lunedì 27 aprile 2015
Il 25 aprile tra antifascismo e antifascistismo
La lunga marcia revisionista dei vinti
25 aprile. In Italia, il «crollo del Muro» è stato l’episodio usato per demonizzare l’antifascismo. E per equiparare i «rossi» ai «neri»
Angelo d'Orsi, il Manifesto 25.4.2015
Che il 1989 abbia cambiato la carta geopolitica del mondo è acclarato, al di là dei giudizi di merito. Non è altrettanto evidente che quell’evento – il cosiddetto «crollo del Muro», e i susseguenti avvenimenti sino allo scioglimento dell’Urss alla fine di dicembre 1991 – comportò conseguenze culturali rilevanti, a loro volta foriere di esiti politici. Prima fra tutte, l’ondata revisionistica, che ha attaccato tutto il plurisecolare ciclo rivoluzionario, dalla Bastiglia, alla Rivoluzione d’Ottobre, al biennio rosso post Grande guerra, sino alla rivoluzione antifascista, cercando sistematicamente di svilirne il significato prima e poi di ribaltare il giudizio storico su ciascuno di questi eventi.
Ribadiamo intanto la distinzione tra revisione e revisionismo. La prima è una pratica ineludibile della ricerca storica, ossia la correzione, l’aggiunta, l’integrazione sulla base di nuovi documenti, o del perfezionamento delle tecniche della ricerca, o, infine, della capacità soggettiva dei singoli studiosi di porre domande nuove; mentre il revisionismo è un orientamento culturale, che nasce sul terreno della storiografia, si allarga, e, progressivamente, si trasforma in una ideologia politica. Se in Francia il revisionismo ha preso di mira soprattutto la Grande Révolution del 1789, in Italia e Germania, le potenze sconfitte nella Secondo conflitto europeo, esso ha affrontato essenzialmente il nodo «fascismo, antifascismo, Resistenza». In Germania Ernst Nolte non attese l’89, aprendo la controversia sul cosiddetto «passato che non passa», volta a durare a lungo, che, nelle sue intenzioni, doveva cancellare il senso di colpa dei tedeschi, rovesciando la frittata: la colpa originaria era dei bolscevichi, a cui semplicemente il nazismo aveva dato una risposta, per la quale l’Europa tutta doveva esprimere gratitudine, anziché riprovazione, a Hitler, a dispetto dei suoi «eccessi», condannabili, per aver fermato il comunismo.
Anche il padre del revisionismo di casa nostra, Renzo De Felice, aveva avviato per tempo il proprio cammino, fin dal primo volume della sua monumentale biografia di Mussolini, a metà degli anni Sessanta. Da allora fu una corsa in discesa, prima verso il giustificazionismo, poi verso una vera e propria rivalutazione del fascismo. Se confrontiamo le due principali esternazioni pubbliche dello storico l’Intervista sul fascismo, del 1975, e Rosso e nero, del 1995, capiamo bene la fuoruscita del revisionismo, dalla storiografia alla politica. In quei vent’anni v’è, appunto, lo spartiacque del 1989: il «crollo»; in Italia, la Bolognina. La battaglia contro l’asserita «egemonia» della sinistra aveva segnato intanto un primo punto a suo favore con la pubblicazione di un’opera importante di uno studioso di fede democratica, con un passato partigiano, Claudio Pavone, Una guerra civile, che appare nel 1991.
Benché quel grosso volume parlasse di tre distinte guerre, quella di liberazione nazionale, quella sociale, ossia di classe, e, infine, la guerra civile, fu quest’ultima a cancellare le altre due, con la destra che gongolava: «Noi lo dicevamo! Fu una guerra civile… Avete dovuto attendere che fosse un nome “di sinistra” a scriverlo, per crederci?». Ovviamente l’utilizzo del libro di Pavone si limitava pressoché esclusivamente al titolo, sebbene l’autore spiegasse che quello era soltanto il sottotitolo, mentre il titolo da lui proposto all’editore (Bollati Boringhieri), era Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Si trattò comunque di un’apertura di credito, sia pure involontaria, verso quell’ambigua espressione («guerra civile»), che ha senso fino a un certo punto: era evidente, ad esempio, che la guerra sociale era anche una guerra civile, e che comunque enfatizzare il concetto implicava l’idea che vi fosse un’equa divisione di forze e altresì una equiparabile legittimità dei combattenti. Mentre così non era né sul primo piano, né sul secondo.
