“Essere compagni è un tormento Ma non mi pento: io resto comunista”
intervista di di Silvia Truzzi il Fatto 7.4.15
Giornalista a l’Unità, sindaco di Torino per un decennio durante gli
anni di piombo, deputato per quattro legislature: falce, martello e
ricordi DIEGO NOVELLI è nato a Torino il 22 maggio 1931. Nel 1950 entra
all’Unità, di cui nel 1961 assume la direzione della redazione
piemontese. Ha fondato (nel 1972) e diretto la rivista Nuova Società, è
presidente dell'Associazione L’Altraitalia che nell’88 ha promosso la
nascita del settimanale Avvenimenti. È stato direttore editoriale del
settimanale La Rinascita della sinistra. Nel 1975 viene eletto sindaco
di Torino, carica che ricopre fino al 1985. Dal 1979 al 1982 è stato
presidente della Federazione mondiale delle città unite, che riunisce i
sindaci dei cinque continenti. Eletto al Parlamento europeo nel 1984,
dal 1987 al 2001 è stato deputato della Camera per quattro legislature. È
stato membro del Comitato centrale del Pci fino allo scioglimento del
partito. Nel ‘91, con Leoluca Orlando, Nando dalla Chiesa, Claudio Fava,
Alfredo Galasso ha dato vita al movimento politico e culturale La Rete.
Pensi: vai a casa di uno dei pochi comunisti rimasti in circolazione e
ti aspetti almeno di vedere una falce e martello, un ritrattino di
Gramsci... Invece no: qui ci sono tantissime madonne e cristi di legno.
Di tutte le misure: sarebbe la gioia del Don Camillo di Giovannino
Guareschi. “Ho la passione per le vecchie statue lignee”, spiega Diego
Novelli con la testa ancora china su un articolo che sta ultimando per
Nuova società. “In giro si trovano soprattutto immagini sacre. La
religione non c’entra”. Sul grande tavolo Ritratti, volti del mio
Novecento, il libro uscito per Melampo. E già le bozze del prossimo
Testimoni del nostro tempo.
C’era una volta l’età dell’oro, una famiglia che “stava molto bene:
aveva una villa, la Balilla con l'autista. E la governante, si chiamava
Ultimia... Ah e poi l’ombrellone sulla spiaggia di Pietrasanta: mio
padre era direttore generale dello stabilimento di una società belga”.
Ma sono gli anni bui del Regime e quindi c'è anche un nonno socialista
ammazzato di botte dai bravacci con le camicie nere, e un papà che perde
molti lavori perché si rifiuta di prendere la tessera del Pnf. “È lì –
racconta il padrone di casa – che comincia un’epoca di povertà, di
dignitosa miseria. Ed è lì che nasco io. Mia madre comincia a lavorare
per le forniture militari. Aveva tirato fuori dalla soffitta la macchina
della nonna, la Singer, e si era messa a cucire le divise per i
soldati. Mi mettevo vicino a lei, con le forbici, a tagliare i pezzi.
Intanto mio padre non può più entrare nei locali pubblici. E incomincia a
frequentare l'oratorio dei Salesiani, dove c'era una filodrammatica per
soli uomini. Un prete, don Provera, gli trova un posto da manovale al
vecchio ospedale San Giovanni, a impalare carbone dentro le caldaie. E
va avanti così, fino al ‘41. Però nell'oratorio ci ritroviamo tutti,
perché eravamo quattro ragazzi. Walter era effettivo seniores, Ezio era
degli effettivi juniores. Così come io, a scuola, ero Figlio della Lupa,
Alfio era Balilla, Ezio era Avanguardista”.
Che ricordi ha del Fascismo?
Quando arrivava qualche gerarca importante, un giorno prima veniva un
questurino a casa mia. Era tanto una brava persona, mia madre gli
offriva il caffè e poi preparava la borsa con il pigiama e le ciabatte.
