lunedì 27 aprile 2015

Il 25 aprile tra antifascismo e antifascistismo


La lunga marcia revisionista dei vinti 

25 aprile. In Italia, il «crollo del Muro» è stato l’episodio usato per demonizzare l’antifascismo. E per equiparare i «rossi» ai «neri»

Angelo d'Orsi, il Manifesto 25.4.2015

Che il 1989 abbia cam­biato la carta geo­po­li­tica del mondo è accla­rato, al di là dei giu­dizi di merito. Non è altret­tanto evi­dente che quell’evento – il cosid­detto «crollo del Muro», e i sus­se­guenti avve­ni­menti sino allo scio­gli­mento dell’Urss alla fine di dicem­bre 1991 – com­portò con­se­guenze cul­tu­rali rile­vanti, a loro volta foriere di esiti poli­tici. Prima fra tutte, l’ondata revi­sio­ni­stica, che ha attac­cato tutto il plu­ri­se­co­lare ciclo rivo­lu­zio­na­rio, dalla Basti­glia, alla Rivo­lu­zione d’Ottobre, al bien­nio rosso post Grande guerra, sino alla rivo­lu­zione anti­fa­sci­sta, cer­cando siste­ma­ti­ca­mente di svi­lirne il signi­fi­cato prima e poi di ribal­tare il giu­di­zio sto­rico su cia­scuno di que­sti eventi. 
Riba­diamo intanto la distin­zione tra revi­sione e revi­sio­ni­smo. La prima è una pra­tica ine­lu­di­bile della ricerca sto­rica, ossia la cor­re­zione, l’aggiunta, l’integrazione sulla base di nuovi docu­menti, o del per­fe­zio­na­mento delle tec­ni­che della ricerca, o, infine, della capa­cità sog­get­tiva dei sin­goli stu­diosi di porre domande nuove; men­tre il revi­sio­ni­smo è un orien­ta­mento cul­tu­rale, che nasce sul ter­reno della sto­rio­gra­fia, si allarga, e, pro­gres­si­va­mente, si tra­sforma in una ideo­lo­gia poli­tica. Se in Fran­cia il revi­sio­ni­smo ha preso di mira soprat­tutto la Grande Révo­lu­tion del 1789, in Ita­lia e Ger­ma­nia, le potenze scon­fitte nella Secondo con­flitto euro­peo, esso ha affron­tato essen­zial­mente il nodo «fasci­smo, anti­fa­sci­smo, Resi­stenza». In Ger­ma­nia Ernst Nolte non attese l’89, aprendo la con­tro­ver­sia sul cosid­detto «pas­sato che non passa», volta a durare a lungo, che, nelle sue inten­zioni, doveva can­cel­lare il senso di colpa dei tede­schi, rove­sciando la frit­tata: la colpa ori­gi­na­ria era dei bol­sce­vi­chi, a cui sem­pli­ce­mente il nazi­smo aveva dato una rispo­sta, per la quale l’Europa tutta doveva espri­mere gra­ti­tu­dine, anzi­ché ripro­va­zione, a Hitler, a dispetto dei suoi «eccessi», con­dan­na­bili, per aver fer­mato il comunismo. 
Anche il padre del revi­sio­ni­smo di casa nostra, Renzo De Felice, aveva avviato per tempo il pro­prio cam­mino, fin dal primo volume della sua monu­men­tale bio­gra­fia di Mus­so­lini, a metà degli anni Ses­santa. Da allora fu una corsa in discesa, prima verso il giu­sti­fi­ca­zio­ni­smo, poi verso una vera e pro­pria riva­lu­ta­zione del fasci­smo. Se con­fron­tiamo le due prin­ci­pali ester­na­zioni pub­bli­che dello sto­rico l’Intervista sul fasci­smo, del 1975, e Rosso e nero, del 1995, capiamo bene la fuo­ru­scita del revi­sio­ni­smo, dalla sto­rio­gra­fia alla poli­tica. In quei vent’anni v’è, appunto, lo spar­tiac­que del 1989: il «crollo»; in Ita­lia, la Bolo­gnina. La bat­ta­glia con­tro l’asserita «ege­mo­nia» della sini­stra aveva segnato intanto un primo punto a suo favore con la pub­bli­ca­zione di un’opera impor­tante di uno stu­dioso di fede demo­cra­tica, con un pas­sato par­ti­giano, Clau­dio Pavone, Una guerra civile, che appare nel 1991. 
Ben­ché quel grosso volume par­lasse di tre distinte guerre, quella di libe­ra­zione nazio­nale, quella sociale, ossia di classe, e, infine, la guerra civile, fu quest’ultima a can­cel­lare le altre due, con la destra che gon­go­lava: «Noi lo dice­vamo! Fu una guerra civile… Avete dovuto atten­dere che fosse un nome “di sini­stra” a scri­verlo, per cre­derci?». Ovvia­mente l’utilizzo del libro di Pavone si limi­tava pres­so­ché esclu­si­va­mente al titolo, seb­bene l’autore spie­gasse che quello era sol­tanto il sot­to­ti­tolo, men­tre il titolo da lui pro­po­sto all’editore (Bol­lati Borin­ghieri), era Sag­gio sto­rico sulla mora­lità della Resi­stenza. Si trattò comun­que di un’apertura di cre­dito, sia pure invo­lon­ta­ria, verso quell’ambigua espres­sione («guerra civile»), che ha senso fino a un certo punto: era evi­dente, ad esem­pio, che la guerra sociale era anche una guerra civile, e che comun­que enfa­tiz­zare il con­cetto impli­cava l’idea che vi fosse un’equa divi­sione di forze e altresì una equi­pa­ra­bile legit­ti­mità dei com­bat­tenti. Men­tre così non era né sul primo piano, né sul secondo. 
L’uso ideo­lo­gico del libro di Pavone pro­dusse effetti diret­ta­mente poli­tici. Luciano Vio­lante, nel discorso di inse­dia­mento alla pre­si­denza della Camera (aprile 1996), accre­ditò i «ragazzi di Salò». Mar­cello Pera, ancor prima di diven­tare pre­si­dente del Senato, sostenne che era tempo di finirla con la «Repub­blica nata dalla Resistenza». 