L’uso ideologico del libro di Pavone produsse effetti direttamente politici. Luciano Violante, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera (aprile 1996), accreditò i «ragazzi di Salò». Marcello Pera, ancor prima di diventare presidente del Senato, sostenne che era tempo di finirla con la «Repubblica nata dalla Resistenza».
Insomma, a dispetto degli studi rigorosi portati avanti da storici seri, fu il revisionismo a prevalere, con lavori di seconda o terza mano, e soprattutto sui media. Diventò una moda la polemica contro la «vulgata antifascista», insistendo sul carattere minoritario dei resistenti, sulla distinzione tra fascismo e nazismo, e soprattutto menando furiosi colpi ai comunisti italiani, colpevoli «a prescindere».
Infine cominciarono a circolare due parole d’ordine: la «morte della patria» (l’8 settembre ’43) e la «zona grigia», divenendo presto uno stucchevole mantra. Se con la prima si dava il colpo decisivo allo stesso avvio della Resistenza, insinuando che la patria vera fosse quella monarco-fascista, con l’altra, la «zona grigia», si lodavano gli italiani che non si schierarono, che avevano come unico scopo sopravvivere, indifferenti alla contesa tra «rossi» e «neri». I revisionisti distribuirono «equamente» torti e ragioni: nasceva la retorica della «memoria condivisa», in nome di una «pacificazione» adeguata al clima postcomunista e neoliberale.
Era ormai avviata la contronarrazione della Resistenza. L’antifascismo, tanto più se di matrice comunista, era sul banco degli imputati. La lotta armata veniva additata come un insieme di azioni inutili, quando non addirittura controproducenti.
Poi, la polemica revisionistica investì le «vendette» del post-25 aprile. Il soffermarsi sui «crimini» dei partigiani (idest, comunisti), implicava una totale disattenzione ai contesti: in Italia, come altrove, all’indomani della fine del conflitto, vi furono regolamenti di conti spiegabili alla luce degli eventi e dei contesti. Invece, ora della lotta partigiana rimaneva soltanto il sangue: quello dei vinti, per riprendere il titolo del primo volume di Giampaolo Pansa, che da allora diede avvio a una saga antiresistenziale; il suo successo fu una prova della raggiunta egemonia del revisionismo, nella sua forma più estrema, il «rovescismo». L’anti-Resistenza divenne un prodotto a fini commerciali, oltre, e forse prima ancora, che politici. Il punto di non ritorno in questa vicenda fu l’istituzione, nel marzo 2004 con voto condiviso, del «Giorno del ricordo»: la narrazione delle foibe, divenne il cuore della costruzione di un senso comune antiresistenziale, anti-antifascista e soprattutto anticomunista.
Sbaglierebbe a considerare tutto ciò un fenomeno italiano. E ancor più se pensasse che si tratta di materiale per la futura storia della cultura. Basti uno sguardo all’Europa, dove accanto alla rinascita di movimenti politici di destra estrema, o dichiaratamente neofascisti e neonazisti, abbiamo potuto vedere in questi ultimi anni prese di posizione istituzionali agghiaccianti, a partire dalle ultime polacche, che hanno negato addirittura il ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione del Campo di Auschwitz; o alla legislazione ungherese che sta non solo «riscrivendo» la storia del paese, a uso di un’affiliazione ideologica al più estremo neoliberismo, ma sta applicando misure punitive verso coloro che abbiano avuto qualsiasi tipo di connessione col comunismo; o, ancora all’Ucraina, dove addirittura i neonazisti sono al potere, accanto a forze «liberali», con la connivenza di Usa e Ue, e si vietano addirittura i simboli del comunismo, e immagino, presto si riaccenderanno i roghi dei libri.