Portavano papà al commissariato nella camera di sicurezza, perché era
catalogato ‘sovversivo’. Lui li chiamava ‘quelli dal pulàst’ perché
avevano quell’aquila dorata, schiacciata sul cappello, che sembrava un
pollo. Nel ‘41 improvvisamente la miseria si attenua un po’. Mio papà
trova lavoro al silurificio di Rijeka, a Fiume. Una volta ogni tre
settimane tornava a casa con ogni ben di Dio. C’era il tesseramento: non
c’era lo zucchero, non c’era la pasta, non c’era l’olio... non c’era il
sale! Arrivava con una valigia strana, fatta di fogli di compensato e
tutta sigillata con la ceralacca, con un cartellino ‘Arsenale Militare
di Torino, Piazza Borgo Dora - Vietato aprire’. Papà passava tutti i
posti di blocco della Polizia annonaria. Lì siamo risorti...
Poi nel 42 vi bombardano casa.
Era l’8 dicembre. Il nostro palazzo aveva le cantine e gli infernotti,
che erano diventati il rifugio di tutto il quartiere perché era un posto
sicuro. La bomba ha centrato l’angolo dell’edificio: calcinacci, urla,
feriti e qualche morto. Una cosa bestiale, un inferno. Mi ricordo la
polvere, i pezzi della volta a botte. Io sono stato il primo a uscire,
perché ero mingherlino. Dal cortile sono andato in strada, dove c’era
tutto un bordello di pompieri e poliziotti. Hanno sgomberato le scale
che si erano riempite di macerie e hanno liberato tutti. Noi ragazzi
siamo andati a raccogliere gli infissi che lo spostamento d’aria aveva
staccato dai balconi e dalle finestre. Abbiamo fatto un grande falò e ci
siamo riscaldati così, fino al pomeriggio tardi. Poi è arrivato mio
zio, il fratello di mia madre, a vedere cosa era successo, se eravamo
vivi. Ci ha portati a Lombardore, dove lui abitava, a 18 chilometri da
Torino. Facevo su e giù da Torino tutti i giorni per andare a scuola. In
bicicletta o in treno.
Che succede dopo la guerra?
Torniamo a Torino. All’oratorio, un giorno, un prete chiede a me e a un
altro ragazzino di andare a vendere dei libri usati. Prendiamo il tram
numero 20 e scendiamo in Piazza Castello con una valigia pesantissima.
Ma il negozio è chiuso. E allora la scelta di una fermata del tram
decide la mia vita. Il mio amico voleva andare a prendere il tram in
Piazza Castello, ma io avevo insistito per andare alla fermata di via Po
che era più vicina. Mentre siamo lì ad aspettare, di fronte a noi
vediamo la vecchia libreria Gissi. E in vetrina un cartello ‘Compriamo
libri usati’. Ci siamo fiondati dentro e abbiamo cominciato a trattare
con il padrone. Si chiamava ragionier Momigliano. Alla fine mi dice:
‘Ragazzo, verresti a lavorare da noi durante l’estate’? Sono andato e
poi, siccome erano contenti di me, un giorno il padrone ha chiamato mia
mamma e le ha detto: ‘A noi piacerebbe tanto che Diego rimanesse. Gli
paghiamo la scuola privata serale’. Così son rimasto lì a lavorare e
sono andato a scuola di sera. Poi ho trovato lavoro in un’altra libreria
famosa di Torino, l’Internazionale Treves. Mi piaceva moltissimo,
perché c’erano libri rari ed era ben frequentata. Per esempio Cesare
Pavese veniva sempre da noi.
Che tipo era Pavese?
Uno che rompeva un po’ l’anima perché mi buttava sempre all’aria il
bancone delle riviste. La nostra era l’unica libreria di Torino che
teneva tutte le pubblicazioni internazionali: dal Krokodil russo ai
periodici americani... Pavese è morto proprio nelle mie ultime settimane
di lavoro lì. Ero un fanatico di Pratolini, il mio idolo. Poi leggevo
tantissimo, durante la giornata, quando in negozio non c’era nessuno...
