi nazionali. È rimasto il Papa a occuparsi di questi temi».
Cosa racconta il suo libro su Togliatti?
«Che la Costituzione italiana esiste perché ci fu Togliatti: svolta di Salerno, Repubblica e Costituente come punti di unità fra le forze della Resistenza. La linea fondamentale del Pci fu la difesa della Costituzione».
E poi?
«Dopo la crisi del ‘92 fu totalmente cancellata la memoria della Prima Repubblica. Antipolitica, populismo, caduta della cultura politica sono il frutto della distruzione del passato. Ma una sinistra con una strategia è necessaria allo sviluppo del Paese».

Matteo Orfini “Incomprensibile gente come Bersani no alla dittatura della minoranza”
intervista di Tommaso Ciriaco Repubblica 22.4.15

ROMA Lavorerà per evitare la fiducia sulla legge elettorale. Eppure il presidente del Pd Matteo Orfini non risparmia la minoranza dem, a partire da Pierluigi Bersani: «Usano toni più duri dei leader delle opposizioni. Sono incomprensibili».
Avete sostituito dieci colleghi del Pd in commissione. A lei risulta che l’abbiano chiesto loro?
«Io ho ascoltato Cuperlo dire in assemblea che qualora i parlamentari non se la fossero sentita di rispettare la linea di maggioranza, non avrebbero chiesto la sostituzione ma l’avrebbero ritenuta legittima».
E la ritiene legittima?
«Io, Bersani, Cuperlo e altri abbiamo contribuito a cambiare il testo. L’ottanta per cento delle richieste della minoranza è stato accolto. Si è votato in direzione e al gruppo, ora il partito applica quanto scelto. In commissione e in Aula».
Resta la sostituzione di massa. Senza precedenti.
«Vero, ma è senza precedenti anche il fatto che in dieci abbiano detto di non voler riconoscere l’esito della discussione. Come si fa a immaginare di far prendere al gruppo la propria posizione personale e minoritaria? Questa è la negazione del principio democratico che regola un partito. Non c’era altra strada, quindi. Fossi stato in Bersani, Cuperlo e Bindi avrei riconosciuto l’esito della discussione o chiesto la sostituzione. Ma sa qual è la vera domanda».
Qual è, Orfini?
«Se in una situazione come questa non si rispetta l’esito di una discussione, allora come si decide in un partito? Non può valere il principio della dittatura della minoranza, né è possibile riconoscere loro un potere di veto. Lo dice uno che su molte cose è in minoranza... ».
Sempre su meno cose, no?
«Beh, di recente ho preso una posizione molto chiara su De Gennaro. Nessuno dei paladini della sinistra interna ha speso una parola. A occhio e croce nel gruppo dirigente ero in minoranza netta...».
Non potreste almeno risparmiare la fiducia sulla legge elettorale? Ci sono tre soli precedenti, uno dei quali sotto il fascismo. E se l’avesse messa Berlusconi...
«Non so, io credo che non servirà metterla. Spero che prevalga il buon senso e si rispettino le decisioni prese assieme. La fiducia sarebbe una sconfitta per tutti. Soprattutto per il Pd. Io lavorerò affinché non sia necessaria».
E Bersani? Può tornare sui suoi passi senza indebolirsi?
«Bersani è un uomo troppo esperto perché qualcuno gli dia consigli. Però una cosa devo dirla: faccio fatica a comprendere come la mancata riduzione da cento a ottanta dei capilista bloccati metta a rischio la democrazia. Diciamo che la democrazia è una cosa un tantino più complessa. E noi non la stiamo mettendo a rischio, semmai la stiamo rafforzando».
La minoranza ha i numeri per frenare l’Italicum?
«Credo di no. Perso che il Pd voterà compatto. In queste ore vedo maturare singole prese di posizione importanti, anche di chi non condivide del tutto l’impianto della legge».
Quindi non crede nella scissione?