Insomma, a dispetto degli studi rigo­rosi por­tati avanti da sto­rici seri, fu il revi­sio­ni­smo a pre­va­lere, con lavori di seconda o terza mano, e soprat­tutto sui media. Diventò una moda la pole­mica con­tro la «vul­gata anti­fa­sci­sta», insi­stendo sul carat­tere mino­ri­ta­rio dei resi­stenti, sulla distin­zione tra fasci­smo e nazi­smo, e soprat­tutto menando furiosi colpi ai comu­ni­sti ita­liani, col­pe­voli «a prescindere». 

Infine comin­cia­rono a cir­co­lare due parole d’ordine: la «morte della patria» (l’8 set­tem­bre ’43) e la «zona gri­gia», dive­nendo pre­sto uno stuc­che­vole man­tra. Se con la prima si dava il colpo deci­sivo allo stesso avvio della Resi­stenza, insi­nuando che la patria vera fosse quella monarco-fascista, con l’altra, la «zona gri­gia», si loda­vano gli ita­liani che non si schie­ra­rono, che ave­vano come unico scopo soprav­vi­vere, indif­fe­renti alla con­tesa tra «rossi» e «neri». I revi­sio­ni­sti distri­bui­rono «equa­mente» torti e ragioni: nasceva la reto­rica della «memo­ria con­di­visa», in nome di una «paci­fi­ca­zione» ade­guata al clima post­co­mu­ni­sta e neoliberale. 

Era ormai avviata la con­tro­nar­ra­zione della Resi­stenza. L’antifascismo, tanto più se di matrice comu­ni­sta, era sul banco degli impu­tati. La lotta armata veniva addi­tata come un insieme di azioni inu­tili, quando non addi­rit­tura controproducenti. 