Comunque Pavese mi consigliava di variare le letture. Intanto con i suoi
libri, ovviamente. Ma i romanzi di Pavese non mi entusiasmavano, l’ho
letto meglio dopo.
Era già comunista?
Nel ‘45 mi ero iscritto al Fronte della Gioventù, dove erano presenti
tutte le forze politiche del Comitato di Liberazione: l’avevano fondato
Eugenio Curiel ed Enrico Berlinguer. I miei fratelli erano stati
partigiani ed erano comunisti. Nel ‘48 avviene la rottura con
l’oratorio.
La scomunica dei bolscevichi sovversivi?
Con un gruppo di amici iscritti al Fronte della Gioventù, vediamo che
una domenica, prima della messa, vengono distribuiti dei volantini per
la Democrazia cristiana: ‘Votate Gioacchino Quarello’, direttore del
Popolo Nuovo. La domenica dopo senza dir niente, andiamo lì con i
volantini del Fronte popolare, comunisti e socialisti che si
presentavano alle elezioni sotto il simbolo di Garibaldi. Don Zanantoni,
il direttore dell’oratorio, sale sul pulpito e ci arringa per nome,
‘giovani depravati’. Apriti cielo: c’invita a lasciare i banchi, con mia
madre, terziaria francescana, che piange a dirotto.
Quando comincia a fare il giornalista?
Nell’estate del ‘50, quando scoppia la guerra in Corea: due giorni prima
avevo ricevuto una telefonata da Celeste Negarville che era uno dei
dirigenti del Pci cui poi ci saremmo molto legati. Intendo noi che nel
‘56 esprimemmo riserve sull’aiuto ‘fraterno’ dei carri armati sovietici
al popolo ungherese. A Torino in sei abbiamo firmato un documento,
scritto al tavolino di Pollastrini, il ristorante che stava di fronte
alla redazione de l’Unità. Con me c’erano Italo Calvino, Paolo Spriano,
Gianni Rocca – che poi è diventato vicedirettore di Repubblica –
Adalberto Minucci, futuro membro della segreteria del partito, e Luciano
Pistoi, il critico d’arte. C’era stato l’assalto alla redazione dello
Szabad Nép, l’Unità ungherese. Qualche compagno – i primi della classe,
quelli che dopo si sono “scongelati” – diceva ‘noi siamo col mitra
davanti alla sede dello Szabad Nép per sparare contro gli insorti
fascisti e agli amici cardinale Mindszenty! ’. È stato Negarville a
esprimere riserve in direzione con Giuseppe Di Vittorio. Mentre il buon
Pietro Ingrao, al quale ho mandato un telegramma adesso per i suoi
cent’anni, aveva pubblicato il famoso articolo di fondo sull’Unità, ‘Da
che parte stare’.
Torniamo al suo esordio all’Unità.
Negarville mi chiama e dice: ‘Diego, sei l’unico compagno che abbiamo
sul mercato librario di Torino. Dobbiamo chiudere la libreria dell’Unità
di via Roma e portarla dentro la sede del giornale: dovresti venire a
dirigerla’. E io, quando il partito chiama... A un certo punto, qualche
tempo dopo, mi dicono: ‘Non potresti il pomeriggio buttare un occhio
sull’archivio del giornale? ’. È stato il più bel lavoro che ho fatto:
avevo il mondo in mano. L’archivio – pensa alle cose della vita – era
confinante con la stanza della cronaca cittadina: ‘Diego, non potresti
fare un giro in bicicletta? ’. Stavo due ore in archivio il pomeriggio e
poi con la bici facevo il giro dei commissariati. Ho cominciato con la
cronaca nera. Il primo articolo firmato in terza pagina, è del luglio
‘51. S’intitolava: ‘Scelba ha paura di Berlino’. C’era il festival
internazionale della gioventù democratica e Scelba non voleva dare i
passaporti ai giovani italiani...
