lunedì 27 aprile 2015

Le destre populiste in Europa: il dossier - a volte superficiale - del Manifesto

Il ritorno al futuro della destra plurale 

Guido Caldiron, 25.4.2015 
Qui a enfanté Le Pen? Oltre una ven­tina di anni fa, quando ancora le nuove destre popu­li­ste e xeno­fobe erano trat­tate da molti ana­li­sti alla stre­gua di epi­fe­no­meni — «si tratta solo di un voto di pro­te­sta desti­nato ad essere rapi­da­mente rias­sor­bito dai par­titi tra­di­zio­nali», ci si sen­tiva spesso ripe­tere da quanti inten­de­vano negare il peri­colo ricor­rendo ad un arma­men­ta­rio inter­pre­ta­tivo vaga­mente con­so­la­to­rio — alcuni tra i mag­giori scien­ziati poli­tici fran­cesi, e tra loro Nonna Mayer e Pascal Per­ri­neau, avver­ti­vano già l’urgenza di defi­nire, per quanto pos­si­bile, una «teo­ria» com­ples­siva di ciò che stava acca­dendo, oltre a descri­verne la fenomenologia. 
La Fran­cia era infatti all’epoca il paese in cui andava emer­gendo nel modo più netto quel pro­filo arti­co­lato e com­po­sito che fa ancora oggi della «nuova destra» uno dei pro­ta­go­ni­sti indi­scussi della poli­tica euro­pea: le cas départ, il punto di par­tenza di qual­cosa desti­nato a radi­carsi e cre­scere nel tempo. Doman­darsi, come face­vano già nel 1989 i due poli­to­logi nel loro Le Front Natio­nal à decou­vert, chi avesse «par­to­rito» in ter­mini poli­tici e cul­tu­rali il movi­mento gui­dato da Jean-Marie Le Pen, quali il con­te­sto eco­no­mico e sociale che ne ave­vano favo­rito l’ascesa ben oltre il carat­tere epi­so­dico di una fase d’emergenza, signi­fi­cava legare, per le vicende d’oltralpe come per quelle del resto del Vec­chio con­ti­nente, la com­parsa di que­ste for­ma­zioni ad alcune delle mag­giori tra­sfor­ma­zioni inter­ve­nute a par­tire dalla fine degli anni Set­tanta: la rivo­lu­zione eco­no­mica della glo­ba­liz­za­zione, com­piuta nel segno dell’offensiva neo­li­be­ri­sta, e la con­se­guente rivo­lu­zione con­ser­va­trice che ha ristrut­tu­rato l’intero spa­zio sim­bo­lico delle destre. 
Come segna­lato da Alain Bihr fin dal 1992, in Pour en finir avec le Front Natio­nal, è infatti nel segno di una crisi mag­giore del mondo occi­den­tale che le idee dell’estrema destra, del tutto discre­di­tate dopo la fine della Seconda guerra mon­diale, sono tor­nate, sep­pure in una forma per molti versi del tutto nuova, ad otte­nere visi­bi­lità nello spa­zio pub­blico. Per Bihr, «quella vis­suta da tutte le società euro­pee occi­den­tali a par­tire dagli anni Set­tanta è una crisi non solo eco­no­mica, ma anche sociale, poli­tica e cul­tu­rale, che con­sen­tirà all’estrema destra di uscire dalla mar­gi­na­lità». In par­ti­co­lare, «la crisi ride­fi­nirà la distri­bu­zione geo­po­li­tica euro­pea di que­ste forze, spo­stando il cen­tro di gra­vità dal Sud al Nord dell’Europa. Un segnale, fra gli altri, di quanto l’estrema destra non possa essere con­si­de­rata un arcai­smo, l’espressione di un’arretratezza eco­no­mica e poli­tica, come spesso si è sen­tito dire, ma invece un feno­meno che si nutre di pro­cessi in atto nel cuore stesso della modernità». 
Pro­prio il con­te­sto della crisi, sociale e di senso, del mondo occi­den­tale e le grandi tra­sfor­ma­zioni evo­cate dallo stesso Bihr, pro­dur­ranno una decisa rior­ga­niz­za­zione anche della «poli­tica». In par­ti­co­lare, come sot­to­li­neato all’inizio del nuovo mil­len­nio in un edi­to­riale di un numero mono­gra­fico di Le Monde diplo­ma­ti­que, dedi­cato allo svi­luppo del «nuovo popu­li­smo di destra», «durante i tre decenni che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mon­diale, la vec­chia destra auto­ri­ta­ria ha dovuto mor­dere il freno». Ma, «non era andata in disarmo, con­ti­nuava, discre­ta­mente a con­durre la bat­ta­glia delle idee. Pre­sen­tan­dosi come oppo­si­zione al “poli­ti­ca­mente cor­retto” pro­gres­si­sta, si inter­ro­gava sospet­tosa: non è che la demo­cra­zia si è spinta troppo in là? La morale tra­di­zio­nale può essere impu­ne­mente messa in discus­sione senza il rischio che il caos si installi nei posti di lavoro, nelle fami­glie, nelle strade?». Niente di nuovo, in appa­renza. «Ma quando l’euforia dei “trenta glo­riosi” comin­cia a dis­si­parsi, quando la disoc­cu­pa­zione diventa un fat­tore sta­bile dell’economia, si comin­cia a pre­stare nuo­va­mente atten­zione alle idee di un tempo che gli anni di pro­spe­rità e di pro­gresso ave­vano con­tri­buito ad allontanare». 