Poi, la pole­mica revi­sio­ni­stica inve­stì le «ven­dette» del post-25 aprile. Il sof­fer­marsi sui «cri­mini» dei par­ti­giani (idest, comu­ni­sti), impli­cava una totale disat­ten­zione ai con­te­sti: in Ita­lia, come altrove, all’indomani della fine del con­flitto, vi furono rego­la­menti di conti spie­ga­bili alla luce degli eventi e dei con­te­sti. Invece, ora della lotta par­ti­giana rima­neva sol­tanto il san­gue: quello dei vinti, per ripren­dere il titolo del primo volume di Giam­paolo Pansa, che da allora diede avvio a una saga anti­re­si­sten­ziale; il suo suc­cesso fu una prova della rag­giunta ege­mo­nia del revi­sio­ni­smo, nella sua forma più estrema, il «rove­sci­smo». L’anti-Resistenza divenne un pro­dotto a fini com­mer­ciali, oltre, e forse prima ancora, che poli­tici. Il punto di non ritorno in que­sta vicenda fu l’istituzione, nel marzo 2004 con voto con­di­viso, del «Giorno del ricordo»: la nar­ra­zione delle foibe, divenne il cuore della costru­zione di un senso comune anti­re­si­sten­ziale, anti-antifascista e soprat­tutto anticomunista. 

Sba­glie­rebbe a con­si­de­rare tutto ciò un feno­meno ita­liano. E ancor più se pen­sasse che si tratta di mate­riale per la futura sto­ria della cul­tura. Basti uno sguardo all’Europa, dove accanto alla rina­scita di movi­menti poli­tici di destra estrema, o dichia­ra­ta­mente neo­fa­sci­sti e neo­na­zi­sti, abbiamo potuto vedere in que­sti ultimi anni prese di posi­zione isti­tu­zio­nali agghiac­cianti, a par­tire dalle ultime polac­che, che hanno negato addi­rit­tura il ruolo dell’Armata Rossa nella libe­ra­zione del Campo di Ausch­witz; o alla legi­sla­zione unghe­rese che sta non solo «riscri­vendo» la sto­ria del paese, a uso di un’affiliazione ideo­lo­gica al più estremo neo­li­be­ri­smo, ma sta appli­cando misure puni­tive verso coloro che abbiano avuto qual­siasi tipo di con­nes­sione col comu­ni­smo; o, ancora all’Ucraina, dove addi­rit­tura i neo­na­zi­sti sono al potere, accanto a forze «libe­rali», con la con­ni­venza di Usa e Ue, e si vie­tano addi­rit­tura i sim­boli del comu­ni­smo, e imma­gino, pre­sto si riac­cen­de­ranno i roghi dei libri. 
Un elenco di mise­rie intel­let­tuali che sono tut­ta­via vit­to­rie poli­ti­che. E tutto ciò, ricor­dia­molo, è anche esito del revi­sio­ni­smo, sca­te­nato, nella sua ultima ver­sione «rove­sci­sta», pre­ci­sa­mente dal crollo del 1989. 
Oggi cele­brare il 70° della Libe­ra­zione dovrebbe impli­care forse innanzi tutto l’avvio di una con­trof­fen­siva cul­tu­rale. Vogliamo provarci?



La razza al servizio della classe 
25 Aprile. Il valore della Costituzione sta nell’essere un argine alla «naturalizzazione» delle differenze sociali che caratterizzava il fascismo 