Quando comincia a occuparsi di politica?
Dopo la nera ho iniziato a fare la sindacale. Dopo, la giudiziaria e nel
‘55 mi hanno messo a fare la politica, in modo particolare il Comune,
la cronaca delle sedute. Nel ‘60 mi chiedono: ‘Potresti candidarti al
consiglio comunale? ’. Tieni conto che ho sempre avuto una strana
posizione. Non ero proprio un funzionario di partito a tempo pieno.
Cioè, ero un battitore libero. Di fatti dicevano ‘Eh, ma Diego non è un
dirigente politico, l'è un giurnalè’... per sfottermi, no? Così inizia
la mezzadria con la federazione del Pci, perché io non ho mai lasciato
il giornale. Adesso devo dire che mi fa tristezza l’Unità chiusa... Ma
hanno ragione quelli che dicono che, se riapre, bisogna togliere Gramsci
dalla testata.
Nel ‘75 diventa sindaco.
Anche lì per sbaglio. Mi chiedono di fare il capolista, visto che ero
già capogruppo. Io dico ‘Sì, ma sappiate che fra sei mesi mi dimetto
perché non ne ho più voglia’. Correvo il rischio che in municipio gli
uscieri mi scambiassero per una suppellettile e mi togliessero la
polvere: cinque anni come cronista, tutti i giorni lì e poi dal ‘60 al
‘75 consigliere comunale.
Lei ha scritto reportage da tutto il mondo.
Mi prendevo delle pause. Allora funzionava così: ti chiamavano e ti
dicevano parti e vai in Giappone. Mentre sei in Giappone, per
risparmiare, fai un salto in Australia. Si dà il caso che in Giappone
era estate, in Australia era inverno. Tortorella, che era il mio
direttore allora, mi telefonò: ‘Diego comprati un maglione, vai in
Australia che ti aspettano i compagni immigrati lì, e ci fai
un’inchiesta sui lavoratori italiani’. Nel ‘71 sono stato due mesi in
Sicilia, con Berlinguer perché si era ammalato il resocontista
ufficiale. Non il ghostwriter perché Enrico non si è mai fatto scrivere i
discorsi. Però aveva un giornalista, Ugo Baduel, molto bravo che lo
seguiva.
Parliamo di Berlinguer.
Una persona eccezionale, lo dico sottovoce perché non mi vorrei far
prendere da questa mania del pantheon, delle figurine. Enrico era
esattamente il contrario della personalizzazione, della mitizzazione.
Anche se quella malalingua che era un altro mio grande amico, Giancarlo
Pajetta, diceva: ‘Si è iscritto da bambino alla segreteria del partito’.
Anche Giancarlo aveva grande stima di Berlinguer, ma aveva sognato di
fare lui il segretario... Era proprio negato, Pajetta, a fare il
segretario.
Premier e ministri, i nuovi dirigenti del Pd
sono i nipotini di Berlinguer?
Ma dove sono gli eredi di Berlinguer? Dammi un nome. Uno. Mi fa
tristezza anche il modo in cui si comportano tra di loro, si rimangiano
le dichiarazioni. Berlinguer diceva: ‘Se il giorno dopo devi spiegare
quello che hai detto, vuol dire che hai sbagliato’. Questa classe
dirigente mi preoccupa, mi angoscia. Non ho nostalgia, perché considero
la nostalgia un disvalore. Ho memoria però, che è una cosa diversa. E
questi la memoria dove l’han messa? Presa e gettata nel cestino? Sarà
davvero tutto da buttare, tutto da rottamare?
Ritorniamo al 1975.
Eh, succede il patatrac del 15 giugno. Noi vinciamo le elezioni: trenta
consiglieri del Pci e undici dei socialisti. Un seggio di maggioranza.