In realtà, è negli ambienti del nuovo con­ser­va­to­ri­smo di matrice neo­li­be­rale, la cui offen­siva ege­mo­nica sarà sim­bo­leg­giata, pur con le loro distinte spe­ci­fi­cità, dalle vit­to­rie elet­to­rali di Ronald Rea­gan e Mar­ga­ret That­cher che si pro­durrà quella ricerca di un voca­bo­la­rio atto ad inter­pre­tare le tra­sfor­ma­zioni sociali e poli­ti­che dell’epoca che aprirà la strada anche all’emersione delle nuove destre popu­li­ste e xeno­fobe. Da que­sto punto di vista, sarà, ancora una volta in Fran­cia, che la sfida per la con­qui­sta delle élite di un mondo con­ser­va­tore attra­ver­sato da una tumul­tuosa tra­sfor­ma­zione, a costi­tuire, come ricor­dato dallo storco Pierre Milza, il primo banco di prova per il suc­cesso di un nuovo pen­siero anti-progressista, incar­nato in par­ti­co­lare dall’area della nou­velle droite intel­let­tuale riu­nita intorno allo stu­dioso Alain de Benoist. Nel suo Europa estrema, Milza segnala che il labo­ra­to­rio cul­tu­rale che for­nirà in seguito al popu­li­smo di destra, a comin­ciare dal Front Natio­nal, molti dei suoi argo­menti diven­terà «alla fine degli anni Set­tanta, la cel­lula pen­sante delle destre» fran­cesi intese in senso plu­rale, a comin­ciare pro­prio «dalle grandi for­ma­zioni poli­ti­che» del mondo con­ser­va­tore e, all’epoca, dai «gabi­netti mini­ste­riali dell’era giscar­diana», dopo aver con­tri­buito a for­mare una parte dell’opinione pub­blica gol­li­sta e libe­rale attra­verso le testate del gruppo edi­to­riale Her­sant, il Mon­da­dori transalpino. 
Il noc­ciolo duro delle ana­lisi pro­po­ste dalla nou­velle droite, ha spie­gato alcuni anni fa al Mani­fe­sto il poli­to­logo Jean Yves Camus, sarà, «dap­prima costi­tuito dalla ria­bi­li­ta­zione di temi che erano stato com­ple­ta­mente abban­do­nati dalla destra clas­sica, vale a dire soprat­tutto le tesi sull’“ineguaglianza degli indi­vi­dui” e sull’importanza da asse­gnare alle “radici iden­ti­ta­rie”, sia fran­cesi che euro­pee». Quindi «la pro­po­sta di un’idea della poli­tica non più anco­rata alla dico­to­mia tra destra e sini­stra», bensì ride­fi­nita nei ter­mini della ricerca «di uno spa­zio comu­ni­ta­rio fon­dato sull’identità nazio­nale. Ciò che Jean-Marie Le Pen avrebbe in seguito rias­sunto nello slo­gan “né destra né sini­stra, solo francesi”». 
La «rivo­lu­zione con­ser­va­trice» della fine degli anni Set­tanta, ten­deva per­ciò a ride­fi­nire un’«idea orga­nica» della società che ne potesse accom­pa­gnare la ristrut­tu­ra­zione pro­dut­tiva ed eco­no­mica all’insegna di una ver­sione ammo­der­nata di quel «Dio, patria e fami­glia» che si pen­sava ormai inu­ti­liz­za­bile dopo il 1945 e che il Ses­san­totto aveva con­tri­buito ad affos­sare ancor più pro­fon­da­mente. L’incontro con quanto stava emer­gendo, seb­bene ancora in modo epi­so­dico, negli ambienti del radi­ca­li­smo di destra, avrebbe con­tri­buito a svi­lup­pare una miscela poten­zial­mente incen­dia­ria, come, ancora una volta in modo par­ti­co­lar­mente evi­dente in Fran­cia, è acca­duto più di recente con la cam­pa­gna lan­ciata da Nico­las Sar­kozy per fare pro­pri alcuni dei temi agi­tati da Marine Le Pen, dalla vio­lenta cri­tica alla «cul­tura del ’68» fino a quelli dal pro­filo iden­ti­ta­rio, secu­ri­ta­rio e xenofobo. 