Un elenco di miserie intellettuali che sono tuttavia vittorie politiche. E tutto ciò, ricordiamolo, è anche esito del revisionismo, scatenato, nella sua ultima versione «rovescista», precisamente dal crollo del 1989.
Oggi celebrare il 70° della Liberazione dovrebbe implicare forse innanzi tutto l’avvio di una controffensiva culturale. Vogliamo provarci?
La razza al servizio della classe
25 Aprile. Il valore della Costituzione sta nell’essere un argine alla «naturalizzazione» delle differenze sociali che caratterizzava il fascismo
Alberto Burgio, il Manifesto 25.4.2015
Abbiamo avuto in questi anni molte riprove della statura dei padri Costituenti, statura politica, intellettuale e morale, quindi storica: consistente nella capacità di situare nel tempo lungo interpretazioni e deliberazioni, sottraendole alle chimere della contingenza. Ne è conferma, al negativo, l’ossessione dei recenti governi di stravolgere la Carta del ’48 per neutralizzarne il nòcciolo di senso: l’antifascismo come ferma volontà di impedire che il paese ricada sotto un comando autocratico e si ordini secondo escludenti logiche gerarchiche: «di casta» direbbe Antonio Gramsci, che sulla natura del fascismo – sulla sua arcaica modernità – ragionò a lungo.
Chiarire qui perché l’ispirazione antifascista della Costituzione debba essere a ogni costo sradicata; perché il nesso che collega la Carta all’esperienza della lotta partigiana debba essere infranto mediante gesti «riformatori» che veicolano la damnatio della Resistenza antifascista: chiarire tutto ciò porterebbe lontano. Basti osservare che l’idea di società che guidò il lavoro dei Costituenti sorgeva dalla convergenza di tre obiettivi, confluenti nel principio di uguaglianza e tendenzialmente confliggenti con l’ordine capitalistico: partecipazione democratica, autogoverno collettivo, massima espansione della cittadinanza attiva. Era un’idea antitetica alla configurazione concreta che il capitalismo viene assumendo da trent’anni a questa parte sull’onda della rivoluzione conservatrice reaganiana. Dagli anni Ottanta – e con più violenza dalla fatidica caduta del Muro di Berlino – sono sempre più forti le spinte al «rinnovamento» della Costituzione del ’48, percepita come intralcio alla modernizzazione del paese, cioè al suo consacrarsi alla centralità del mercato e alla sovranità del capitale privato, quindi alla totale mercificazione di quel lavoro che la Carta pone invece a fondamento della democrazia repubblicana.
Tra le riprove dell’intelligenza politica e storica dei Costituenti è cruciale la ripresa esplicita della questione-chiave della tragedia epocale della prima metà del Novecento. Il principio di uguaglianza di cui si diceva è enunciato nell’articolo 3 della Carta, che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono lo sviluppo delle persone e l’«effettiva partecipazione» dei lavoratori all’«organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo stesso articolo afferma la «pari dignità» dei cittadini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Razza: come va letto questo nome? E perché evocarlo insieme alle altre forme della differenza nel dettato solenne della Costituzione? Non era forse definitivamente morto il nazifascismo, che sull’ideologia della «razza» si era fondato e che per realizzare un Nuovo Ordine basato sulla gerarchia «razziale» (uno spazio europeo «purificato» dagli «inferiori»: non solo ebrei, «negri» e «zingari», ma anche omosessuali, minorati e comunisti, nella farneticante ideologia del giudeobolscevismo assimilati alla «feccia giudaica») aveva messo a ferro e fuoco l’Europa e il mondo?
Il fatto è che i padri Costituenti non concepivano il fascismo come un’invasione barbarica né come una parentesi. Vi riconobbero il portato del sottosuolo della storia italiana, il frutto avvelenato della patogenesi dello Stato nazionale. Con queste tare occorreva fare i conti nella costruzione della nuova Italia per preservarla da altre avventure. Malgrado il mito autoassolutorio degli «italiani, brava gente» era ben chiara, almeno ai più avvertiti, la normalità italiana nel quadro della modernizzazione europea: nel contesto delle dinamiche interconnesse di unificazione territoriale, costruzione della sfera politico-istituzionale e definizione del campo della cittadinanza (con le sue articolazioni interne e i relativi dispositivi di inclusione, esclusione e subordinazione).