Alberto Burgio, il Manifesto 25.4.2015 

Abbiamo avuto in que­sti anni molte riprove della sta­tura dei padri Costi­tuenti, sta­tura poli­tica, intel­let­tuale e morale, quindi sto­rica: con­si­stente nella capa­cità di situare nel tempo lungo inter­pre­ta­zioni e deli­be­ra­zioni, sot­traen­dole alle chi­mere della con­tin­genza. Ne è con­ferma, al nega­tivo, l’ossessione dei recenti governi di stra­vol­gere la Carta del ’48 per neu­tra­liz­zarne il nòc­ciolo di senso: l’antifascismo come ferma volontà di impe­dire che il paese ricada sotto un comando auto­cra­tico e si ordini secondo esclu­denti logi­che gerar­chi­che: «di casta» direbbe Anto­nio Gram­sci, che sulla natura del fasci­smo – sulla sua arcaica moder­nità – ragionò a lungo. 
Chia­rire qui per­ché l’ispirazione anti­fa­sci­sta della Costi­tu­zione debba essere a ogni costo sra­di­cata; per­ché il nesso che col­lega la Carta all’esperienza della lotta par­ti­giana debba essere infranto mediante gesti «rifor­ma­tori» che vei­co­lano la dam­na­tio della Resi­stenza anti­fa­sci­sta: chia­rire tutto ciò por­te­rebbe lon­tano. Basti osser­vare che l’idea di società che guidò il lavoro dei Costi­tuenti sor­geva dalla con­ver­genza di tre obiet­tivi, con­fluenti nel prin­ci­pio di ugua­glianza e ten­den­zial­mente con­flig­genti con l’ordine capi­ta­li­stico: par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica, auto­go­verno col­let­tivo, mas­sima espan­sione della cit­ta­di­nanza attiva. Era un’idea anti­te­tica alla con­fi­gu­ra­zione con­creta che il capi­ta­li­smo viene assu­mendo da trent’anni a que­sta parte sull’onda della rivo­lu­zione con­ser­va­trice rea­ga­niana. Dagli anni Ottanta – e con più vio­lenza dalla fati­dica caduta del Muro di Ber­lino – sono sem­pre più forti le spinte al «rin­no­va­mento» della Costi­tu­zione del ’48, per­ce­pita come intral­cio alla moder­niz­za­zione del paese, cioè al suo con­sa­crarsi alla cen­tra­lità del mer­cato e alla sovra­nità del capi­tale pri­vato, quindi alla totale mer­ci­fi­ca­zione di quel lavoro che la Carta pone invece a fon­da­mento della demo­cra­zia repubblicana. 
Tra le riprove dell’intelligenza poli­tica e sto­rica dei Costi­tuenti è cru­ciale la ripresa espli­cita della questione-chiave della tra­ge­dia epo­cale della prima metà del Nove­cento. Il prin­ci­pio di ugua­glianza di cui si diceva è enun­ciato nell’articolo 3 della Carta, che asse­gna alla Repub­blica il com­pito di rimuo­vere gli osta­coli eco­no­mici e sociali che impe­di­scono lo svi­luppo delle per­sone e l’«effettiva par­te­ci­pa­zione» dei lavo­ra­tori all’«organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del Paese». Que­sto stesso arti­colo afferma la «pari dignità» dei cit­ta­dini «senza distin­zione di sesso, di razza, di lin­gua, di reli­gione, di opi­nioni poli­ti­che, di con­di­zioni per­so­nali e sociali». 
Razza: come va letto que­sto nome? E per­ché evo­carlo insieme alle altre forme della dif­fe­renza nel det­tato solenne della Costi­tu­zione? Non era forse defi­ni­ti­va­mente morto il nazi­fa­sci­smo, che sull’ideologia della «razza» si era fon­dato e che per rea­liz­zare un Nuovo Ordine basato sulla gerar­chia «raz­ziale» (uno spa­zio euro­peo «puri­fi­cato» dagli «infe­riori»: non solo ebrei, «negri» e «zin­gari», ma anche omo­ses­suali, mino­rati e comu­ni­sti, nella far­ne­ti­cante ideo­lo­gia del giu­deo­bol­sce­vi­smo assi­mi­lati alla «fec­cia giu­daica») aveva messo a ferro e fuoco l’Europa e il mondo? 
Il fatto è che i padri Costi­tuenti non con­ce­pi­vano il fasci­smo come un’invasione bar­ba­rica né come una paren­tesi. Vi rico­nob­bero il por­tato del sot­to­suolo della sto­ria ita­liana, il frutto avve­le­nato della pato­ge­nesi dello Stato nazio­nale. Con que­ste tare occor­reva fare i conti nella costru­zione della nuova Ita­lia per pre­ser­varla da altre avven­ture. Mal­grado il mito autoas­so­lu­to­rio degli «ita­liani, brava gente» era ben chiara, almeno ai più avver­titi, la nor­ma­lità ita­liana nel qua­dro della moder­niz­za­zione euro­pea: nel con­te­sto delle dina­mi­che inter­con­nesse di uni­fi­ca­zione ter­ri­to­riale, costru­zione della sfera politico-istituzionale e defi­ni­zione del campo della cit­ta­di­nanza (con le sue arti­co­la­zioni interne e i rela­tivi dispo­si­tivi di inclu­sione, esclu­sione e subor­di­na­zione).