Se la cre­scente con­ta­mi­na­zione tra la destra libe­ri­sta e con­ser­va­trice e quelle che sono state ribat­tez­zate in seguito come nuove destre postin­du­striali e anti-immigrati, ha tra­sfor­mato per sem­pre il pano­rama poli­tico alter­na­tivo alla sini­stra, dando nei fatti ori­gine ad una sorta di «destra plu­rale», ciò che gli stra­te­ghi neo­li­be­rali non sem­brano aver però con­si­de­rato è che le idee e le forze che ave­vano così con­tri­buito a legit­ti­mare — spesso ope­rando anche delle peri­co­lose incur­sioni revi­sio­ni­ste sul piano sto­rico, come la famosa visita com­piuta nel 1985, in occa­sione delle cele­bra­zioni per il cin­quan­te­na­rio della fine della Seconda guerra mon­diale, da Ronald Rea­gan al cimi­tero mili­tare tede­sco di Bit­burg, dove erano sep­pel­liti anche decine di appar­te­nenti alle Waf­fen SS, equi­pa­rati così impli­ci­ta­mente alla vit­time del con­flitto — da pos­si­bili part­ner si sareb­bero rive­lati ben pre­sto come degli insi­diosi competitori. 
Sorta all’ombra delle grandi tra­sfor­ma­zioni eco­no­mi­che dell’Occidente, la nuova destra si è tra­sfor­mata da sin­tomo ad ele­mento costi­tu­tivo di una crisi che nel segno della pre­ca­riz­za­zione delle esi­stenze è dive­nuta strut­tu­rale nelle società euro­pee, usu­fruendo di un voca­bo­la­rio reto­rico pie­na­mente sdo­ga­nato nello spa­zio pub­blico, si tratti del rife­ri­mento alla «pre­fe­renza nazio­nale» o all’odiosa e costante ricerca di un «capro espia­to­rio» da dare in pasto al males­sere sociale dif­fuso. Come anno­tava Alan Bihr, non si tratta di una revan­che sulla sto­ria, ma di un ben più insi­dioso «ritorno al futuro».

L’ascesa del rossobrunismo putiniano
Nuove destre. L'appeal continentale del sogno euroasiatico
Oggi – diven­tato ormai una cele­brità nel mondo della destra euro­pea e spesso ospite di con­ve­gni inter­na­zio­nali — si defi­ni­sce un «cen­tri­sta radi­cale». Le sue posi­zioni poli­ti­che sono via via dive­nute sem­pre più anti ame­ri­cane ed è con­si­de­rato il teo­rico dell’«Impero euroa­sia­tico». Dugin non va né sot­to­va­lu­tato, né con­fuso con qual­cosa di più grande di lui. La sua ela­bo­ra­zione, inse­ren­dosi in un dibat­tito molto vivo tra le nuove destre, ha finito per unire posi­zioni molto distanti, appa­ren­te­mente, creando epi­goni e inter­pre­ta­zioni. Qual è la teo­ria di Dugin che ha finito per con­qui­stare le destre euro­pee alla ricerca di una nuova bus­sola post guerra fredda? Dugin ha dif­fuso la teo­ria del nazio­na­li­smo euro asia­tico basato sulla con­trap­po­si­zione tra l’ordine mon­diale di Usa e Gran Bre­ta­gna, che arri­verà a defi­nire in un suo libro «il regno di Satana», o «la nuova Babi­lo­nia», all’ordine euro asia­tico gui­dato dalla Russia.
È bene pre­ci­sare che la teo­ria di Dugin si com­pone anche di ele­menti mistici, reli­giosi (tanto che alcuni stu­diosi par­lano di «setta») e non si tratta solo di una sem­plice esa­spe­ra­zione del nazio­na­li­smo. Si tratta di un nuovo nazio­na­li­smo che si inse­ri­sce in quella teo­ria di «nuova destra euro­pea» che nasce già negli anni Trenta e che si ria­nima dopo la caduta dell’Unione sovie­tica. Dugin si inse­ri­sce in que­sto dibat­tito, pla­smando nel tempo la pro­pria teo­ria, accom­pa­gnata da arti­coli e inter­venti pub­blici più poli­tici, quasi sem­pre a favore delle poli­ti­che puti­niane. Ci sono due con­cetti che stanno alla base della dot­trina di Dugin: in primo luogo la neces­sità che solo una società post libe­rale, gerar­chica e in grado di man­te­nere le tra­di­zioni cul­tu­rali euro­pee, sia in grado di argi­nare il plu­ra­li­smo e la dilui­zione, fino alla scom­parsa, dei valori tra­di­zio­nali. Il secondo con­cetto è deci­sa­mente inte­res­sante, per­ché per­mette di com­pren­dere alcune vici­nanze (che la crisi ucraina ha di fatto san­cito) tra posi­zioni di estrema destra e di estrema sini­stra, unite dall’antiatlantismo e da let­ture geo­po­li­ti­che «occi­den­tali», che non met­tono a fuoco le carat­te­ri­sti­che pre­cise di alcune aree del mondo (Siria, Libia, il Medio oriente in gene­rale e la stessa Ucraina). Si tratta del con­cetto gram­sciano dell’egemonia cul­tu­rale. Ma gli stu­diosi di Dugin aggiun­gono altri tre con­cetti «di sini­stra», uti­liz­zati dalla nuova destra euro­pea: l’anti glo­ba­liz­za­zione, l’attenzione al ter­ri­to­rio e all’ambiente.