Sono andato avanti cinque anni con un seggio di maggioranza. Se c’era
uno con l’influenza ero finito. La sera dei risultati era tutto un
gridare: ‘Diego sindaco, Diego sindaco’. Ero terrorizzato, poi io
somatizzo tutto, mi piglia il reflusso, mi è venuta anche l’ernia iatale
lì. Avevo la nausea. Mi sono perfino augurato un malore, non grave,
come via d’uscita.
Si trova ad affrontare una situazione disastrosa in quegli anni...
Il bilancio del Comune era in passivo, al contrario del pareggio che
avevano presentato per anni: i conti erano un disastro, feci subito
l’inventario della città. Ci volevano centinaia di milioni per fare
tutte le cose necessarie, e dove andavo a prenderli? I primi mesi non
avevo i soldi per pagare i tranvieri, per pagare i vigili urbani.
Abbiamo fatto dei mutui.
Mi riferivo alla situazione politica, però.
Torino in quegli anni era una polveriera: qui il terrorismo aveva messo
le sue radici. Tutte le mattine uscivo di casa e non sapevo cosa mi
aspettava. Tutti i giorni c’era un gambizzato, un attentato, un incendio
in una fabbrica, un blocco stradale.
Qualche anno dopo poi la Fiat comincia a licenziare.
Già, ho vissuto anche la marcia dei quarantamila. Che anni!
Com’erano gli Agnelli?
Erano due persone completamente diverse, Gianni e Umberto, e secondo me
Umberto ha del credito nei confronti di Torino e anche nei confronti
della famiglia. L’Avvocato era tutto scoppiettante, non ti lasciava mai
parlare. Ti invitava, perché voleva sapere, conoscerti... poi parlava
sempre lui. Umberto invece aveva capito molte cose. Nella stanza di là
abbiamo fatto una riunione, riservatissima, con lui, Luciano Lama, e il
segretario della Camera del Lavoro di Torino, Emilio Pugno. E lui mi
aveva mandato due giorni prima un documento, che conservo: 14 cartelle
dattiloscritte. Provavo a far dialogare la Fiat con la sinistra: non mi
riuscì.
Che pensa dei sindaci della sinistra dopo di lei, per esempio Fassino e Chiamparino?
Chiamparino è uno un po’ spregiudicato, un filino di cinismo in lui
c’è... Poi è una persona intelligente, è uno della squadra che abbiamo
allevato. Fassino, Chiamparino... li abbiamo allevati tutti noi, io,
Pecchioli e Minucci. Fassino è un generoso, è un lavoratore
instancabile. Anche se quando uno dichiara ‘non sono mai stato
comunista’... O, come ha detto in un’intervista ‘mi sono iscritto al Pci
per combattere il comunismo’... E Veltroni che afferma ‘non mi sono
iscritto al Pci, mi sono iscritto al partito di Berlinguer’. Dico: ma
Berlinguer cos’era, il presidente della Confraternita di San Vincenzo?
Perché comunista è diventata una brutta parola? E non penso a Berlusconi.
È stata stuprata dal socialismo reale, da milioni di morti. Noi da
ragazzi sognavamo il socialismo, poi abbiamo visto cos’era la realtà: il
socialismo reale. Tant’è che, nei primi anni Sessanta, mi rifiutai di
andare a fare il corrispondente a Mosca, su proposta di Mario Alicata.
Per un giornalista dell’Unità andare a Mosca era come per un prete
andare in Vaticano.
In Italia l’esperienza del Partito comunista non è stata una storia di
gulag e dittatura. Non è stata certamente sinonimo di quelle porcherie
lì!
Però i rapporti con la Russia sono stati più che equivoci...