«Di fronte ai problemi che attraversa questo Paese, registro un certo sconcerto tra la nostra gente, perché questa radicalizzazione appare strumentale. Spero che recuperino il senso delle proporzioni. Trovo incomprensibile vedere dirigenti che usano verso il governo guidato dal proprio segretario toni più duri di quelli utilizzati dai leader dell’opposizione».
Anche Renzi drammatizza, quando lega l’Italicum alla sopravvivenza del governo e della legislatura.
«Questa non è una drammatizzazione. L’impegno assunto dai partiti con Napolitano era per una legislatura costituente. Era la precondizione che giustificava maggioranze non omogenee. Se viene meno, quella indicata da Renzi è la conseguenza evidente».
Teme che le opposizioni trasformino l’Aula in un’arena?
«Spero prevalga il buonsenso. Confronteremo il discorso di Brunetta con quello di Romani. Dimostrerà la loro strumentalità».
Ci sono margini per far rientrare le dimissioni di Speranza?
«Ho detto a Roberto che ha commesso un errore. Spero voglia ritirarle. In un gruppo è possibile avere visioni differenti, ma lui ha guidato i deputati con equilibrio. Solo temo sia stato mal consigliato...».
Da Bersani?
«Buona serata».


Cuperlo: Matteo, vale la pena rompere così il partito?

“Non voglio pensare cosa succederebbe con la fiducia”

intervista di Antonella Rampino La Stampa 22.4.15

Sdrammatizza sul mancato invito alla Festa dell’Unità nel settantesimo della Liberazione a Bologna, «per me non è la prima volta, i veri problemi sono altri». Testardamente, lancia un ultimo, ennesimo appello a Renzi e alla maggioranza: «È ragionevole, è politicamente opportuno approvare la regola fondamentale della competizione democratica con una spallata? Con i soli voti della maggioranza che sostiene il governo, e neanche tutta dato che il Pd è spaccato?». Gianni Cuperlo è il politico che contese alle primarie il ruolo di segretario del Pd proprio a Renzi e che poi, divenuto presidente del partito, si dimise in una polemica scoppiata - era il gennaio del 2014 - proprio sull’Italicum. Parlandogli, si capisce che il punto dolente, anche oltre l’Italicum, è la violenta spaccatura nel Pd. Un partito che né Cuperlo né gli altri delle minoranze interne hanno intenzione di lasciare, come si comprende bene anche da questa intervista.
Cosa non la convince sull’Italicum?
La legge elettorale perfetta non esiste, ma qui non convince la combinazione con la riforma costituzionale. L’assetto complessivo di un sistema elettorale che porterà un Parlamento composto a prevalenza da nominati dei vertici dei partiti e con una riforma del Senato che lo trasformerà in un ibrido, né assemblea delle garanzie, né assemblea delle autonomie.
Secondo lei Renzi ha accelerato sull’Italicum perché la riforma costituzionale è a rischio?
Orsina proprio sulla Stampa ha chiamato la legge Prorenzum e l’ha definito il male minore, credo rispetto al Porcellum. Ma accettando di discutere ancora si potrebbe arrivare a un risultato importante. Renzi vuole che l’Italicum resti così, al più ci aggiungerebbe un punto esclamativo. Ma arrivarci col solo sostegno della maggioranza, e neanche tutta vista la profonda frattura nel Pd, vale la pena?
Intanto i dieci della minoranza Pd sono stati sostituiti in blocco, e le altre opposizioni hanno abbandonato anche loro la Commissione...
È la prima volta nell’intera storia parlamentare repubblicana che si procede a una sostituzione di questa entità, e tra quei dieci ci sono il precedente segretario del partito, la precedente presidente... È ragionevole, dato anche il clima politico che c’è nel Paese? Non è così che si vara la legge regina delle regole di rappresentanza politica. Mi appello ancora a Renzi perché cerchi e trovi una soluzione. Allargando e non restringendo lo schieramento che voterà per le riforme.
Cosa farete?
La battaglia si sposta in Aula.
Farete squadra con le altre opposizioni?
Voteremo insieme quello che ci sembrerà giusto. Nessuno di noi della minoranza Pd vuole impedire che la riforma tagli il traguardo, nessuno vuole un danno al governo, nessuno di noi vuole male al Pd. Teniamo al principio del confronto dentro il Parlamento: le regole comuni si scrivono insieme, poi ci si divide sulla politica.
Che farete se il governo porrà la fiducia?
Non voglio neanche pensarci. Sarebbe uno sfregio pure alla prassi parlamentare.
La fiducia sulla legge elettorale però la mise un politico del calibro di Alcide De Gasperi nel ’53....
«La mise su una legge elettorale che si chiamò truffa, ma che prevedeva un premio per chi avesse conquistato una maggioranza oltre il 50 per cento dei voti».
E De Gasperi poi vinse o perse le elezioni?
«Le vinse».
(O le perse? La Dc, con Psdi, Pri e Pli alle elezioni del ’53 non raggiunse il 50 per cento che avrebbe fatto scattare il premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale, ndr.) 

Dal voto rinnegato al trionfo della tattica
di Barbara Fiammeri Il Sole 22.4.15
La storia della Repubblica di «strappi» ne ha visti parecchi. Ma quel che sta avvenendo sull’Italicum regala nuovi e certo poco lusinghieri episodi «senza precedenti». È da un anno e mezzo che si discute di riforma elettorale. Giusto un anno fa arriva il primo sì della Camera. Poi, dopo una lunga trattativa sia all’interno della maggioranza che con Fi, a gennaio il Senato partorisce il nuovo Italicum. Passano poco più di due mesi e tutto viene nuovamente rimesso in discussione. Forza Italia arriva addirittura alla scelta estrema di seguire M5S, Sel e Lega nell’abbandono dei lavori della commissione, per protestare contro la decisione del Pd di sostituire i deputati della minoranza interna, i quali a loro volta sono divisi sia sul merito delle modifiche all’Italicum sia sulle modalità per esprimere il dissenso.
Un caos che probabilmente ha poco a che fare con i contenuti della legge elettorale. Difficile infatti credere che la battaglia contro il mancato ritorno alle preferenze invocato dalla minoranza dem rappresenti davvero una minaccia per la democrazia, quando fu proprio la sinistra a schierarsi per prima contro quello che un tempo veniva ritenuto il volano del voto di scambio. E altrettanto poco credibile è Fi, che oggi si schiera contro una riforma definita di stampo autoritario e che proprio Silvio Berlusconi nei mesi scorsi non aveva mancato di apprezzare pubblicamente e sulla quale si era consumata la rottura con Raffaele Fitto.
Certo la minoranza Pd può rivendicare che già in occasione del passaggio a Palazzo Madama aveva manifestato il proprio dissenso abbandonando l’aula al momento del voto. E Renato Brunetta, capogruppo alla Camera di Fi, non mancherà di ricordare che in questi tre mesi si è consumata la rottura del Patto del Nazareno sull’elezione del Capo dello Stato. Ma basta tutto questo per giustificare la scelta aventiniana? E perché la minoranza Pd ritiene legittimo non rispettare le decisioni della maggioranza del proprio gruppo?
Quel che emerge è che l’obiettivo, il vero e forse unico obiettivo, è Matteo Renzi. Il premier ne è consapevole. Per questo metterà la fiducia sui quattro articoli della legge elettorale. Un altro strappo, non c’è dubbio. E per altro non sufficiente a garantirgli di passare indenne dal fuoco incrociato che si aprirà a Montecitorio in occasione del voto finale, che sarà segreto. È ovvio che se il governo ottenesse la fiducia ma poi la maggioranza venisse meno nel voto segreto, Renzi, come ha già detto e ripeterà, salirà al Quirinale per rassegnare le dimissioni e chiedere il ritorno davanti agli elettori. Una prospettiva che spaventa non pochi, anche nelle opposizioni, tanto che c’è già chi parla di un esercito di «franchi soccorritori». Le divisioni dentro Fi sono già palesi. E non si tratta solo dei deputati che fanno capo a Denis Verdini (una decina) ma di quei tanti peones che temono di vedersi tagliati fuori per sempre dal Parlamento perché non inclusi tra i “fedelissimi”. Discorso che vale ovviamente anche per gli ex grillini e per i tanti che grazie al Porcellum sono diventati «onorevoli». 