Da parte di Dugin c’è anche un inte­resse nei con­fronti della Destra ita­liana, che non è una casua­lità: Dugin cono­sce molto bene la sto­ria del pen­siero poli­tico ita­liano e l’ambiente intel­let­tuale che ruota attorno a idee vicine alle sue. Nella sua prima rivi­sta, il Dolce Angelo, Dugin ha infatti ospi­tato un sag­gio di Clau­dio Mutti, diret­tore della rivi­sta ita­liana Eura­sia. Dugin pro­pone l’idea di «Impero euroa­sia­tico», orga­niz­zato in modo fede­rale. Nel suo libro più famoso, Osnovy geo­po­li­tiki («Prin­cipi di geo­po­li­tica»), Dugin ade­ri­sce a una teo­ria che vede la con­trap­po­si­zione ine­vi­ta­bile tra le potenze marine, Usa e Gran Bre­ta­gna, e quelle euroasiatiche.
Il suo pen­siero – riba­dito nel 2012 in The Fourth Poli­ti­cal Theory – ha tro­vato ter­reno fer­tile in molti paesi, in par­ti­co­lare in Unghe­ria, con Job­bik, in Gre­cia con «Alba dorata»; con Ataka in Bul­ga­ria. Gabor Vona, lea­der di Job­bik ha uti­liz­zato la teo­ria di Dugin per recla­mare per l’Ungheria il ruolo di ponte tra l’est e l’ovest dell’Eurasia, riven­di­cando pro­prie ance­stra­lità orien­tali. Per la Gre­cia – e Cipro – Dugin avrebbe già pronto il ruolo di porto per la guida russa all’Impero. Tutti e tre i par­titi, inol­tre, con­di­vi­dono l’euroscetticismo, l’anticapitalismo roman­tico e l’anti liberalismo.
La guerra ucraina ha sca­te­nato molte discus­sioni, aprendo a scon­tri ver­bali sui media e sulla rete tra fazioni: chi ha espresso soli­da­rietà con Kiev e di chi lo ha fatto con le regioni orien­tali del paese. La con­fusa situa­zione dell’est ucraino, tra cit­ta­dini e lavo­ra­tori in armi, filo russi e neo­na­zi­sti russi a tenere le redini dei prin­ci­pali bat­ta­glioni, ha fatto sì che l’anti atlan­ti­smo della «destra sociale» e della sini­stra potesse tro­vare alcuni punti in comune nella guerra del Donbass.
Così come il rife­ri­mento sto­rico che richiama, il ros­so­bru­ni­smo, que­sta vici­nanza non è tra­du­ci­bile, ce lo augu­riamo, nella nascita di un sog­getto poli­tico. Si tratta di con­co­mi­tanza di ana­lisi e rifles­sioni, che avvi­cina alcune istanze tipi­che della destra sociale a quelle di una certa parte di sini­stra anti atlan­ti­sta e spesso preda di teo­rie complottiste.
Senza andare troppo indie­tro alle ori­gini di quel feno­meno di ros­so­bru­ni­smo che si lega fin dagli anni 20 all’idea di «comu­ni­ta­ri­smo nazio­na­li­sta», oggi que­sta ten­denza (basata anche, malau­gu­ra­ta­mente, sul con­cetto secondo il quale «il nemico del mio nemico è mio amico»), rischia di creare situa­zioni imba­raz­zanti nella rifles­sioni su eventi sto­rici, appiat­ten­dosi sul con­cetto di Euroa­sia­ni­smo, por­tato avanti da Dugin e che trova punti di con­tatto con molti gruppi dell’estrema destra europea.
Que­sta ipo­tesi poli­tica con­trap­po­sta all’atlantismo e il fascino per Putin costi­tui­scono le due carat­te­ri­sti­che più salienti di quello che potremmo ormai defi­nire come «ros­so­bru­ni­smo puti­niano», pen­siero mino­ri­ta­rio, ma in grado di minare la capa­cità di leg­gere gli eventi in un mondo multipolare.Kiev nel Don­bass. In prima fila c’è uno dei movi­menti sto­rici di estrema destra russa, il «Rus­sia Natio­nal Unity».