Assunte queste lenti critiche, le magnifiche sorti e progressive della grande trasformazione che tra il 1848 e il 1918 avevano portato a compimento l’unificazione territoriale e politica e l’ibridazione antropologica del paese – le sorti narrate nell’oleografia dei miti fondativi del Risorgimento e della Grande guerra – dichiaravano la propria miserabile prosa. Il paese si rivelava solcato da faglie profonde, accomunate dall’essenziale nucleo operativo dell’invenzione delle «razze»: la naturalizzazione della differenza sociale ed economica, di genere, culturale (etica, religiosa e linguistica), «etnica» (storica e territoriale) e persino politica e ideologica.
«Razza» non è, nel linguaggio della modernità europea, soltanto il «negro» immigrato dalle colonie al cospetto del suo signore bianco. È anche il meridionale («sudicio») dinanzi al settentrionale («ario»); il marginale (variamente «deviante») confrontato al cittadino «normale»; il nomade rispetto al residente; il proletario anarchico o comunista rispetto al benpensante; il cafone confinato nell’idiotismo dialettale rispetto al colto; e la donna (di ogni classe sociale, salvo eccezioni; ma in particolare la popolana) rispetto al maschio padre e padrone. La struttura piramidale che queste polarità producono, innervata dalla violenza e dalla negazione dell’universale umano, non è certo una specificità italiana. Ma non è vero che l’Italia sia per grazia di dio immune dalla fenomenologia della subordinazione antropologica che articola – insieme alla costruzione del mercato capitalistico, e come suo (non omogeneo) corollario funzionale – la logica stessa della modernità borghese. Subordinazione antropologica che nel fascismo mussoliniano compie un salto di qualità (si pensi all’uso dell’iprite in Etiopia e alle leggi antisemite del ’38) per la sua essenza nazionalista e patriarcale e per effetto dell’alleanza col Reich hitleriano e dell’introiezione delle sue logiche sterminatrici.
Il 25 aprile del 1945 fu liberazione anche da questo cupo orrore. Ma fu piena liberazione? O un retaggio del razzismo storico è rimasto nel corpo della Repubblica nonostante la cesura di settant’anni fa? Non occorre essere perfezionisti per dare una risposta affermativa a quest’ultima domanda. Non solo il «terrone» è a lungo rimasto nel nostro lessico famigliare, in compagnia dello «zingaro», del «bifolco» e – anche al di fuori dell’arcipelago dei siti neonazisti – dello «sporco giudeo deicida». Non solo il nostro resta un paese ipermaschilista che convive pacificamente con la discriminazione sessista nell’accesso al lavoro, nelle carriere e nelle retribuzioni. Anche le risposte delle istituzioni e del senso comune alla sfida dell’immigrazione, esplosa coi primi anni Novanta, attestano la persistenza di vecchi pregiudizi (i mangiatori di banane cari agli ultras e ai vertici del calcio sono la punta di un iceberg) e l’attitudine degli stereotipi tradizionali a virare su sempre nuovi bersagli (ieri i polacchi e gli albanesi, oggi i rumeni; ieri i vu’ cumprà, oggi soprattutto gli «islamici») per il buon profitto degli imprenditori politici del razzismo nostrano.
Insomma, cambiano le forme, e i mutamenti sono rilevanti. È decisivo che l’Italia non si ispiri più programmaticamente a una gerarchia «razziale» e al contrario abbia solennemente sancito il principio dell’uguaglianza universale, che è la base che la Costituzione offre alla lotta per la democrazia e la trasformazione. Ma ciò non dissolve il nesso costitutivo tra subordinazione e riproduzione sociale che fonda la società borghese e che è la fonte del razzismo come pratica discriminatoria e come dispositivo ideologico di legittimazione. Bisogna saperlo, contro il luogo comune che il razzismo sia un residuo arcaico destinato a sparire con l’andar del tempo. No, la lotta sarà ancora lunga e aspra. Come dimostrano anche le cronache di questi anni e mesi – con le cacce all’uomo nero nelle campagne del Sud, gli attentati ai campi rom, l’exploit della Lega in sansa lepenista – «non siamo che all’inizio».