Il rischio-crisi sul doppio voto alla Camera
di Marcello Sorgi La Stampa 22.4.15
Il vicesegretario del Pd Guerini l’ha definita “cagnara”. E magari poteva pure risparmiarselo, visto il clima assai teso che si respira da ieri attorno ai primi passi dell’Italicum in Commissione Affari Costituzionali alla Camera: dove, usciti i dieci oppositori interni della legge rimossi dal vertice Democrat, sono entrati dieci sostituti renziani e le opposizioni in blocco hanno deciso per l’Aventino.
Praticato così spesso, sostanzialmente tutte le volte che arriva alla Camera un provvedimento importante per il governo, l’Aventino delle opposizioni - cioè l’assenza ostentata dai lavori parlamentari, per lasciare la maggioranza da sola a votare - , il metodo di protesta che richiama nientemeno quello delle opposizioni al tempo del fascismo, rischia di perdere di significato. La convergenza di partiti così diversi, Forza Italia, Sel, Movimento 5 stelle, Fratelli d’Italia, con Salvini e la Lega indecisi fino all’ultimo se aderire o distinguersi, restando in aula, prima in commissione, poi nell’assemblea plenaria, per metter in scena una protesta spettacolare, è fin troppo chiaramente occasionale. La disponibilità all’ascolto venuta in un primo momento dal Quirinale, dove le delegazioni delle opposizioni vennero ricevute all’inizio del mandato di Mattarella, s’è molto raffreddata, e il Capo dello Stato ha reagito con il silenzio alle richieste di intromettersi nell’eventuale decisione di Renzi di porre la fiducia sui quattro articoli della legge elettorale, per accorciare il sofferto iter parlamentare.
In questo senso la parola “cagnara”, usata da Guerini, sintetizza in modo inopportuno, ma non lontano dalla realtà, una reazione mirata solo alla facciata di un passaggio, duro, sì, ma ormai praticamente deciso, dato che le riserve espresse, sia da Scelta civica, sia da Ncd sul voto di fiducia mirano a un chiarimento in corso d’opera con il premier, ma non saranno mantenute fino all’ultimo se, come sembra, Renzi deciderà di andare avanti lo stesso con la fiducia.
Resta da vedere quale sarà l’atteggiamento della minoranza Pd, o almeno della sua parte più consistente. Immaginare Bersani, Cuperlo, D’Attorre, Fassina e Rosi Bindi votare con Brunetta, Grillo e Giorgia Meloni, sarebbe stato impossibile fino a qualche giorno fa. Da oggi è una possibilità concreta, anche se magari in alcuni casi prevarrà la soluzione dell’uscita dall’aula o dell’assenza al momento del voto.
Inoltre, poiché il regolamento della Camera prevede che nella votazione conclusiva il testo sul quale è stata posta la fiducia venga votato due volte, la seconda nel merito, Brunetta ha annunciato che chiederà lo scrutinio segreto. Un brivido finale che in teoria, ma in pratica non succederà, potrebbe portare pure alla crisi di governo, in caso di risultati difformi delle due votazioni.
Repubblica 22.4.15
L’Italicum e i feriti del Pd la vittoria sarà a caro prezzo
Il premier rischia di affrontare con un partito indebolito il protrarsi delle difficoltà dell’economia
di Stefano Folli


LA BIZZARRA storia della riforma elettorale si avvia alla conclusione in un crescendo di effetti speciali che nascondono anche qualche ambiguità. Sul campo resterà un certo numero di feriti e un vincitore, uno solo, chiuso nel suo isolamento. Ma resterà soprattutto un vecchio partito a pezzi, il Pd, che ora può solo diventare in tutti i sensi il partito del premier. Fra lacerazioni e traumi che raramente in politica portano fortuna, almeno nell’immediato.