Come ripor­tato in un’intervista al «mani­fe­sto» Anton She­ko­v­tsov, uno dei prin­ci­pali ana­li­sti delle nuove destra dell’Europa orien­tale, si tratta di un’organizzazione che esi­ste dall’inizio degli anni 90 in Rus­sia. «In parte, a livello orga­niz­za­tivo ha una sua strut­tura di busi­ness e un strut­tura mili­tante, dichia­ra­ta­mente neo nazi­sta. Hanno par­te­ci­pato a vari con­flitti, come in Trans­ni­stria, in Cece­nia, dove hanno fatto bot­tino e incetta di armi e soldi e secondo le mie fonti hanno par­te­ci­pato al ten­tato colpo di Stato del 1993 a Mosca, ma in difesa del Par­la­mento, con­tro Eltsin. E in seguito hanno par­te­ci­pato ad ogni con­flitto in cui sono riu­sciti a infi­larsi, per fare soldi, armi e trai­ning». Oggi sono il gruppo più forte pre­sente nell’Ucraina dell’est. Poi ci sono anche atti­vi­sti pro­ve­nienti dall’«Euroasian union», una sorta di gruppo gio­va­nile dell’organizzazione inter­na­zio­nale gui­data da Ale­xan­der Dugin, quelli di «Sput­nik e Pro­grom», il «movi­mento con­tro l’immigrazione ille­gale», il «Movi­mento per la Rus­sia imperiale».

La camicia bruna dell’identità etnica

Trö­glitz è una fra­zione del pic­colo comune di Elste­raue. Siamo in un angolo dell’ex Repub­blica demo­cra­tica tede­sca, nel sud della Sassonia-Anhalt, un Land in via di spo­po­la­mento in cui disoc­cu­pa­zione e povertà sono supe­riori alla media nazio­nale. Per gli stan­dard tede­schi è un’area depressa, ma in realtà nei din­torni di Elste­raue esi­stono atti­vità agri­cole e un tes­suto di pic­cole e medie imprese chi­mi­che. A Trö­glitz vivono 2712 per­sone, e 40 se ne sareb­bero dovute aggiun­gere a mag­gio: un gruppo di richie­denti asilo fug­giti da fame e guerre. Non acca­drà, almeno nell’immediato: lo sta­bile che avrebbe dovuto ospi­tarli è stato incen­diato lo scorso 4 aprile. Da chi, non si sa. Ma con ogni pro­ba­bi­lità que­sto epi­so­dio è il cul­mine (finora) di un’escalation di intol­le­ranza che pre­oc­cupa l’intera Germania.
In breve: quando a Gen­naio si venne a sapere che l’amministrazione locale aveva dato l’ok all’imminente arrivo di rifu­giati stra­nieri, a Trö­glitz comin­cia­rono pro­te­ste così forti da indurre il sin­daco demo­cri­stiano Mar­kus Nierth, minac­ciato di morte, alle dimis­sioni. Die­tro le mobi­li­ta­zioni, il par­tito neo­na­zi­sta Npd, che in que­sto comune prende più voti dei social­de­mo­cra­tici. Una riu­scita prova di forza dell’estrema destra, «coro­nata» con il grave dan­neg­gia­mento del futuro cen­tro di acco­glienza: per ora i man­cati ospiti restano ammas­sati nel vicino borgo di Zeitz, in attesa di essere smi­stati nei comuni della zona. L’ex sin­daco, pastore della locale chiesa pro­te­stante, ha rimesso il pro­prio man­dato, ma con­ti­nua da pri­vato cit­ta­dino la sua bat­ta­glia anti­raz­zi­sta, lamen­tando l’indifferenza della mag­gio­ranza silen­ziosa di quella pic­cola comunità.
Trö­glitz, pur­troppo, non è un caso iso­lato. A dimo­strarlo è la Fon­da­zione Anto­nio Ama­deu, impor­tante orga­niz­za­zione della società civile tede­sca con­tro l’estrema destra: nel suo sito si trova un aggior­na­tis­simo e det­ta­gliato elenco di tutti gli epi­sodi di intol­le­ranza – dan­neg­gia­menti dei cen­tri di acco­glienza, aggres­sioni, cor­tei anti-migranti – dall’inizio dell’anno. Al 15 aprile il conto ammon­tava già a 60 casi. Il mag­gior numero è nella Ger­ma­nia orien­tale, ma il neo­na­zi­smo non cono­sce con­fini interni: la più recente mani­fe­sta­zione degli «Hoo­li­gans con­tro i sala­fiti» (Hogesa nella sigla in tede­sco) si è svolta a Dort­mund, il più impor­tante cen­tro della Ruhr, un tempo cuore indu­striale del Paese, ora in per­ma­nente «ristrut­tu­ra­zione» con alti indici di disoc­cu­pa­zione. Ter­reno fer­tile per que­sto nuovo brand «anti-islamista» dei neo­fa­sci­sti più vio­lenti, che rag­gruppa frange estreme degli ultras delle curve e strut­ture dell’arcipelago nero sul modello della English Defence Lea­gue: lo scorso otto­bre misero a ferro e fuoco Colo­nia, tro­vando la poli­zia impreparata.