Luzzatto: «È storia di uomini e donne. Non il monolite di Kubrick»
Come si è trovato nei panni dello storico di sinistra
accusato di intendenza con il nemico, di fornire argomenti ai nemici
dell’antifascismo?
Sono stato molto deluso dalla qualità del dibattito mediatico attorno
al mio libro. Hanno prevalso le ossessioni identitarie della
sinistra. Non parlo della destra, dalla quale mi aspetto sempre poco.
Ma se il libro mi è tornato in faccia non è stato per le reazioni dei
recensori laureati, piuttosto per quelle dei lettori, in
particolare i lettori legati ai personaggi della mia storia. Sono
tornato in Val d’Aosta perché subissato di testimonianze di prima
o seconda mano. Settant’anni sono tanti, forse troppi dal punto di vista
di una memoria collettiva o istituzionale, ma sono pochi da un
punto di vista della memoria privata o personale. Lo storico deve
muoversi tra queste due dimensioni. Può ricostruire accuratamente
quello che trova negli archivi, ma poi si scontra con verità molto più
discutibili e provvisorie, che però hanno un tasso di genuinità
molto forte. La vita postuma di Partigia mi ha risarcito delle
capziose, superficiali e spesso ignoranti critiche di chi magari
il mio libro non l’aveva neanche letto.
Se ha continuato le ricerche perché non ha scritto ancora, magari per replicare ai critici?
Volevo fare una lunga prefazione all’edizione economica, poi ho
rinunciato. Ho trovato solo conferme alla mia ricostruzione. Avrei
scritto per pura polemica. Tenga conto che dalla comunità ebraica ho
ricevuto una vera e propria fatwa, attacchi di una modestia
culturale imbarazzante. La Resistenza e Primo Levi sono due poli
della mia bussola civile, l’ho anche scritto nel libro. Pensavo che ci
si potesse avvicinare a questi due oggetti storiografici
mettendo da parte la venerazione del cittadino…
Che in lei resta intatta?
Totalmente. Ma la sinistra non si rende conto che finché tratta la
Resistenza come il monolite da venerare di 2001 Odissea nello
spazio regala gli argomenti del revisionismo alle controparti più
indecenti.
Il libro è uscito in pieno battage revisionistico, come
poteva non mettere in conto questo tipo di critiche, e di consensi?
Ho detto che sono rimasto deluso, non sorpreso. Speravo però che la
sinistra, il fronte culturale antifascista, fossero preparati
a fare i conti con la storia che ho cercato di raccontare. Se non
altro perché non sono stato certo il primo con questo tipo di
sensibilità a scandagliare i versanti più o meno oscuri della
storia dei partigiani. La migliore storiografia degli istituti
della Resistenza lo fa da tanti anni, almeno dalla fine degli Ottanta.
Solo che è condannata a un respiro locale e allora le uniche cose che
restano sulla scena del grande pubblico sono i lavori di chi, per
esempio il famoso Giampaolo Pansa, in realtà è il primo a sapere che
in quelli istituti della Resistenza si fa storia in un modo molto
simile a quello che ho cercato di praticare io.
Sul famoso Giampaolo Pansa lei ha un giudizio articolato.
Diversamente da quanti ritengono che tutto quello che ha scritto
sulla Resistenza non valga niente, io cerco di distinguere. C’è un
primo Pansa, quello dei libri degli anni Sessanta e Settanta dedicati
alla lotta partigiana nel Monferrato, secondo me straordinario,
pioneristico nel metodo storiografico. Questo confonde le cose,
non lo si può accusare di essere un ignorante; mi vengono in mente
pochi studiosi accademici che conoscono le fonti e gli archivi come
lui. Poi, a partire dagli anni Novanta, ha mollato gli ormeggi
ideologici e metodologici e ha finito per scadere in forme
narrative pasticciate e inaccettabili dal punto di vista del
giudizio storico.