Gli effetti speciali sono sotto gli occhi di tutti: i dissidenti del Pd sostituiti in Commissione, le opposizioni che abbandonano i lavori in una sorta di mini-Aventino, l’ipotesi del voto di fiducia sullo sfondo, inevitabile innesco di ulteriori, aspre polemiche. Tuttavia non tutto è come sembra. Giorni fa era già circolata voce che gli esponenti della minoranza Pd avrebbero lasciato la Commissione, facendosi sostituire dai «renziani», per non essere costretti a votare contro il testo di una riforma non condivisa. Ma allora si disse che questo scambio era un modo per non esasperare le tensioni, in sostanza per salvare il salvabile della convivenza interna. Lo stesso Bersani disse a un certo punto: «penso che mi farò sostituire».
Il problema è che poi gli eventi accadono e gli esiti non sono sempre prevedibili. Una sostituzione concepita forse per non frantumare il Pd, rinviando i nodi all’assemblea di Montecitorio, è diventata strada facendo una frattura dolorosa e non facile da sanare. La ragione è semplice: le varie opposizioni hanno sfruttato la scia delle divisioni nel centrosinistra per un attacco ad ampio spettro contro il presidente del Consiglio, nel tentativo di costringerlo all’angolo e di mostrarne la solitudine. Renzi, dal canto suo, ha probabilmente sottovalutato la sfida, trascinato dal suo temperamento e dal desiderio di non apparire mai, per nessuna ragione, un leader che si piega. Un leader, anzi, che tiene soprattutto alla sua immagine e alla sua leggenda: abbastanza sprezzante da qualificare come «cagnara» i tormenti più o meno giustificati di un segmento del Parlamento e in particolare di una porzione non secondaria del suo stesso partito.
Il risultato è che egli otterrà probabilmente la sua riforma elettorale. Ma a un prezzo politico tutt’altro che trascurabile. La otterrà più per i limiti dell’opposizione interna, priva di autentica coesione e di una vera strategia, che per i propri meriti. Una riforma cruciale, qual è la legge elettorale, meritava di essere approvata da una platea vasta, com’era nelle intenzioni originarie. Invece, salvo incidenti di percorso provocati dal voto segreto, sarà una vittoria di Pirro. L’ostinazione di un uomo solo al comando che sventola la bandiera strappata al nemico.
Dopo questa prova, egli avrà nelle sue mani un potente strumento di potere, l’Italicum. Quando cederà alla tentazione di usarlo per completare l’opera, cioè per escludere dal Parlamento i suoi nemici interni e definire i contorni di una legislatura «renziana», fondata su una sola Camera? È chiaro che occorre attendere il completamento della riforma del Senato. Ed è qui che si spostano adesso le tensioni e le richieste di correggere in qualche punto la legge costituzionale, così da non approfondire gli squilibri emersi. Poi avremo il referendum confermativo, destinato a trasformarsi — nella visione di Palazzo Chigi — in una sorta di plebiscito a favore del premier. A quel punto verificheremo se la promessa di votare alla scadenza naturale del Parlamento, nel 2018, reggerà alla prova dei fatti.
Quel che è certo, la vita residua della minoranza all’interno del Pd sarà sempre più faticosa. Ma è pur vero che si tratta di un gruppo abbastanza eterogeneo. Qualcuno cercherà un accordo con il leader, altri potrebbero essere tentati dalla scissione a sinistra, con l’idea di costruire una specie di «Linke» all’italiana (tuttavia non Bersani, non D’Alema e altri che hanno vissuto gli ultimi vent’anni del Pci). Il rischio è che il partito di Renzi, nato da uno strappo così netto, possa incontrare qualche ostacolo di troppo se la condizione economica del paese non migliorerà in fretta.