La lotta con­tro la pre­sunta «isla­miz­za­zione» della Ger­ma­nia e dell’intero mondo occi­den­tale è il secondo ambito di ini­zia­tiva dell’estrema destra tede­sca, un nuovo fronte che si aggiunge alla «tra­di­zio­nale» osti­lità con­tro gli stra­nieri, in par­ti­co­lare pro­fu­ghi e richie­denti asilo. Il punto in comune è la sin­drome da inva­sione, irre­spon­sa­bil­mente ali­men­tata anche dalla Csu, il par­tito demo­cri­stiano bava­rese fede­rato con la Cdu di Angela Mer­kel: l’anno scorso lan­ciò una minac­ciosa cam­pa­gna, dallo slo­gan «chi imbro­glia, se ne vola via», per chie­dere l’espulsione degli stra­nieri comu­ni­tari (cioè: dell’Europa dell’est) che aves­sero for­nito false infor­ma­zioni ai ser­vizi sociali allo scopo di otte­nere sus­sidi. Non se ne fece nulla, ma nei pozzi fu instil­lata la vele­nosa idea: «i migranti poveri sono tanti paras­siti che ven­gono qua a man­giarci il “nostro” wel­fare». Ciò che dice aper­ta­mente l’estrema destra.
Oltre agli hoo­li­gans, a essersi orga­niz­zati «con­tro l’islamizzazione» sono gruppi di cit­ta­dini «più pre­sen­ta­bili»: il più noto è quello dei Pegida («Patrioti con­tro l’islamizzazione dell’Occidente») di Dre­sda, capace di impo­nenti mobi­li­ta­zioni. Ospite di una delle ultime, un paio di set­ti­mane fa, l’olandese Geert Wil­ders, cam­pione euro­peo dell’islamofobia. Il movi­mento dei sedi­centi Patrio­ten sta comin­ciando forse a spe­gnersi, anche per diver­genze interne, ma ciò non signi­fica che non sia desti­nato a lasciare trac­cia: a Dre­sda e non solo è emersa una sog­get­ti­vità poli­tica di destra che non è certo ridu­ci­bile a bran­chi di vio­lenti da sta­dio, ed è più ampia dell’area di sim­pa­tiz­zanti dei neo­nazi della Npd. L’interlocutore natu­rale di que­sto uni­verso è il par­tito più gio­vane della scena tede­sca, Alter­na­tive für Deu­tschland (Afd), che nei Län­der orien­tali del Paese miete con­sensi, e che è ormai molto di più della forza mono-tematica anti-euro delle ori­gini: «tutela dell’ordine», limi­ta­zione dell’immigrazione, difesa della «fami­glia natu­rale» hanno tro­vato il loro posto nell’offerta pro­gram­ma­tica della Afd.
Estre­miz­zati e con­diti da un les­sico «iden­ti­ta­rio» ed etno-nazionalista di deri­va­zione nazi­sta, gli stessi temi sono da sem­pre agi­tati dalla Npd, il par­tito «uffi­ciale» dell’estrema destra tede­sca, che trova ora nella Afd un temi­bile con­cor­rente: lo si è potuto notare l’anno scorso pro­prio alle ele­zioni regio­nali in Sas­so­nia, il Land di cui Dre­sda è capi­tale, che hanno visto la Npd per­dere a bene­fi­cio della Afd quella man­ciata di voti che le avrebbe per­messo di man­te­nere rap­pre­sen­tanza nel par­la­mento locale (si fermò al 4,9%). Attual­mente, l’unica regione nel quale i neo­na­zi­sti sono pre­senti nell’assemblea legi­sla­tiva è il Meclem­burgo, terra d’origine della can­cel­liera Mer­kel. Rispetto al pas­sato, però, pos­sono van­tare un euro­de­pu­tato, Udo Voigt.
Da due anni è in corso una nuova pro­ce­dura per la messa al bando del par­tito, dopo un primo ten­ta­tivo fal­lito per deci­sione della Corte costi­tu­zio­nale nel 2003. A fare da motore della seconda richie­sta di ren­dere ille­gali le atti­vità della Npd, lo choc dovuto all’emersione della vicenda dei ter­ro­ri­sti della Nsu (Natio­nal­so­zia­li­sti­cher Unter­grund): orga­niz­za­zione clan­de­stina neo­na­zi­sta sco­perta dalle forze di poli­zia in cir­co­stanze casuali nel 2011, respon­sa­bile fra il 2000 e il 2006 di una serie di omi­cidi ai danni di cit­ta­dini stra­nieri. Sette tur­chi e un greco, per anni igno­rati dagli inqui­renti e deru­bri­cati dai media, con mal­ce­lato raz­zi­smo, a vit­time di una sorta di «faida fra kebabbari».
Erano stati, invece, gli obiet­tivi «casuali» di nuovi seguaci di Hitler che, per un decen­nio, si pote­rono muo­vere indi­stur­bati in tutta la Ger­ma­nia com­piendo omi­cidi e rapine, gra­zie a una rete di com­pli­cità di qual­che cen­ti­naio di per­sone. Fra le quali, stando alle inda­gini, nume­rosi mem­bri del par­tito legale Npd.

Nel Regno Unito, l’Ukip guida la rivolta del risentimento. E sale nei consensi elettorali

La parola d’ordine delle ele­zioni legi­sla­tive bri­tan­ni­che del pros­simo 7 mag­gio è «Bre­xit», per Bri­tish exit, vale a dire l’eventualità che i sud­diti di Sua Mae­stà pos­sano deci­dere di lasciare l’Unione euro­pea attra­verso un refe­ren­dum. Inse­guendo il suc­cesso degli euro­scet­tici, il pre­mier con­ser­va­tore David Came­ron ha già pro­messo che, se ricon­fer­mato a Dow­ning Street, orga­niz­zerà una simile con­sul­ta­zione nel 2017.
Troppo tardi secondo il par­tito che dopo essere arri­vato in testa nel voto euro­peo — a Bru­xel­les ha for­mato un gruppo con Grillo — è oggi dato più o meno in parità, intorno al 30%, con con­ser­va­tori e labu­ri­sti: l’«United King­dom Inde­pen­dence Party» (Par­tito per l’Indipendenza del Regno Unito) che il refe­ren­dum per dire addio a Bru­xel­les lo vor­rebbe già per il pros­simo anno. Fon­dato nel 1993 da ex appar­te­nenti al Par­tito con­ser­va­tore, tra i quali l’attuale lea­der Nigel Farage, in pole­mica con la rati­fica del Trat­tato di Maa­stri­cht, gra­zie a milioni di voti rac­colti negli ultimi anni — ancora nel 2010 non supe­rava il 3% -, l’Ukip non rap­pre­senta sol­tanto la più impor­tante novità del pano­rama poli­tico locale, ma anche uno dei volti di mag­giore suc­cesso del nuovo popu­li­smo di destra euro­peo, in grado di fare della cri­tica all’élite degli «euro­bu­ro­crati» l’architrave di una let­tura in ter­mini iden­ti­tari e raz­zi­sti della crisi sociale del vec­chio continente.
Come segna­lato da Robert Ford e Mat­thew Good­win, due tra i mag­giori poli­to­logi bri­tan­nici, nel loro «Revolt on the Right: Explai­ning Sup­port for the Radi­cal Right in Bri­tain» (Rou­tledge, 2014), «lo Ukip manda un mes­sag­gio molto sem­plice agli elet­tori: votan­doci potrete dire “no” all’immigrazione, “no” a West­min­ster, “no” alla Ue. Infatti, da gruppo di pres­sione anti-europeo, il par­tito ha cono­sciuto un’evoluzione verso un’identità di estrema destra in grado non sol­tanto di rac­co­gliere i con­sensi del ceto medio con­ser­va­tore, ma sem­pre più spesso anche di tutti coloro che con­si­de­rano di essere stati “lasciati indie­tro”, dimen­ti­cati dalla poli­tica e dalle isti­tu­zioni. Soprat­tutto set­tori della wor­king class bianca tra­di­zio­nal­mente legati al Labour».
La «socio­lo­gia del voto» popu­li­sta bri­tan­nico pro­po­sta da Ford e Good­win, si pre­sta così a descri­vere la situa­zione di molti altri paesi. «Gli slo­gan dell’Ukip — spie­gano i ricer­ca­tori — si rivol­gono prin­ci­pal­mente a quei set­tori della società bri­tan­nica che non si sen­tono rap­pre­sen­tati. Si tratta di per­sone che vivono nei pic­coli cen­tri, lon­tano dalle metro­poli e soprat­tutto da Lon­dra e che hanno, in media, un basso livello di istruzione.
Votano con­tro l’immigrazione pur non vivendo nelle zone dove la pre­senza degli immi­grati è più forte, ma per­ché iden­ti­fi­cano con que­sto feno­meno la loro per­dita di sta­tus». Si tratta in mag­gio­ranza di «maschi bian­chi, spesso non più gio­va­nis­simi, lavo­ra­tori o pen­sio­nati che vivono soprat­tutto nelle aree indu­striali o ex indu­striali o nelle pic­cole città di pro­vin­cia», che danno corpo a quella sorta di rivolta in nome del risen­ti­mento incar­nata dall’Ukip.

Spagna, ultras e falangisti in doppio petto
La vio­lenza non è appan­nag­gio esclu­sivo dei fasci­sti delle curve: anche le orga­niz­za­zioni pro­pria­mente «poli­ti­che» dell’estrema destra non scher­zano, come dimo­strano aggres­sioni ai danni di mili­tanti di sini­stra nei cam­pus uni­ver­si­tari o nei quar­tieri – le più recenti in quello di Usera, peri­fe­ria della capi­tale. Nella memo­ria degli anti­fa­sci­sti madri­leni è ancora vivo il ricordo del 16enne Car­los Palo­mino, accol­tel­lato mor­tal­mente da un mili­tante di Demo­cra­cia Nacio­nal (Dn) nel novem­bre di otto anni fa.
Dn è una delle prin­ci­pali sigle del mondo neo­fa­sci­sta ibe­rico, vio­lento ma nume­ri­ca­mente debole, fra­sta­gliato dal punto di vista orga­niz­za­tivo e – per for­tuna – senza alcuna forza elet­to­rale. Per tutti o quasi il modello è «Alba Dorata», ma le per­cen­tuali nelle urne sono molto diverse: alle ultime euro­pee Dn ha otte­nuto solo lo 0,08 per cento. Non fanno meglio il gruppo (per­fet­ta­mente legale) che si dichiara erede del par­tito unico del regime fran­chi­sta, la «Falange española de las Jons», o il «Movi­miento Social Repu­bli­cano», legato all’italiana «Fiamma Tri­co­lore» e agli unghe­resi di Jobbik.