Lo abbiamo ampiamente ammesso. Gianni Cervetti l’ha scritto che
prendevamo dei soldi. Come gli altri li prendevano dall’America, del
resto. Ricordo una riunione del comitato centrale: io sono seduto nelle
prime file, si discute del finanziamento pubblico ai partiti. Ero
contrario, Berlinguer viene a saperlo. Quando entro nel salone al quinto
piano del comitato centrale, mi manda Armando Cossutta. Che mi dice:
‘Sai, Enrico voleva chiederti se puoi evitare di sparare contro il
finanziamento pubblico... ’. ‘Ma io la penso così, Armando. Non so... ’.
‘Enrico mi ha chiesto di farti sapere che noi in questo modo ci
liberiamo da vecchi legami, e te lo dice uno che questi legami li ha
coltivati personalmente per molti anni’.
Lei è ancora comunista?
Perché non dovrei? Non ero comunista perché avevo la tessera in tasca,
oggi non sono un non comunista perché non ce l’ho più. Mi sento un
vedovo, anche se una volta mia moglie mi ha pregato di usare un’altra
metafora...
... lo sa che in città dicono, ancora oggi!, che a Torino ci sono molti Rom perché lei aveva una moglie Rom?
Ma sopravvive ancora, questa leggenda? Ovviamente è una sciocchezza. Il
fatto è che la nostra amministrazione aveva regolamentato i campi. C’era
un posto di blocco: chi entrava doveva dare i documenti e se non li
aveva glieli facevano all’istante, comunicando che da quel momento non
poteva più cambiar nome come spesso facevano. Ho messo anche le docce.
Non ha risposto: che vuol dire oggi essere comunisti?
Credere nei valori dell’uomo. Ti racconto un altro aneddoto. Una sera
avevo un appuntamento in Curia, con una grande personalità, un uomo
eccezionale, il professor Pellegrino, il cardinale. Un uomo dal volto
ieratico, sembrava Buster Keaton. Io ero un po’ giù in quel periodo. E
mi lascio scappare: ‘Non ne posso più, se potessi pianto lì tutto. Lei
ha la fede, io non ce l’ho più’. Lui mi guarda con uno sguardo feroce e
risponde: ‘Lei pensa che la fede sia una cosa così banale? Guardi che la
fede è un tormento, perché tutti i giorni le chiede delle verifiche sul
campo. E poi non è vero che lei non crede in Dio. Se la ricorda la
proprietà transitiva? A è Dio, B sono gli uomini, C è lei: C dice che
non crede in A, ma dice che crede nei valori dell’uomo, cioè in B.
L’uomo è Dio, perché fra i valori dell’uomo c’è Dio. Lei crede nei
valori dell’uomo, nella solidarietà, nell’onestà, nell’uguaglianza. E
questi sono i principi che ritrova nel Vangelo. Se la veda un po’ lei’.
Hai capito, che roba?
Anche essere un comunista è un tormento?
Certo, soprattutto quando vedi certe cose fatte da gente che si qualifica comunista.
L’altra Chiesa...
Ma guarda che la caricatura del Pci come mostro noioso, serio,
monolitico non corrisponde al vero. Le sezioni erano posti da
frequentare anche la domenica sera, per ballare. Alle 23 la musica
s’interrompeva per un breve ‘richiamo politico’. Un discorso, la
solidarietà ai lavoratori di una fabbrica in crisi o una lotteria. Il
biglietto all’ingresso dava diritto a un’estrazione a premi. Vincevi
libri o abbonamenti a Vie nuove. Le sezioni del Pci producevano
iniziative in continuazione. E non solo politiche.
A proposito delle riforme alcuni costituzionalisti hanno parlato di svolta autoritaria.
Lei è d’accordo?
Che ci siano degli atteggiamenti che suonano in un modo preoccupante,
non c’è dubbio. Il ragazzo – lo dico senza paternalismo, ma è davvero
giovane – quando è iniziata la sua ascesa, l’ho seguito con curiosità.
Non mi dispiaceva. Da come ha fatto fuori Letta però si capiva già
molto. Troppa supponenza e scarsa tolleranza per chi non la pensa come
lui. Altro che il tanto vituperato centralismo democratico!
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