Dissidenti-premier Ormai non è più solo lite tattica
La sfida finale si fa rischiosa per il governodi Federico Geremicca La Stampa 22.4.15
Matteo Renzi - è cosa nota - è un grande appassionato di calcio. Anzi, diciamo pure un supertifoso: di quelli - e siamo in tanti - che va bene anche vincere al novantesimo, magari con un gol in fuorigioco o un rigore molto dubbio. Il premier-tifoso, infatti, sa che in classifica e negli annali - alla fine - resteranno i tre punti e la vittoria, e che tutto il resto verrà dimenticato. Ora, che la regola “il risultato prima di tutto” possa funzionare anche in politica, resta da vedere.
Ma diciamo che, da quando è a Palazzo Chigi, Renzi sta sfidando lo sfidabile per dimostrare che è così. Solo chi conosce poco il modo di intendere la politica del più giovane premier della storia repubblicana poteva dunque sperare che, giunto a un passo dal traguardo, Renzi si fermasse di fronte a obiezioni e riserve che considera discusse e ridiscusse per un anno intero. E oggi, giunti al criticissimo punto cui si è giunti, solo gli ottimisti e i distratti (colpevolmente distratti) possono sperare che, in presenza di dissensi o di richieste di voto segreto, Renzi non ponga la questione di fiducia anche sulla legge elettorale.
Salvo colpi di scena dell’ultima ora, infatti, è largamente prevedibile che andrà a finire così. Anche in questo caso, insomma, per il premier conta prima di tutto il risultato: che sarà incassato - se sarà incassato - con la convinzione che tra sei mesi quel che ricorderanno i cittadini è che il Paese ha finalmente una nuova legge elettorale, e non come e perchè quella legge sia stata approvata.
Tutto ciò può non piacere, naturalmente: ma nessuno potrà, onestamente, gridare alla sorpresa. Se c’è una cosa che Renzi non ha mai nascosto, infatti, è proprio questo metodo spiccio di intendere la politica e il governo del Paese: e non è azzardato immaginare che anche questo approccio sia alla base del successo ottenuto dal segretario-premier fuori e dentro il Pd. E’ la parabola del trapano (Renzi) e del cacciavite (Letta). Oppure, per tornare a immagini calcistiche, del pressing a tutto campo dopo anni di “melina”...
E’ chiaro, naturalmente, che la forzatura in atto sull’Italicum potrebbe non restare senza conseguenze e incidere pesantemente sul percorso della legislatura. Dopo la rottura con Silvio Berlusconi, infatti, i margini (non solo numerici ma soprattutto di manovra politica) si sono fatti assai più stretti. Quanto stretti, in realtà, dipende da quel che deciderà la minoranza del Pd dopo aver incassato l’ennesima sconfitta (l’approvazione dell’Italicum) preceduta da una inedita mortificazione (la sostituzione in blocco nella commissione Affari costituzionali). E qui - per fortuna di Renzi... - si arriva alle note più dolenti.
A 16 mesi dalla conquista della segreteria da parte dell’ex sindaco di Firenze ed a 14 dall’avvento a palazzo Chigi, le minoranze interne al Partito democratico continuano a non trovare il bandolo della matassa. La loro azione appare talvolta così appannata e contraddittoria che, anche in un caso clamoroso come quello della loro sostituzione in commissione Affari costituzionali, quel che sembra destinato a impressionare di più l’opinione pubblica non è il “colpo di mano” del premier quanto - piuttosto - l’Aventino annunciato da tutte le opposizioni.
Eppure, i margini di incertezza circa la linea da tenere dovrebbero essersi ormai ridotti ad una sorta di dentro o fuori. E cioè: o nel Pd, preparando la rivincita al Congresso che verrà; oppure fuori dal Pd, nella convinzione che Renzi abbia talmente cambiato obiettivi, natura e perfino “ragione sociale” del partito che far finta di nulla non sia più possibile. La parola scissione resta impronunciabile, e lo si capisce: quel che non si intende - o non si intende ancora - è quale sia l’alternativa.
Da questo punto di vista, lo scontro finale sull’Italicum rappresenta un passaggio delicatissimo e difficilmente eludibile: soprattutto se Renzi dovesse porre la questione di fiducia. Si può riconfermare sostegno ad un governo che - a parte il resto - tra riforma del bicameralismo e della legge elettorale prepara l’avvento del presidenzialismo, sottopone a “torsioni” la democrazia e tradisce le tradizioni della sinistra italiana? E’ questo l’interrogativo che aleggia sulle mosse delle minoranza pd. La risposta non è né facile né indolore: eppure è proprio una risposta netta e chiara che oggi è necessaria. Pena, spiace dirlo, l’irrilevanza politica: che per chi fa politica è il peggio che c’è.

Italicum L’urgenza (sospetta) del premier
di Antonio Polito Corriere 22.4.15
L’altro giorno, in un dibattito radiofonico, il deputato pd Roberto Giachetti ha giustificato così la sostituzione dei dissidenti in Commissione: «Il gruppo del mio partito si è espresso, e ha votato all’unanimità a favore dell’Italicum». Si riferiva alla riunione in cui tutti i parlamentari democratici contrari alla legge erano usciti e avevano votato solo i favorevoli. Tecnicamente, l’unanimità.
L a stessa vertigine di unanimità si è avuta ieri nella commissione Affari costituzionali, dalla quale sono usciti tutti i deputati delle opposizioni, dai Cinquestelle a Forza Italia, dalla Lega a Sel, e sono rimasti solo i renziani di complemento, in sostituzione dei dissidenti, più i resti di Scelta civica. Ma se è vero che la democrazia è il potere della maggioranza di decidere, come Renzi ha ieri ripetuto, è anche vero che la maggioranza ha bisogno di una minoranza per essere chiamata tale.
Al momento, la minoranza non c’è; e c’è un rischio elevato che non ci sia neanche in aula, se come è ormai probabile il governo metterà la fiducia sulla legge elettorale.
Naturalmente i nemici dell’Italicum non sono tutti disinteressati combattenti per la libertà. C’è chi, come in Forza Italia, ha approvato fino a ieri quella legge e ora la combatte perinde ac cadaver ; c’è chi nel Pd confonde l’opposizione a Renzi con la Resistenza; c’è chi ne approfitta per fare cagnara come i leghisti.
Ma la domanda da rivolgere al premier è perché stia dando a tutti costoro l’occasione per trasformare il dibattito parlamentare su una materia così delicata e rilevante in una corrida, come quella che portò qualche settimana fa, nottetempo, all’approvazione di una quarantina di nuovi articoli della Costituzione con un risicato numero di voti, spesso inferiori alla maggioranza assoluta, in un’aula semideserta. E soprattutto se pensa che ripetere lo stesso spettacolo sull’Italicum sia un buon viatico per la legge che deve regolare il sistema della rappresentanza parlamentare si spera nei prossimi cinquant’anni; e se così si possano dare basi solide a una riforma costituzionale ancora da completare, che per una definizione molto cara al Pd dovrebbe essere «condivisa».
Diciamoci la verità, l’Italicum in sé non è un’opera dell’ingegno così mirabolante da meritare una difesa a oltranza contro ogni cambiamento: il premier stesso l’ha ammesso, nessuna legge elettorale è perfetta. D’altra parte la necessità di approvarlo in fretta è contraddetta nella stessa legge da una clausola che ne rinvia l’entrata in vigore all’1 luglio del 2016, cioè tra più di un anno. Né il premier può più dire di essere vincolato ai patti del Nazareno, che sono stati rinnegati dall’altro contraente.
Tutto ciò autorizza il sospetto che dietro l’ansia di Renzi di chiudere la partita anche a costo di fare la figura di chi reprime il dissenso nel suo partito e in Parlamento ci sia l’urgenza di disporre al più presto dell’arma finale della legislatura.
E in questo crescente sospetto si annida per lui il rischio maggiore. Perché finora i deputati sono stati persuasi che se non passa l’Italicum vanno a casa. Ma che succede se si convincono che vanno a casa se p

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