Assunte que­ste lenti cri­ti­che, le magni­fi­che sorti e pro­gres­sive della grande tra­sfor­ma­zione che tra il 1848 e il 1918 ave­vano por­tato a com­pi­mento l’unificazione ter­ri­to­riale e poli­tica e l’ibridazione antro­po­lo­gica del paese – le sorti nar­rate nell’oleografia dei miti fon­da­tivi del Risor­gi­mento e della Grande guerra – dichia­ra­vano la pro­pria mise­ra­bile prosa. Il paese si rive­lava sol­cato da faglie pro­fonde, acco­mu­nate dall’essenziale nucleo ope­ra­tivo dell’invenzione delle «razze»: la natu­ra­liz­za­zione della dif­fe­renza sociale ed eco­no­mica, di genere, cul­tu­rale (etica, reli­giosa e lin­gui­stica), «etnica» (sto­rica e ter­ri­to­riale) e per­sino poli­tica e ideologica. 
«Razza» non è, nel lin­guag­gio della moder­nità euro­pea, sol­tanto il «negro» immi­grato dalle colo­nie al cospetto del suo signore bianco. È anche il meri­dio­nale («sudi­cio») dinanzi al set­ten­trio­nale («ario»); il mar­gi­nale (varia­mente «deviante») con­fron­tato al cit­ta­dino «nor­male»; il nomade rispetto al resi­dente; il pro­le­ta­rio anar­chico o comu­ni­sta rispetto al ben­pen­sante; il cafone con­fi­nato nell’idiotismo dia­let­tale rispetto al colto; e la donna (di ogni classe sociale, salvo ecce­zioni; ma in par­ti­co­lare la popo­lana) rispetto al maschio padre e padrone. La strut­tura pira­mi­dale che que­ste pola­rità pro­du­cono, inner­vata dalla vio­lenza e dalla nega­zione dell’universale umano, non è certo una spe­ci­fi­cità ita­liana. Ma non è vero che l’Italia sia per gra­zia di dio immune dalla feno­me­no­lo­gia della subor­di­na­zione antro­po­lo­gica che arti­cola – insieme alla costru­zione del mer­cato capi­ta­li­stico, e come suo (non omo­ge­neo) corol­la­rio fun­zio­nale – la logica stessa della moder­nità bor­ghese. Subor­di­na­zione antro­po­lo­gica che nel fasci­smo mus­so­li­niano com­pie un salto di qua­lità (si pensi all’uso dell’iprite in Etio­pia e alle leggi anti­se­mite del ’38) per la sua essenza nazio­na­li­sta e patriar­cale e per effetto dell’alleanza col Reich hitle­riano e dell’introiezione delle sue logi­che sterminatrici. 
Il 25 aprile del 1945 fu libe­ra­zione anche da que­sto cupo orrore. Ma fu piena libe­ra­zione? O un retag­gio del raz­zi­smo sto­rico è rima­sto nel corpo della Repub­blica nono­stante la cesura di settant’anni fa? Non occorre essere per­fe­zio­ni­sti per dare una rispo­sta affer­ma­tiva a quest’ultima domanda. Non solo il «ter­rone» è a lungo rima­sto nel nostro les­sico fami­gliare, in com­pa­gnia dello «zin­garo», del «bifolco» e – anche al di fuori dell’arcipelago dei siti neo­na­zi­sti – dello «sporco giu­deo dei­cida». Non solo il nostro resta un paese iper­ma­schi­li­sta che con­vive paci­fi­ca­mente con la discri­mi­na­zione ses­si­sta nell’accesso al lavoro, nelle car­riere e nelle retri­bu­zioni. Anche le rispo­ste delle isti­tu­zioni e del senso comune alla sfida dell’immigrazione, esplosa coi primi anni Novanta, atte­stano la per­si­stenza di vec­chi pre­giu­dizi (i man­gia­tori di banane cari agli ultras e ai ver­tici del cal­cio sono la punta di un ice­berg) e l’attitudine degli ste­reo­tipi tra­di­zio­nali a virare su sem­pre nuovi ber­sa­gli (ieri i polac­chi e gli alba­nesi, oggi i rumeni; ieri i vu’ cum­prà, oggi soprat­tutto gli «isla­mici») per il buon pro­fitto degli impren­di­tori poli­tici del raz­zi­smo nostrano. 
Insomma, cam­biano le forme, e i muta­menti sono rile­vanti. È deci­sivo che l’Italia non si ispiri più pro­gram­ma­ti­ca­mente a una gerar­chia «raz­ziale» e al con­tra­rio abbia solen­ne­mente san­cito il prin­ci­pio dell’uguaglianza uni­ver­sale, che è la base che la Costi­tu­zione offre alla lotta per la demo­cra­zia e la tra­sfor­ma­zione. Ma ciò non dis­solve il nesso costi­tu­tivo tra subor­di­na­zione e ripro­du­zione sociale che fonda la società bor­ghese e che è la fonte del raz­zi­smo come pra­tica discri­mi­na­to­ria e come dispo­si­tivo ideo­lo­gico di legit­ti­ma­zione. Biso­gna saperlo, con­tro il luogo comune che il raz­zi­smo sia un resi­duo arcaico desti­nato a spa­rire con l’andar del tempo. No, la lotta sarà ancora lunga e aspra. Come dimo­strano anche le cro­na­che di que­sti anni e mesi – con le cacce all’uomo nero nelle cam­pa­gne del Sud, gli atten­tati ai campi rom, l’exploit della Lega in sansa lepe­ni­sta – «non siamo che all’inizio».



Luzzatto: «È storia di uomini e donne. Non il monolite di Kubrick»
Intervista. «Fin quando gli antifascisti continueranno a trattare la guerra di Liberazione come un mito intoccabile, regaleranno gli argomenti del revisionismo alle controparti più indecenti». Parla lo storico Sergio Luzzatto

Nell’aprile di due anni fa Par­ti­gia, il libro di Ser­gio Luz­zatto dedi­cato alla sto­ria di una banda della Val d’Aosta nella quale nell’autunno del 1943 visse la sua breve sta­gione di par­ti­giano Primo Levi, prima della depor­ta­zione, fu anti­ci­pato con largo entu­sia­smo da Paolo Mieli sul Cor­riere della Sera, poi pesan­te­mente cri­ti­cato dai recen­sori di sini­stra ed esal­tato da quelli di destra. Rico­struiva la sto­ria della con­danna a morte di due par­ti­giani, ese­guita dai loro stessi com­pa­gni, e del «segreto brutto» al quale il Levi nar­ra­tore del dopo­guerra aveva solo elu­si­va­mente accen­nato. Par­ti­gia si è gio­vato della pole­mi­che e, cosa rara per i libri di sto­ria, ha ven­duto bene; nell’aprile dell’anno scorso è uscito in edi­zione eco­no­mica negli Oscar Mon­da­dori. Nell’imminenza del set­tan­te­simo del 25 aprile abbiamo cer­cato Luz­zatto per por­gli qual­che domanda sulla memo­ria della Resi­stenza, e la prima non poteva che essere molto personale.

Come si è tro­vato nei panni dello sto­rico di sini­stra accu­sato di inten­denza con il nemico, di for­nire argo­menti ai nemici dell’antifascismo?

Sono stato molto deluso dalla qua­lità del dibat­tito media­tico attorno al mio libro. Hanno pre­valso le osses­sioni iden­ti­ta­rie della sini­stra. Non parlo della destra, dalla quale mi aspetto sem­pre poco. Ma se il libro mi è tor­nato in fac­cia non è stato per le rea­zioni dei recen­sori lau­reati, piut­to­sto per quelle dei let­tori, in par­ti­co­lare i let­tori legati ai per­so­naggi della mia sto­ria. Sono tor­nato in Val d’Aosta per­ché subis­sato di testi­mo­nianze di prima o seconda mano. Settant’anni sono tanti, forse troppi dal punto di vista di una memo­ria col­let­tiva o isti­tu­zio­nale, ma sono pochi da un punto di vista della memo­ria pri­vata o per­so­nale. Lo sto­rico deve muo­versi tra que­ste due dimen­sioni. Può rico­struire accu­ra­ta­mente quello che trova negli archivi, ma poi si scon­tra con verità molto più discu­ti­bili e prov­vi­so­rie, che però hanno un tasso di genui­nità molto forte. La vita postuma di Par­ti­gia mi ha risar­cito delle cap­ziose, super­fi­ciali e spesso igno­ranti cri­ti­che di chi magari il mio libro non l’aveva nean­che letto.


Se ha con­ti­nuato le ricer­che per­ché non ha scritto ancora, magari per repli­care ai cri­tici?

Volevo fare una lunga pre­fa­zione all’edizione eco­no­mica, poi ho rinun­ciato. Ho tro­vato solo con­ferme alla mia rico­stru­zione. Avrei scritto per pura pole­mica. Tenga conto che dalla comu­nità ebraica ho rice­vuto una vera e pro­pria fatwa, attac­chi di una mode­stia cul­tu­rale imba­raz­zante. La Resi­stenza e Primo Levi sono due poli della mia bus­sola civile, l’ho anche scritto nel libro. Pen­savo che ci si potesse avvi­ci­nare a que­sti due oggetti sto­rio­gra­fici met­tendo da parte la vene­ra­zione del cittadino…


Che in lei resta intatta?

Total­mente. Ma la sini­stra non si rende conto che fin­ché tratta la Resi­stenza come il mono­lite da vene­rare di 2001 Odis­sea nello spa­zio regala gli argo­menti del revi­sio­ni­smo alle con­tro­parti più indecenti.


Il libro è uscito in pieno bat­tage revi­sio­ni­stico, come poteva non met­tere in conto que­sto tipo di cri­ti­che, e di con­sensi?

Ho detto che sono rima­sto deluso, non sor­preso. Spe­ravo però che la sini­stra, il fronte cul­tu­rale anti­fa­sci­sta, fos­sero pre­pa­rati a fare i conti con la sto­ria che ho cer­cato di rac­con­tare. Se non altro per­ché non sono stato certo il primo con que­sto tipo di sen­si­bi­lità a scan­da­gliare i ver­santi più o meno oscuri della sto­ria dei par­ti­giani. La migliore sto­rio­gra­fia degli isti­tuti della Resi­stenza lo fa da tanti anni, almeno dalla fine degli Ottanta. Solo che è con­dan­nata a un respiro locale e allora le uni­che cose che restano sulla scena del grande pub­blico sono i lavori di chi, per esem­pio il famoso Giam­paolo Pansa, in realtà è il primo a sapere che in quelli isti­tuti della Resi­stenza si fa sto­ria in un modo molto simile a quello che ho cer­cato di pra­ti­care io.


Sul famoso Giam­paolo Pansa lei ha un giu­di­zio arti­co­lato.

Diver­sa­mente da quanti riten­gono che tutto quello che ha scritto sulla Resi­stenza non valga niente, io cerco di distin­guere. C’è un primo Pansa, quello dei libri degli anni Ses­santa e Set­tanta dedi­cati alla lotta par­ti­giana nel Mon­fer­rato, secondo me straor­di­na­rio, pio­ne­ri­stico nel metodo sto­rio­gra­fico. Que­sto con­fonde le cose, non lo si può accu­sare di essere un igno­rante; mi ven­gono in mente pochi stu­diosi acca­de­mici che cono­scono le fonti e gli archivi come lui. Poi, a par­tire dagli anni Novanta, ha mol­lato gli ormeggi ideo­lo­gici e meto­do­lo­gici e ha finito per sca­dere in forme nar­ra­tive pastic­ciate e inac­cet­ta­bili dal punto di vista del giu­di­zio storico.


Quest’anno non si è sen­tita alcuna delle pole­mi­che che hanno accom­pa­gnato i pre­ce­denti 25 aprile, eppure siamo a un anni­ver­sa­rio impor­tante. Secondo lei si sta con­clu­dendo, magari per sfi­ni­mento, la guerra della memo­ria?

È un segnale dei tempi. In fondo ancora nel 2005, e mol­tis­simo nel 94–95, il 25 aprile ali­men­tava una forma di pola­riz­za­zione ideo­lo­gica. Certo, allora c’era Ber­lu­sconi che diser­tava le mani­fe­sta­zioni o met­teva il maglione giro­collo segna­lando indif­fe­renza anche con il lin­guag­gio del corpo. Ma penso che se il 25 aprile sta pas­sando più o meno inos­ser­vato è per­ché anche da que­sto punto di vista il par­tito della nazione di Renzi non fa pri­gio­nieri. Un immenso cen­tro è occu­pato da un discorso pub­blico lon­ta­nis­simo da qua­lun­que pre­oc­cu­pa­zione rispetto alla memo­ria della Resi­stenza. Una classe poli­tica gio­vane per ana­grafe, gio­va­ni­li­sta per ideo­lo­gia e nichi­li­sta dal punto di vista valo­riale non ha alcun inte­resse per i signi­fi­cati pro­fondi del 25 aprile.


Sta descri­vendo una rimo­zione più che una paci­fi­ca­zione.

Eppure non è impos­si­bile che il 25 aprile diventi per noi quello che il 4 luglio è per gli ame­ri­cani o il 14 luglio per i fran­cesi. Non biso­gna farsi con­fon­dere dalla mol­ti­pli­ca­zione delle date, ormai non c’è quasi più giorno che non sia il giorno di qual­che cosa. Il 25 aprile — con il 27 gen­naio giorno della memo­ria — rimarrà “la” data. La destra ha perso la sua scom­messa e il “giorno del ricordo” fun­ziona al mas­simo per qual­che pic­cola pole­mica, non ha la rile­vanza civile per stare sullo stesso piano dell’anniversario della Libe­ra­zione. Ma i tempi della sto­ria sono lun­ghi. Gli ame­ri­cani per rico­no­scersi attorno al 4 luglio come festa dav­vero con­di­visa hanno dovuto far tra­scor­rere circa cento anni, fino all’indomani della loro guerra civile. I fran­cesi lo stesso, il 14 luglio è stato per un secolo ter­reno di bat­ta­glia. Mi sem­bra che il para­gone si pre­sti. Per­ché quando una data segna la fine di una guerra civile è ovvio che non può imporsi dall’oggi al domani. Occorre che passi la gene­ra­zione di chi quella guerra l’ha com­bat­tuta e forse anche la gene­ra­zione dei figli. Noi, appunto, siamo ai nipoti.


Ho detto prima che non ci sono state pole­mi­che met­tendo da parte quella di Roma, per­ché mi pare si spie­ghi più con le dif­fi­coltà nei rap­porti tra la sini­stra e la comu­nità ebraica romana, o per con­verso con la faci­lità nei rap­porti tra quest’ultima e la destra, che con una diversa visione della guerra di Libe­ra­zione. Non crede?

Penso che ci sia anche qual­cosa di più: la dif­fi­coltà di inne­stare la poli­tica sulla sto­ria. Quando la comu­nità ebraica romana dice che è scan­da­loso cac­ciare le ban­diere con la stella di David per­ché c’è stata una bri­gata ebraica, ebrei di Pale­stina che hanno com­bat­tuto insieme con gli alleati, ha per­fet­ta­mente ragione. Se si vuole restare sul ter­reno della sto­ria è piut­to­sto la ban­diera di Pale­stina ad avere poco senso nel cor­teo del 25 aprile, per­ché non si ricor­dano reparti pale­sti­nesi che abbiano con­tri­buito a libe­rare l’Italia ed effet­ti­va­mente ci sono state forme di com­pro­mis­sione con i nazi­sti delle gerar­chie pale­sti­nesi. Il pro­blema è che gli anni­ver­sari per defi­ni­zione par­lano del rap­porto tra pas­sato e pre­sente. E nei settant’anni che sono tra­scorsi, la ban­diera con la stella di David è diven­tata anche una ban­diera di oppres­sione, o più esat­ta­mente di occu­pa­zione dei ter­ri­tori altrui. Se dun­que ci doman­diamo chi ha mag­giore o minore diritto di festeg­giare i valori di libertà ed eman­ci­pa­zione del 25 aprile, pur­troppo l’Israele di Neta­nyahu e di un’interpretazione molto distorta e rea­zio­na­ria dell’ideale sio­ni­sta ha pochi gal­loni da appun­tarsi. La pole­mica di tanti filo pale­sti­nesi a buon mer­cato può essere cap­ziosa, ma è pur­troppo pertinente.

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