Ma oltre al neo­fa­sci­smo mili­tante, in Spa­gna esi­ste la più clas­sica delle destre estreme «in dop­pio­petto». Si trova in set­tori silen­ziosi ma influenti interni o affini al Par­tido popu­lar, fon­dato da un ex mini­stro di Franco, nella magi­stra­tura, nel gior­na­li­smo e nel mondo della cul­tura istituzionale.
Un solo esem­pio: la «Reale Acca­de­mia di scienze sto­ri­che», orga­ni­smo pub­blico che ha dato alle stampe un monu­men­tale dizio­na­rio bio­gra­fico degli spa­gnoli, nel quale Franco non viene defi­nito come dit­ta­tore. Chi ha scritto quella voce? Uno sto­rico medie­vi­sta vin­co­lato alla «Fon­da­zione Fran­ci­sco Franco» (sic!), mem­bro dell’Opus Dei e pre­si­dente della «Fra­tel­lanza del Valle de los Caí­dos», memo­riale (con annesso mona­stero) in cui è sepolto il Caudillo.

Il «fascio-leghismo» erede del ventennio berlusconiano
In realtà, la foto di par­tenza del feno­meno sem­bra rac­chiu­dere più debo­lezze che poten­zia­lità: da un lato la crisi ver­ti­cale di con­sensi cono­sciuta solo fino allo scorso anno dalla Lega dopo gli innu­me­re­voli scan­dali che hanno visto coin­volte delle sue figure di primo piano, dall’altra la con­di­zione di «orfani» che si respira negli ambienti della «destra nazio­nale», sia presso i post­fa­sci­sti a vario titolo pro­ve­nienti da Alleanza Nazio­nale che tra i neo­fa­sci­sti, o i «fasci­sti del terzo mil­len­nio», che si muo­vono nello spa­zio grup­pu­sco­lare com­preso tra Casa Pound e Forza Nuova, dopo la caduta di quel Cava­liere che aveva con­tri­buito non poco a legit­ti­marne l’azione.
In que­sto con­te­sto, l’opzione inau­gu­rata da Sal­vini sem­bra essere quella di un’estrema radi­ca­liz­za­zione delle parole d’ordine — ruspe con­tro i campi rom, malin­ten­zio­nati che escono “stesi” da casa mia, per­ché «non c’è nes­sun eccesso di legit­tima difesa», immi­grati che vanno fer­mati «a casa loro», ma anche il ten­ta­tivo di darsi un pri­filo sociale con­te­stando la riforma For­nero delle pen­sioni -, che scom­mette sul fatto che in tempi di crisi, al peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita, può ben accom­pa­gnarsi un’ulteriore impo­ve­ri­mento e estre­miz­za­zione della reto­rica poli­tica. Si parla di «lepe­niz­za­zione» della Lega, quando in realtà lo sforzo com­piuto dalla lea­der del Front Natio­nal va, almeno per quanto riguarda il tro­varsi ancora invi­schiata con i sim­boli del pas­sato neo­fa­sci­sta, nella dire­zione opposta.
Al con­tra­rio, la Lega nella sua ver­sione ribat­tez­zata da Gad Ler­ner come «fascio-leghista», punta, nel suo ten­ta­tivo di tra­sfor­marsi da movi­mento del Nord in par­tito della pro­te­sta di cara­tura nazio­nale — mutuando, in que­sto sì dai fran­cesi il rife­ri­mento costante alla «pre­fe­renza nazio­nale» -, ad uti­liz­zare le resi­due ener­gie dell’estrema destra nostrana.
Un’operazione inau­gu­rata fin dalle ele­zioni euro­pee dello scorso anno con l’elezione di Mario Bor­ghe­zio nel col­le­gio dell’Italia cen­trale gra­zie al sup­porto logi­stico del cir­cuito di Casa Pound che, nelle mede­sima pro­spet­tiva ha lan­ciato la nuova sigla di «Sovra­nità», «che si pro­pone di aggre­gare tutte le comu­nità poli­ti­che di matrice sociale e iden­ti­ta­ria che vogliono soste­nere Mat­teo Sal­vini senza ten­ten­na­menti»: in altre parole un «comi­tato elet­to­rale» dell’area neo­fa­sci­sta che dreni con­sensi a favore della Lega.
Que­sto, men­tre a livello sim­bo­lico, è il rife­ri­mento alla Rus­sia di Putin come modello di difesa dei valori della tra­di­zione e dell’identità euro­pea, da con­trap­porre alla «deca­denza morale e demo­gra­fica» del Vec­chio con­ti­nente, a sug­gel­lare l’abbraccio tra i verdi ed i neri.

Nessun commento: