Hillary Clinton Il matriarcato al potere
lunedì 27 aprile 2015
Sulla candidatura della signora Clinton e sulle elezioni postmoderne
Hillary Clinton Il matriarcato al potere
Non
è né l’economia né la classe media che decide il successo di
un’elezione ma la capacità di ottenere dall’elettore l’adesione
simbolica al candidato
di Christian Salmon Repubblica 24.4.15
LA CANDIDATURA di Hillary Clinton alle presidenziali del 2016 era
scontata, ma ci si chiedeva quale forma avrebbe assunto la sua
dichiarazione di intenti. Nel 2008 si era lanciata nella campagna con un
semplice tweet: « I’m in and I’m in to win », sono qui e sono qui per
vincere. Questa volta ha aperto le ostilità con un breve video sul sito
della sua campagna, subito rilanciato dai social network.
In poco più di due minuti (dove lei compare solo al novantesimo
secondo), Hillary dà la parola ad americani di classe media: una giovane
madre di famiglia, una giovane coppia nera che aspetta un bambino, due
fratelli ispanici, una studentessa, una coppia di omosessuali appena
convolata a nozze, senza dimenticare quegli operai bianchi che nel 2008
l’avevano massicciamente sostenuta.
Il messaggio è chiaro: la classe media, le disuguaglianze, l’ottimismo della volontà.
Ma il concetto di classe media, come dimostrato da numerosi studi, è una
categoria acchiappatutto per alcuni, un mito per altri, ma in ogni caso
una classificazione che andrebbe declinata e utilizzata al plurale.
Fare della classe media, al singolare, l’arbitro delle elezioni è una
distorsione linguistica: bisognerebbe prima sapere di quale classe media
si parla. Lo stesso vale per le classificazioni demografiche
dell’elettorato secondo l’origine etnica, il colore della pelle o un
qualunque altro fattore identitario. Se il voto nero ha senza dubbio
giocato un ruolo nell’elezione di Obama, bisogna ricordare anche che
alle primarie democratiche del 2008 Barack Obama vinse contro Hillary
Clinton nell’Iowa, uno Stato «bianco», e perse in California, uno Stato
multirazziale. Non è né l’economia né la classe media che decide il
vincitore un’elezione, ma il successo o il fallimento di una
performance, cioè la capacità di ottenere dall’elettore
un’identificazione simbolica con il candidato.
Nelle moderne campagne performative, i marker ideologici, culturali,
razziali e perfino sessuali sono diventati intercambiabili. Si spostano a
seconda delle performance di coloro che li scelgono. Ogni schieramento
cerca di prendere in prestito da quello avverso elementi della sua
mitologia: la destra si impadronisce del valore lavoro, del cambiamento;
la sinistra vuole difendere la nazione, l’ordine, la sicurezza. Nel
2008, in America, abbiamo potuto constatare, fra i due candidati
democratici, un certo rovesciamento dei «poli» sessuali, con la
candidata che giostrava con i segni della virilità, per non dire del
maschilismo — la perizia, la competenza, l’esperienza, la perseveranza,
la razionalità — mentre il candidato produceva segnali associati
maggiormente al polo «femminile»: il carisma fascinoso, la capacità di
sedurre, i valori del dialogo e del compromesso e — come gli
rimproverava Hillary — il lirismo delle campagne elettorali invece della
prosa del buongoverno.
Dopo aver sparso dubbi sulla perizia del candidato Obama lo staff di
Hillary Clinton pensò di lanciare una polemica sulla virilità di Obama:
ha meno palle di Hillary, una donna — affermavano i suoi portavoce — che
le palle ce le ha. Malgrado l’apparente sguaiatezza, la faccenda merita
tutta la nostra attenzione. James Carville, il celebre stratega della
campagna di Bill Clinton nel 1994, non ebbe timore di dichiarare a
Newsweek: «Se lei gli regalasse una delle sue palle, ne avrebbero due
per ciascuno!». L’attacco non era stravagante come sembrava.
Nell’America di Bush, abituata alle posture marziali, l’elezione si
giocava sull’«habitus» del candidato: guerriero o negoziatore? Sognatore
o macho? «Chi è il meno macho dei due?», si chiedeva l’editorialista
del New York Times Maureen Dowd. E sul Guardian Nicolaus Mill definiva
le primarie democratiche «primarie di testosterone».
È noto che «sesso» e «genere» sono due cose diverse. «Femminilità» e
«virilità», più che «caratteri biologici» propri del sesso, sono dei
marker costruiti dalla società. Non è stato probabilmente sottolineato a
sufficienza fino a che punto queste caratteristiche siano mobili, nella
vita politica e nelle campagne elettorali. In un mondo in mutazione
accelerata, la figura della madre rassicura, probabilmente perché
incarna l’ultima forma di stabilità, di continuità. La figura di Hillary
Clinton, come quella di Angela Merkel, sono esemplari di questa forma
di resilienza. Alla Casa Bianca, Hillary dovette gestire gli
sbarellamenti del marito presidente, subire l’umiliazione della donna
tradita, scendere in campo personalmente ma finendo per cedere il passo
all’affascinante Obama e andando a sbattere contro il famoso soffitto di
vetro. Ha accettato di fare il segretario di Stato agli ordini del suo
rivale vittorioso per proteggere l’America. Il suo ritorno in politica è
una narrazione: la narrazione del ritorno a casa, agli anni fausti
dell’era Clinton, quando l’America non era in guerra e non c’era
terrorismo. Hillary ha invitato gli americani ad accompagnarla in questo
«viaggio », perché questo ritorno alla Casa Bianca è anche un racconto
di viaggio, un lungo viaggio che è costato molti sforzi e ha richiesto
ingegnosità e perseveranza. È la sorprendente virtù della perseveranza,
chiamata a diventare un concetto chiave di tutte le campagne politiche,
di fronte all’evaporare della potenza dell’agire politico dopo la crisi
del 2008 e nel contesto generale della globalizzazione neoliberista. La
Nazione fa difetto. E l’immagine del potere mascolino ha il piombo nelle
ali! Che cosa resta di Bush, Berlusconi, Blair, Sarkozy, senza
dimenticare Dominique Strauss-Kahn? Le figure del divieto e della
trasgressione si sono scambiate di posto. Gli uomini del potere, i padri
(della nazione), non si sognano più di occupare il posto della legge e
preferiscono ormai quello della trasgressione. Spetta alle donne salvare
la traballante istanza della legge. Martine Aubry nel 2012 denunciava
la debolezza «strutturale» di François Hollande (« Quand c’est flou,
c’est qu’il y a un loup », quando si è vaghi vuol dire che c’è qualcosa
che non va, diceva la Aubry citando la nonna), ma non è riuscita nel
compito storico che aveva davanti, diventare una Merkel di sinistra,
perché ha rifiutato di occupare il posto della legge (suo padre Jacques
Delors, bisogna dirlo, non è venuto meno alle sue promesse!). Nel
recente conflitto fra Marine Le Pen e il padre, lo schema è ancora più
caricaturale: è la figlia che fustiga il padre.
Il padre della Nazione viene a mancare, tocca alle donne darsi da fare.
Angela Merkel, Christine Lagarde, Hillary Clinton: tre grandi figure del
potere femminile, la triade post-crisi del 2008! Angela Merkel ha
raccolto il potere dalle mani di un Helmut Kohl ormai sfiancato,
indebolito dagli scandali. Christine Lagarde ha ridato lustro al Fmi,
infangato dalle accuse di stupro a carico di Strauss-Kahn. Hillary
Clinton raccoglie il testimone di quel farfallone di suo marito e punta a
prendere il posto del prudente Obama! Potrebbe essere il preannuncio di
un ritorno in mani matriarcali del potere sfuggito di mano agli uomini,
che non controllano più niente in un mondo troppo complicato. C’è del
marcio nel regno del potere maschile!
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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