Quest’anno non si è sentita alcuna delle polemiche che
hanno accompagnato i precedenti 25 aprile, eppure siamo a un
anniversario importante. Secondo lei si sta concludendo, magari
per sfinimento, la guerra della memoria?
È un segnale dei tempi. In fondo ancora nel 2005, e moltissimo nel
94–95, il 25 aprile alimentava una forma di polarizzazione
ideologica. Certo, allora c’era Berlusconi che disertava le
manifestazioni o metteva il maglione girocollo segnalando
indifferenza anche con il linguaggio del corpo. Ma penso che se il
25 aprile sta passando più o meno inosservato è perché anche da
questo punto di vista il partito della nazione di Renzi non fa
prigionieri. Un immenso centro è occupato da un discorso pubblico
lontanissimo da qualunque preoccupazione rispetto alla memoria
della Resistenza. Una classe politica giovane per anagrafe,
giovanilista per ideologia e nichilista dal punto di vista
valoriale non ha alcun interesse per i significati profondi del 25
aprile.
Sta descrivendo una rimozione più che una pacificazione.
Eppure non è impossibile che il 25 aprile diventi per noi quello che
il 4 luglio è per gli americani o il 14 luglio per i francesi. Non
bisogna farsi confondere dalla moltiplicazione delle date, ormai
non c’è quasi più giorno che non sia il giorno di qualche cosa. Il 25
aprile — con il 27 gennaio giorno della memoria — rimarrà “la” data.
La destra ha perso la sua scommessa e il “giorno del ricordo” funziona
al massimo per qualche piccola polemica, non ha la rilevanza
civile per stare sullo stesso piano dell’anniversario della
Liberazione. Ma i tempi della storia sono lunghi. Gli americani
per riconoscersi attorno al 4 luglio come festa davvero condivisa
hanno dovuto far trascorrere circa cento anni, fino all’indomani della
loro guerra civile. I francesi lo stesso, il 14 luglio è stato per un
secolo terreno di battaglia. Mi sembra che il paragone si presti.
Perché quando una data segna la fine di una guerra civile è ovvio che
non può imporsi dall’oggi al domani. Occorre che passi la generazione
di chi quella guerra l’ha combattuta e forse anche la generazione
dei figli. Noi, appunto, siamo ai nipoti.
Ho detto prima che non ci sono state polemiche mettendo da
parte quella di Roma, perché mi pare si spieghi più con le
difficoltà nei rapporti tra la sinistra e la comunità ebraica
romana, o per converso con la facilità nei rapporti tra quest’ultima
e la destra, che con una diversa visione della guerra di Liberazione.
Non crede?
Penso che ci sia anche qualcosa di più: la difficoltà di innestare
la politica sulla storia. Quando la comunità ebraica romana dice che
è scandaloso cacciare le bandiere con la stella di David perché c’è
stata una brigata ebraica, ebrei di Palestina che hanno combattuto
insieme con gli alleati, ha perfettamente ragione. Se si vuole
restare sul terreno della storia è piuttosto la bandiera di
Palestina ad avere poco senso nel corteo del 25 aprile, perché non si
ricordano reparti palestinesi che abbiano contribuito a liberare
l’Italia ed effettivamente ci sono state forme di compromissione
con i nazisti delle gerarchie palestinesi. Il problema è che gli
anniversari per definizione parlano del rapporto tra passato
e presente. E nei settant’anni che sono trascorsi, la bandiera con la
stella di David è diventata anche una bandiera di oppressione, o più
esattamente di occupazione dei territori altrui. Se dunque ci
domandiamo chi ha maggiore o minore diritto di festeggiare i valori
di libertà ed emancipazione del 25 aprile, purtroppo l’Israele di
Netanyahu e di un’interpretazione molto distorta e reazionaria
dell’ideale sionista ha pochi galloni da appuntarsi. La polemica di
tanti filo palestinesi a buon mercato può essere capziosa, ma
è purtroppo pertinente.
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