lunedì 27 aprile 2015
Le destre populiste in Europa: il dossier - a volte superficiale - del Manifesto
Il ritorno al futuro della destra plurale
Guido Caldiron, 25.4.2015
Qui a enfanté Le Pen? Oltre una ventina di anni fa, quando ancora le nuove destre populiste e xenofobe erano trattate da molti analisti alla stregua di epifenomeni — «si tratta solo di un voto di protesta destinato ad essere rapidamente riassorbito dai partiti tradizionali», ci si sentiva spesso ripetere da quanti intendevano negare il pericolo ricorrendo ad un armamentario interpretativo vagamente consolatorio — alcuni tra i maggiori scienziati politici francesi, e tra loro Nonna Mayer e Pascal Perrineau, avvertivano già l’urgenza di definire, per quanto possibile, una «teoria» complessiva di ciò che stava accadendo, oltre a descriverne la fenomenologia.
La Francia era infatti all’epoca il paese in cui andava emergendo nel modo più netto quel profilo articolato e composito che fa ancora oggi della «nuova destra» uno dei protagonisti indiscussi della politica europea: le cas départ, il punto di partenza di qualcosa destinato a radicarsi e crescere nel tempo. Domandarsi, come facevano già nel 1989 i due politologi nel loro Le Front National à decouvert, chi avesse «partorito» in termini politici e culturali il movimento guidato da Jean-Marie Le Pen, quali il contesto economico e sociale che ne avevano favorito l’ascesa ben oltre il carattere episodico di una fase d’emergenza, significava legare, per le vicende d’oltralpe come per quelle del resto del Vecchio continente, la comparsa di queste formazioni ad alcune delle maggiori trasformazioni intervenute a partire dalla fine degli anni Settanta: la rivoluzione economica della globalizzazione, compiuta nel segno dell’offensiva neoliberista, e la conseguente rivoluzione conservatrice che ha ristrutturato l’intero spazio simbolico delle destre.
Come segnalato da Alain Bihr fin dal 1992, in Pour en finir avec le Front National, è infatti nel segno di una crisi maggiore del mondo occidentale che le idee dell’estrema destra, del tutto discreditate dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sono tornate, seppure in una forma per molti versi del tutto nuova, ad ottenere visibilità nello spazio pubblico. Per Bihr, «quella vissuta da tutte le società europee occidentali a partire dagli anni Settanta è una crisi non solo economica, ma anche sociale, politica e culturale, che consentirà all’estrema destra di uscire dalla marginalità». In particolare, «la crisi ridefinirà la distribuzione geopolitica europea di queste forze, spostando il centro di gravità dal Sud al Nord dell’Europa. Un segnale, fra gli altri, di quanto l’estrema destra non possa essere considerata un arcaismo, l’espressione di un’arretratezza economica e politica, come spesso si è sentito dire, ma invece un fenomeno che si nutre di processi in atto nel cuore stesso della modernità».
Proprio il contesto della crisi, sociale e di senso, del mondo occidentale e le grandi trasformazioni evocate dallo stesso Bihr, produrranno una decisa riorganizzazione anche della «politica». In particolare, come sottolineato all’inizio del nuovo millennio in un editoriale di un numero monografico di Le Monde diplomatique, dedicato allo sviluppo del «nuovo populismo di destra», «durante i tre decenni che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mondiale, la vecchia destra autoritaria ha dovuto mordere il freno». Ma, «non era andata in disarmo, continuava, discretamente a condurre la battaglia delle idee. Presentandosi come opposizione al “politicamente corretto” progressista, si interrogava sospettosa: non è che la democrazia si è spinta troppo in là? La morale tradizionale può essere impunemente messa in discussione senza il rischio che il caos si installi nei posti di lavoro, nelle famiglie, nelle strade?». Niente di nuovo, in apparenza. «Ma quando l’euforia dei “trenta gloriosi” comincia a dissiparsi, quando la disoccupazione diventa un fattore stabile dell’economia, si comincia a prestare nuovamente attenzione alle idee di un tempo che gli anni di prosperità e di progresso avevano contribuito ad allontanare».
In realtà, è negli ambienti del nuovo conservatorismo di matrice neoliberale, la cui offensiva egemonica sarà simboleggiata, pur con le loro distinte specificità, dalle vittorie elettorali di Ronald Reagan e Margaret Thatcher che si produrrà quella ricerca di un vocabolario atto ad interpretare le trasformazioni sociali e politiche dell’epoca che aprirà la strada anche all’emersione delle nuove destre populiste e xenofobe. Da questo punto di vista, sarà, ancora una volta in Francia, che la sfida per la conquista delle élite di un mondo conservatore attraversato da una tumultuosa trasformazione, a costituire, come ricordato dallo storco Pierre Milza, il primo banco di prova per il successo di un nuovo pensiero anti-progressista, incarnato in particolare dall’area della nouvelle droite intellettuale riunita intorno allo studioso Alain de Benoist. Nel suo Europa estrema, Milza segnala che il laboratorio culturale che fornirà in seguito al populismo di destra, a cominciare dal Front National, molti dei suoi argomenti diventerà «alla fine degli anni Settanta, la cellula pensante delle destre» francesi intese in senso plurale, a cominciare proprio «dalle grandi formazioni politiche» del mondo conservatore e, all’epoca, dai «gabinetti ministeriali dell’era giscardiana», dopo aver contribuito a formare una parte dell’opinione pubblica gollista e liberale attraverso le testate del gruppo editoriale Hersant, il Mondadori transalpino.
Il nocciolo duro delle analisi proposte dalla nouvelle droite, ha spiegato alcuni anni fa al Manifesto il politologo Jean Yves Camus, sarà, «dapprima costituito dalla riabilitazione di temi che erano stato completamente abbandonati dalla destra classica, vale a dire soprattutto le tesi sull’“ineguaglianza degli individui” e sull’importanza da assegnare alle “radici identitarie”, sia francesi che europee». Quindi «la proposta di un’idea della politica non più ancorata alla dicotomia tra destra e sinistra», bensì ridefinita nei termini della ricerca «di uno spazio comunitario fondato sull’identità nazionale. Ciò che Jean-Marie Le Pen avrebbe in seguito riassunto nello slogan “né destra né sinistra, solo francesi”».
La «rivoluzione conservatrice» della fine degli anni Settanta, tendeva perciò a ridefinire un’«idea organica» della società che ne potesse accompagnare la ristrutturazione produttiva ed economica all’insegna di una versione ammodernata di quel «Dio, patria e famiglia» che si pensava ormai inutilizzabile dopo il 1945 e che il Sessantotto aveva contribuito ad affossare ancor più profondamente. L’incontro con quanto stava emergendo, sebbene ancora in modo episodico, negli ambienti del radicalismo di destra, avrebbe contribuito a sviluppare una miscela potenzialmente incendiaria, come, ancora una volta in modo particolarmente evidente in Francia, è accaduto più di recente con la campagna lanciata da Nicolas Sarkozy per fare propri alcuni dei temi agitati da Marine Le Pen, dalla violenta critica alla «cultura del ’68» fino a quelli dal profilo identitario, securitario e xenofobo.
Se la crescente contaminazione tra la destra liberista e conservatrice e quelle che sono state ribattezzate in seguito come nuove destre postindustriali e anti-immigrati, ha trasformato per sempre il panorama politico alternativo alla sinistra, dando nei fatti origine ad una sorta di «destra plurale», ciò che gli strateghi neoliberali non sembrano aver però considerato è che le idee e le forze che avevano così contribuito a legittimare — spesso operando anche delle pericolose incursioni revisioniste sul piano storico, come la famosa visita compiuta nel 1985, in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario della fine della Seconda guerra mondiale, da Ronald Reagan al cimitero militare tedesco di Bitburg, dove erano seppelliti anche decine di appartenenti alle Waffen SS, equiparati così implicitamente alla vittime del conflitto — da possibili partner si sarebbero rivelati ben presto come degli insidiosi competitori.
Sorta all’ombra delle grandi trasformazioni economiche dell’Occidente, la nuova destra si è trasformata da sintomo ad elemento costitutivo di una crisi che nel segno della precarizzazione delle esistenze è divenuta strutturale nelle società europee, usufruendo di un vocabolario retorico pienamente sdoganato nello spazio pubblico, si tratti del riferimento alla «preferenza nazionale» o all’odiosa e costante ricerca di un «capro espiatorio» da dare in pasto al malessere sociale diffuso. Come annotava Alan Bihr, non si tratta di una revanche sulla storia, ma di un ben più insidioso «ritorno al futuro».
L’ascesa del rossobrunismo putiniano
Oggi – diventato ormai una celebrità nel mondo della destra
europea e spesso ospite di convegni internazionali — si
definisce un «centrista radicale». Le sue posizioni politiche
sono via via divenute sempre più anti americane ed è considerato
il teorico dell’«Impero euroasiatico». Dugin non va né
sottovalutato, né confuso con qualcosa di più grande di lui. La
sua elaborazione, inserendosi in un dibattito molto vivo tra le
nuove destre, ha finito per unire posizioni molto distanti,
apparentemente, creando epigoni e interpretazioni. Qual è la
teoria di Dugin che ha finito per conquistare le destre europee alla
ricerca di una nuova bussola post guerra fredda? Dugin ha diffuso la
teoria del nazionalismo euro asiatico basato sulla
contrapposizione tra l’ordine mondiale di Usa e Gran Bretagna,
che arriverà a definire in un suo libro «il regno di Satana», o «la
nuova Babilonia», all’ordine euro asiatico guidato dalla Russia.
È bene precisare che la teoria di Dugin si compone anche di
elementi mistici, religiosi (tanto che alcuni studiosi parlano di
«setta») e non si tratta solo di una semplice esasperazione del
nazionalismo. Si tratta di un nuovo nazionalismo che si
inserisce in quella teoria di «nuova destra europea» che nasce già
negli anni Trenta e che si rianima dopo la caduta dell’Unione
sovietica. Dugin si inserisce in questo dibattito, plasmando nel
tempo la propria teoria, accompagnata da articoli e interventi
pubblici più politici, quasi sempre a favore delle politiche
putiniane. Ci sono due concetti che stanno alla base della dottrina
di Dugin: in primo luogo la necessità che solo una società post
liberale, gerarchica e in grado di mantenere le tradizioni
culturali europee, sia in grado di arginare il pluralismo e la
diluizione, fino alla scomparsa, dei valori tradizionali. Il
secondo concetto è decisamente interessante, perché permette di
comprendere alcune vicinanze (che la crisi ucraina ha di fatto
sancito) tra posizioni di estrema destra e di estrema sinistra, unite
dall’antiatlantismo e da letture geopolitiche «occidentali», che
non mettono a fuoco le caratteristiche precise di alcune aree del
mondo (Siria, Libia, il Medio oriente in generale e la stessa
Ucraina). Si tratta del concetto gramsciano dell’egemonia culturale.
Ma gli studiosi di Dugin aggiungono altri tre concetti «di
sinistra», utilizzati dalla nuova destra europea: l’anti
globalizzazione, l’attenzione al territorio e all’ambiente.
Da parte di Dugin c’è anche un interesse nei confronti della Destra
italiana, che non è una casualità: Dugin conosce molto bene la
storia del pensiero politico italiano e l’ambiente intellettuale
che ruota attorno a idee vicine alle sue. Nella sua prima rivista, il
Dolce Angelo, Dugin ha infatti ospitato un saggio di Claudio Mutti,
direttore della rivista italiana Eurasia. Dugin propone l’idea di
«Impero euroasiatico», organizzato in modo federale. Nel suo libro
più famoso, Osnovy geopolitiki («Principi di geopolitica»), Dugin
aderisce a una teoria che vede la contrapposizione
inevitabile tra le potenze marine, Usa e Gran Bretagna, e quelle
euroasiatiche.
Il suo pensiero – ribadito nel 2012 in The Fourth Political
Theory – ha trovato terreno fertile in molti paesi, in particolare
in Ungheria, con Jobbik, in Grecia con «Alba dorata»; con Ataka in
Bulgaria. Gabor Vona, leader di Jobbik ha utilizzato la teoria di
Dugin per reclamare per l’Ungheria il ruolo di ponte tra l’est
e l’ovest dell’Eurasia, rivendicando proprie ancestralità
orientali. Per la Grecia – e Cipro – Dugin avrebbe già pronto il ruolo
di porto per la guida russa all’Impero. Tutti e tre i partiti,
inoltre, condividono l’euroscetticismo, l’anticapitalismo romantico
e l’anti liberalismo.
La guerra ucraina ha scatenato molte discussioni, aprendo
a scontri verbali sui media e sulla rete tra fazioni: chi ha espresso
solidarietà con Kiev e di chi lo ha fatto con le regioni orientali
del paese. La confusa situazione dell’est ucraino, tra cittadini
e lavoratori in armi, filo russi e neonazisti russi a tenere le
redini dei principali battaglioni, ha fatto sì che l’anti
atlantismo della «destra sociale» e della sinistra potesse trovare
alcuni punti in comune nella guerra del Donbass.
Così come il riferimento storico che richiama, il
rossobrunismo, questa vicinanza non è traducibile, ce lo
auguriamo, nella nascita di un soggetto politico. Si tratta di
concomitanza di analisi e riflessioni, che avvicina alcune istanze
tipiche della destra sociale a quelle di una certa parte di sinistra
anti atlantista e spesso preda di teorie complottiste.
Senza andare troppo indietro alle origini di quel fenomeno di
rossobrunismo che si lega fin dagli anni 20 all’idea di
«comunitarismo nazionalista», oggi questa tendenza (basata
anche, malauguratamente, sul concetto secondo il quale «il nemico
del mio nemico è mio amico»), rischia di creare situazioni
imbarazzanti nella riflessioni su eventi storici, appiattendosi
sul concetto di Euroasianismo, portato avanti da Dugin e che trova
punti di contatto con molti gruppi dell’estrema destra europea.
Questa ipotesi politica contrapposta all’atlantismo e il
fascino per Putin costituiscono le due caratteristiche più
salienti di quello che potremmo ormai definire come «rossobrunismo
putiniano», pensiero minoritario, ma in grado di minare la
capacità di leggere gli eventi in un mondo multipolare.Kiev nel
Donbass. In prima fila c’è uno dei movimenti storici di estrema
destra russa, il «Russia National Unity».
Come riportato in un’intervista al «manifesto» Anton
Shekovtsov, uno dei principali analisti delle nuove destra
dell’Europa orientale, si tratta di un’organizzazione che esiste
dall’inizio degli anni 90 in Russia. «In parte, a livello
organizzativo ha una sua struttura di business e un struttura
militante, dichiaratamente neo nazista. Hanno partecipato a vari
conflitti, come in Transnistria, in Cecenia, dove hanno fatto
bottino e incetta di armi e soldi e secondo le mie fonti hanno
partecipato al tentato colpo di Stato del 1993 a Mosca, ma in difesa
del Parlamento, contro Eltsin. E in seguito hanno partecipato ad
ogni conflitto in cui sono riusciti a infilarsi, per fare soldi, armi
e training». Oggi sono il gruppo più forte presente nell’Ucraina
dell’est. Poi ci sono anche attivisti provenienti dall’«Euroasian
union», una sorta di gruppo giovanile dell’organizzazione
internazionale guidata da Alexander Dugin, quelli di «Sputnik
e Progrom», il «movimento contro l’immigrazione illegale», il
«Movimento per la Russia imperiale».
La camicia bruna dell’identità etnica
In breve: quando a Gennaio si venne a sapere che l’amministrazione
locale aveva dato l’ok all’imminente arrivo di rifugiati stranieri,
a Tröglitz cominciarono proteste così forti da indurre il sindaco
democristiano Markus Nierth, minacciato di morte, alle dimissioni.
Dietro le mobilitazioni, il partito neonazista Npd, che in
questo comune prende più voti dei socialdemocratici. Una riuscita
prova di forza dell’estrema destra, «coronata» con il grave
danneggiamento del futuro centro di accoglienza: per ora i mancati
ospiti restano ammassati nel vicino borgo di Zeitz, in attesa di
essere smistati nei comuni della zona. L’ex sindaco, pastore della
locale chiesa protestante, ha rimesso il proprio mandato, ma
continua da privato cittadino la sua battaglia antirazzista,
lamentando l’indifferenza della maggioranza silenziosa di quella
piccola comunità.
Tröglitz, purtroppo, non è un caso isolato. A dimostrarlo è la
Fondazione Antonio Amadeu, importante organizzazione della
società civile tedesca contro l’estrema destra: nel suo sito si trova
un aggiornatissimo e dettagliato elenco di tutti gli episodi di
intolleranza – danneggiamenti dei centri di accoglienza,
aggressioni, cortei anti-migranti – dall’inizio dell’anno. Al 15
aprile il conto ammontava già a 60 casi. Il maggior numero è nella
Germania orientale, ma il neonazismo non conosce confini
interni: la più recente manifestazione degli «Hooligans contro
i salafiti» (Hogesa nella sigla in tedesco) si è svolta a Dortmund,
il più importante centro della Ruhr, un tempo cuore industriale del
Paese, ora in permanente «ristrutturazione» con alti indici di
disoccupazione. Terreno fertile per questo nuovo brand
«anti-islamista» dei neofascisti più violenti, che raggruppa frange
estreme degli ultras delle curve e strutture dell’arcipelago nero sul
modello della English Defence League: lo scorso ottobre misero a ferro
e fuoco Colonia, trovando la polizia impreparata.
La lotta contro la presunta «islamizzazione» della Germania
e dell’intero mondo occidentale è il secondo ambito di iniziativa
dell’estrema destra tedesca, un nuovo fronte che si aggiunge alla
«tradizionale» ostilità contro gli stranieri, in particolare
profughi e richiedenti asilo. Il punto in comune è la sindrome da
invasione, irresponsabilmente alimentata anche dalla Csu, il
partito democristiano bavarese federato con la Cdu di Angela
Merkel: l’anno scorso lanciò una minacciosa campagna, dallo slogan
«chi imbroglia, se ne vola via», per chiedere l’espulsione degli
stranieri comunitari (cioè: dell’Europa dell’est) che avessero
fornito false informazioni ai servizi sociali allo scopo di
ottenere sussidi. Non se ne fece nulla, ma nei pozzi fu instillata la
velenosa idea: «i migranti poveri sono tanti parassiti che vengono
qua a mangiarci il “nostro” welfare». Ciò che dice apertamente
l’estrema destra.
Oltre agli hooligans, a essersi organizzati «contro
l’islamizzazione» sono gruppi di cittadini «più presentabili»: il
più noto è quello dei Pegida («Patrioti contro l’islamizzazione
dell’Occidente») di Dresda, capace di imponenti mobilitazioni.
Ospite di una delle ultime, un paio di settimane fa, l’olandese Geert
Wilders, campione europeo dell’islamofobia. Il movimento dei
sedicenti Patrioten sta cominciando forse a spegnersi, anche per
divergenze interne, ma ciò non significa che non sia destinato
a lasciare traccia: a Dresda e non solo è emersa una soggettività
politica di destra che non è certo riducibile a branchi di violenti
da stadio, ed è più ampia dell’area di simpatizzanti dei neonazi
della Npd. L’interlocutore naturale di questo universo è il partito
più giovane della scena tedesca, Alternative für Deutschland (Afd),
che nei Länder orientali del Paese miete consensi, e che è ormai
molto di più della forza mono-tematica anti-euro delle origini: «tutela
dell’ordine», limitazione dell’immigrazione, difesa della «famiglia
naturale» hanno trovato il loro posto nell’offerta programmatica
della Afd.
Estremizzati e conditi da un lessico «identitario» ed
etno-nazionalista di derivazione nazista, gli stessi temi sono da
sempre agitati dalla Npd, il partito «ufficiale» dell’estrema destra
tedesca, che trova ora nella Afd un temibile concorrente: lo si
è potuto notare l’anno scorso proprio alle elezioni regionali in
Sassonia, il Land di cui Dresda è capitale, che hanno visto la Npd
perdere a beneficio della Afd quella manciata di voti che le avrebbe
permesso di mantenere rappresentanza nel parlamento locale (si
fermò al 4,9%). Attualmente, l’unica regione nel quale i neonazisti
sono presenti nell’assemblea legislativa è il Meclemburgo, terra
d’origine della cancelliera Merkel. Rispetto al passato, però,
possono vantare un eurodeputato, Udo Voigt.
Da due anni è in corso una nuova procedura per la messa al bando
del partito, dopo un primo tentativo fallito per decisione della
Corte costituzionale nel 2003. A fare da motore della seconda
richiesta di rendere illegali le attività della Npd, lo choc dovuto
all’emersione della vicenda dei terroristi della Nsu
(Nationalsozialisticher Untergrund): organizzazione
clandestina neonazista scoperta dalle forze di polizia in
circostanze casuali nel 2011, responsabile fra il 2000 e il 2006 di
una serie di omicidi ai danni di cittadini stranieri. Sette turchi
e un greco, per anni ignorati dagli inquirenti e derubricati dai
media, con malcelato razzismo, a vittime di una sorta di «faida fra
kebabbari».
Erano stati, invece, gli obiettivi «casuali» di nuovi seguaci di
Hitler che, per un decennio, si poterono muovere indisturbati in
tutta la Germania compiendo omicidi e rapine, grazie a una rete di
complicità di qualche centinaio di persone. Fra le quali, stando
alle indagini, numerosi membri del partito legale Npd.
Nel Regno Unito, l’Ukip guida la rivolta del risentimento. E sale nei consensi elettorali
Troppo tardi secondo il partito che dopo essere arrivato in testa
nel voto europeo — a Bruxelles ha formato un gruppo con Grillo —
è oggi dato più o meno in parità, intorno al 30%, con conservatori
e laburisti: l’«United Kingdom Independence Party» (Partito per
l’Indipendenza del Regno Unito) che il referendum per dire addio
a Bruxelles lo vorrebbe già per il prossimo anno. Fondato nel 1993
da ex appartenenti al Partito conservatore, tra i quali l’attuale
leader Nigel Farage, in polemica con la ratifica del Trattato di
Maastricht, grazie a milioni di voti raccolti negli ultimi anni —
ancora nel 2010 non superava il 3% -, l’Ukip non rappresenta
soltanto la più importante novità del panorama politico locale, ma
anche uno dei volti di maggiore successo del nuovo populismo di
destra europeo, in grado di fare della critica all’élite degli
«euroburocrati» l’architrave di una lettura in termini identitari
e razzisti della crisi sociale del vecchio continente.
Come segnalato da Robert Ford e Matthew Goodwin, due tra
i maggiori politologi britannici, nel loro «Revolt on the Right:
Explaining Support for the Radical Right in Britain» (Routledge,
2014), «lo Ukip manda un messaggio molto semplice agli elettori:
votandoci potrete dire “no” all’immigrazione, “no” a Westminster,
“no” alla Ue. Infatti, da gruppo di pressione anti-europeo, il partito
ha conosciuto un’evoluzione verso un’identità di estrema destra in
grado non soltanto di raccogliere i consensi del ceto medio
conservatore, ma sempre più spesso anche di tutti coloro che
considerano di essere stati “lasciati indietro”, dimenticati dalla
politica e dalle istituzioni. Soprattutto settori della working
class bianca tradizionalmente legati al Labour».
La «sociologia del voto» populista britannico proposta da
Ford e Goodwin, si presta così a descrivere la situazione di molti
altri paesi. «Gli slogan dell’Ukip — spiegano i ricercatori — si
rivolgono principalmente a quei settori della società britannica
che non si sentono rappresentati. Si tratta di persone che vivono
nei piccoli centri, lontano dalle metropoli e soprattutto da
Londra e che hanno, in media, un basso livello di istruzione.
Votano contro l’immigrazione pur non vivendo nelle zone dove la
presenza degli immigrati è più forte, ma perché identificano con
questo fenomeno la loro perdita di status». Si tratta in
maggioranza di «maschi bianchi, spesso non più giovanissimi,
lavoratori o pensionati che vivono soprattutto nelle aree
industriali o ex industriali o nelle piccole città di provincia»,
che danno corpo a quella sorta di rivolta in nome del risentimento
incarnata dall’Ukip.
Spagna, ultras e falangisti in doppio petto
La violenza non è appannaggio esclusivo dei fascisti delle
curve: anche le organizzazioni propriamente «politiche»
dell’estrema destra non scherzano, come dimostrano aggressioni ai
danni di militanti di sinistra nei campus universitari o nei
quartieri – le più recenti in quello di Usera, periferia della
capitale. Nella memoria degli antifascisti madrileni è ancora vivo
il ricordo del 16enne Carlos Palomino, accoltellato mortalmente
da un militante di Democracia Nacional (Dn) nel novembre di otto
anni fa.
Dn è una delle principali sigle del mondo neofascista iberico,
violento ma numericamente debole, frastagliato dal punto di vista
organizzativo e – per fortuna – senza alcuna forza elettorale. Per
tutti o quasi il modello è «Alba Dorata», ma le percentuali nelle
urne sono molto diverse: alle ultime europee Dn ha ottenuto solo lo
0,08 per cento. Non fanno meglio il gruppo (perfettamente legale) che
si dichiara erede del partito unico del regime franchista, la
«Falange española de las Jons», o il «Movimiento Social Republicano»,
legato all’italiana «Fiamma Tricolore» e agli ungheresi di Jobbik.
Ma oltre al neofascismo militante, in Spagna esiste la più
classica delle destre estreme «in doppiopetto». Si trova in settori
silenziosi ma influenti interni o affini al Partido popular, fondato
da un ex ministro di Franco, nella magistratura, nel giornalismo
e nel mondo della cultura istituzionale.
Un solo esempio: la «Reale Accademia di scienze storiche»,
organismo pubblico che ha dato alle stampe un monumentale
dizionario biografico degli spagnoli, nel quale Franco non viene
definito come dittatore. Chi ha scritto quella voce? Uno storico
medievista vincolato alla «Fondazione Francisco Franco» (sic!),
membro dell’Opus Dei e presidente della «Fratellanza del Valle de
los Caídos», memoriale (con annesso monastero) in cui è sepolto il
Caudillo.
Il «fascio-leghismo» erede del ventennio berlusconiano
In realtà, la foto di partenza del fenomeno sembra racchiudere
più debolezze che potenzialità: da un lato la crisi verticale di
consensi conosciuta solo fino allo scorso anno dalla Lega dopo gli
innumerevoli scandali che hanno visto coinvolte delle sue figure di
primo piano, dall’altra la condizione di «orfani» che si respira
negli ambienti della «destra nazionale», sia presso i postfascisti
a vario titolo provenienti da Alleanza Nazionale che tra
i neofascisti, o i «fascisti del terzo millennio», che si muovono
nello spazio gruppuscolare compreso tra Casa Pound e Forza Nuova,
dopo la caduta di quel Cavaliere che aveva contribuito non poco
a legittimarne l’azione.
In questo contesto, l’opzione inaugurata da Salvini sembra
essere quella di un’estrema radicalizzazione delle parole d’ordine —
ruspe contro i campi rom, malintenzionati che escono “stesi” da
casa mia, perché «non c’è nessun eccesso di legittima difesa»,
immigrati che vanno fermati «a casa loro», ma anche il tentativo di
darsi un prifilo sociale contestando la riforma Fornero delle
pensioni -, che scommette sul fatto che in tempi di crisi, al
peggioramento delle condizioni di vita, può ben accompagnarsi
un’ulteriore impoverimento e estremizzazione della retorica
politica. Si parla di «lepenizzazione» della Lega, quando in realtà
lo sforzo compiuto dalla leader del Front National va, almeno per
quanto riguarda il trovarsi ancora invischiata con i simboli del
passato neofascista, nella direzione opposta.
Al contrario, la Lega nella sua versione ribattezzata da Gad
Lerner come «fascio-leghista», punta, nel suo tentativo di
trasformarsi da movimento del Nord in partito della protesta di
caratura nazionale — mutuando, in questo sì dai francesi il
riferimento costante alla «preferenza nazionale» -, ad utilizzare
le residue energie dell’estrema destra nostrana.
Un’operazione inaugurata fin dalle elezioni europee dello scorso
anno con l’elezione di Mario Borghezio nel collegio dell’Italia
centrale grazie al supporto logistico del circuito di Casa Pound
che, nelle medesima prospettiva ha lanciato la nuova sigla di
«Sovranità», «che si propone di aggregare tutte le comunità
politiche di matrice sociale e identitaria che vogliono sostenere
Matteo Salvini senza tentennamenti»: in altre parole un «comitato
elettorale» dell’area neofascista che dreni consensi a favore
della Lega.
Questo, mentre a livello simbolico, è il riferimento alla
Russia di Putin come modello di difesa dei valori della tradizione
e dell’identità europea, da contrapporre alla «decadenza morale
e demografica» del Vecchio continente, a suggellare l’abbraccio
tra i verdi ed i neri.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento