martedì 21 aprile 2015

Una antropologia della crisi

Risultati immagini per Etnografia del quotidianoMarco Aime: Etnografia del quotidiano. Uno sguardo antropologico sull'Italia che cambia, elèuthera

Risvolto

Riflettere sulla propria società, utilizzando gli strumenti a disposizione dell'antropologo, è un tentativo di condividere con gli altri membri del gruppo di appartenenza alcune possibili letture dei punti di rottura che segnano quella società. E di crepe nella società italiana attuale se ne riscontrano tante. L'Italia appare come una società frammentata che di conseguenza agisce in modo disordinato, cosa che impedisce il nascere di una coscienza collettiva. Da qui deriva anche la criticità del rapporto tra cittadino e Stato, un'istituzione che nel nostro paese conserva i tratti tipici dei regimi autoritari, sebbene celati nelle pieghe della legalità. Uno stato di cose che traspare in modo evidente se si analizzano in modo disincantato alcuni momenti topici della nostra vita pubblica, sia a livello istituzionale, sia a livello della quotidianità di massa. Ed ecco quindi come la parata del 2 giugno, la percezione della Borsa e del potere finanziario o lo sviluppo del sistema ferroviario nazionale diventano metafore quanto mai ricche ed esaurienti per capire l'evoluzione della società italiana. 



Il tribalismo commerciale 
Intervista. Un incontro con l'antropologo Marco Aime, in occasione del suo ultimo saggio uscito per elèuthera «Etnografia del quotidiano». Nel libro, lo studioso smaschera i rituali politici, finanziari e di potere della società

Alessandra Pigliaru, il Manifesto 18.4.2015 

Da anni, il lavoro di Marco Aime si con­cen­tra su alcuni nodi politico-sociali riletti e risi­gni­fi­cati attra­verso la lente dell’antropologia cul­tu­rale e della sua grande espe­rienza che gli pro­viene dai molti viaggi e incon­tri in Asia, Ame­rica Latina e Africa. Anche in que­sto suo ultimo libro, Etno­gra­fia del quo­ti­diano. Uno sguardo antro­po­lo­gico sull’Italia che cam­bia (elèu­thera, pp. 192, euro 15) l’idea è quella di offrire una bus­sola per orien­tarsi intorno ad alcune istan­ta­nee del pre­sente e farne punto di estesa discus­sione. Come nota infatti Jean-Loup Amselle nella pre­fa­zione al volume, la pro­po­sta di Aime che risente sem­pre dell’osservazione par­te­ci­pante con­ferma come poli­tica e antro­po­lo­gia siano in stretto e inscin­di­bile contatto. 
I temi che Marco Aime ha seguito con mag­giore fre­quenza gli hanno per­messo di sma­sche­rare la cosmesi politico-lessicale entro cui sono stati spesso spac­ciati, quindi prin­ci­pal­mente le reto­ri­che attorno alla cul­tura, all’identità, alla razza e ai mec­ca­ni­smi coer­ci­tivi di potere e pro­fitto cor­ri­spon­denti, ritor­nano anche in Etno­gra­fia del quo­ti­diano mostrando la let­tura di un sistema sociale in bilico fra la dif­fi­coltà della «crea­zione di una coscienza col­let­tiva» e la risorsa – tenace e radi­cale — di pra­ti­che poli­ti­che e di resi­stenza. Lo abbiamo incon­trato per por­ger­gli qual­che domanda. 

I rituali di rap­pre­sen­ta­zione, come lei stesso spiega, «met­tono in scena» la strut­tura uffi­ciale di una società e, in que­sto senso, sono illu­sioni di cui non si può fare a meno per­ché tra gli ele­menti fon­danti di quella stessa società, pic­cola o grande che sia. A tal pro­po­sito, si sof­ferma sulla parata del 2 giu­gno notando come, nella sua stessa pros­se­mica, risieda una per­fetta rap­pre­sen­ta­zione della gerar­chia politico-militare che governa il paese che spende le pro­prie risorse per riba­dire un posi­zio­na­mento mili­ta­ri­stico, poli­zie­sco e guer­ra­fon­daio a detri­mento di altre scelte e altri sog­getti…
Quella parata è un rituale che ostenta e con­ferma il pre­do­mi­nio che tutto ciò che con­cerne l’apparato bel­lico è supe­riore alla società civile e che il potere poli­tico sostiene que­sta gerar­chia. Lo si com­prende non solo dal fatto che a sfi­lare, ad appa­rire nel giorno della Festa della Repub­blica, quella «fon­data sul lavoro», siano solo i mili­tari.
Come a dire che quello delle armi è l’unico mestiere degno di essere mostrato, ma lo si evince anche da altri eventi: ai mili­tari morti in quelle forme camuf­fate di guerra che chia­miamo «mis­sioni uma­ni­ta­rie» ven­gono riser­vati fune­rali di Stato con tanto di ban­diera e Pre­si­dente; ai caduti sul lavoro che ogni giorno riem­piono le nostre cro­na­che no. E nel caso dell’aereo che si abbatté sulla scuola di Casa­lec­chio di Reno nel 1990, l’Avvocatura di Stato, essendo le due parti con­ten­denti entrambe isti­tu­zioni sta­tali (Mini­stero della difesa e quello dell’istruzione), scelse di difen­dere il primo. Ancora una volta l’esercito viene prima dei cittadini. 

Altro ele­mento su cui si con­cen­tra riguarda la Val di Susa e il movi­mento No Tav che lei cono­sce e ha fre­quen­tato in alcune occa­sioni. Sot­to­li­nea la costru­zione del «noi» — in gene­rale con­cetto sci­vo­loso che rischia di neu­tra­liz­zare le dif­fe­renze — che lei qui sot­to­li­nea plu­rale e con­di­viso per­ché non è fon­dato sull’autoctonia bensì risulta frutto dell’adesione alla lotta poli­tica che si sostan­zia nelle pra­ti­che dal basso e in ciò che è «l’assumersi le respon­sa­bi­lità che legano gli uni agli altri»…
Il movi­mento No Tav si dif­fe­ren­zia rispetto ad altri movi­menti di oppo­si­zione per­ché ha saputo da un lato gestire la diver­sità al pro­prio interno e dall’altro a non chiu­dersi in una iden­tità locale, esclu­dendo gli altri. Nel primo caso, la spe­ci­fi­cità di que­sto movi­mento è di tenere insieme per­sone di idee poli­ti­che diver­sis­sime, comu­ni­sti e cat­to­lici, anar­chici e leghi­sti, così come indi­vi­dui di età diversa: alle mani­fe­sta­zioni si vedono stu­denti del liceo, anziani par­ti­giani, almeno tre gene­ra­zioni par­te­ci­pano atti­va­mente alla lotta.
Sull’altro ver­sante, uno dei punti di forza si può rias­su­mere nello slo­gan «val­su­sini si diventa», che tra­sforma una pre­ro­ga­tiva di appar­te­nenza ter­ri­to­riale, che ine­vi­ta­bil­mente esclu­de­rebbe chi non è del posto, in una scelta ideo­lo­gica, quella di par­te­ci­pare a una lotta in cui si crede. Al con­tra­rio di ciò che fa la Lega, il movi­mento ha pun­tato non sulla natura, ma sulla cultura. 

Tra i temi che le stanno a cuore da anni c’è quello del tri­ba­li­smo, uno spet­tro che in nuova forma secondo lei «si aggira per l’Europa e soprat­tutto per l’Italia». Rin­trac­cia infatti una rela­zione con l’emergere di nuovi gruppi poli­tici che si fon­dano sulle reto­ri­che dell’autoctonia, dell’identità e delle radici e che hanno della cul­tura una con­ce­zione raz­ziale come dato bio­lo­gico…
Appunto, come dicevo prima, molti movi­menti e par­titi euro­pei e in Ita­lia la Lega, stanno pro­po­nendo una società etnica, iden­ti­ta­ria ed esclu­dente. Una società basata sul luogo di nascita e non sulle scelte cul­tu­rali. Un fatto, que­sto, che richiama sini­stra­mente quel Blut und Blo­den, il «terra e san­gue» tanto caro ai nazi­sti. Non a caso nelle loro reto­ri­che spa­dro­neg­gia la meta­fora delle «radici», come se gli umani fos­sero piante che cre­scono solo in un deter­mi­nato posto. Gli uomini hanno però piedi e la sto­ria dell’umanità è fatta di gente in cam­mino. Que­sti movi­menti invece pro­pon­gono una imma­gine sta­tica della sto­ria e per darsi una fac­ciata più moderna, par­lano di difesa della cul­tura, ma l’immagine di cul­tura che hanno in testa è simile a quella della razza: non fatta di scelte, ma deter­mi­nata dalla nascita. Ecco dove si nascon­dono le nuove forme di tribalismo. 

Rav­visa un legame tra il modo in cui si rap­pre­senta il mer­cato finan­zia­rio e la stre­go­ne­ria. L’incertezza, il rischio ma anche il lin­guag­gio uti­liz­zato diven­gono ele­menti che si scon­trano con la com­pren­si­bi­lità con­sen­tita a tutte e tutti rispon­dendo piut­to­sto a un’esigenza che si muove tra azzardo e cre­denza. Cosa intende? 

Mi sono un po’ diver­tito a gio­care sulla incre­di­bile somi­glianza che inter­corre tra la pra­tica della finanza e la stre­go­ne­ria dei popoli che ho stu­diato. In entrambi i casi ci si affida a qual­cuno che si sup­pone abbia più poteri di noi e che sia per­tanto in grado di mani­po­lare forze a noi sco­no­sciute, al fine di otte­nere un qual­che risul­tato van­tag­gioso.
Il tutto senza alcuna cer­tezza del risul­tato: non è un caso, infatti, che in ita­liano, in inglese, in fran­cese il verbo usato per indi­care l’attività in borsa sia «gio­care», verbo legato all’azzardo. Non si dice «lavo­rare in borsa», per­ché quella è una pra­tica estra­nea al lavoro, quello vero. Anche il lin­guag­gio crip­tico infar­cito di ter­mini miste­riosi ai più come sub­prime, deri­vati, future, stock options sono il segno di un mondo a parte, che non vive nella realtà quotidiana. 

Arri­viamo al suo rico­no­sci­mento di un mer­cato prov­vi­sto di un chi — quindi incar­nato da donne e uomini. A riprova del suo inte­resse ne ha scritto anche per la col­let­ta­nea Davide e Golia. La pri­ma­vera delle eco­no­mie diverse (AA. VV., Jaka Book, 2013) e c’è da chie­dersi se il rife­ri­mento sia alla pos­si­bi­lità di buone pra­ti­che e quali…
Pro­prio dal con­ti­nente della stre­go­ne­ria per eccel­lenza ci arri­vano pra­ti­che che, al con­tra­rio della stre­go­ne­ria, che agi­sce per divi­dere e spez­zare legami, ten­tano di raf­for­zarli e di con­so­li­darli. Per esem­pio, sono stati mutuati modelli di «resi­stenza» afri­cani al mer­cato, adot­tati in metro­poli euro­pee come Parigi e Lon­dra. Una sorta di nemesi sto­rica, pro­prio nelle due prin­ci­pali capi­tali del colo­nia­li­smo afri­cano, si sono dif­fusi quei cir­cuiti di scam­bio locale, chia­mati Sel (Systè­mes d’échanges locaux) o Lets (Local Exchange Trade Systems).
Con forme e orga­niz­za­zioni diverse, que­sti sistemi locali ten­dono a spo­stare l’accento dallo scam­bio com­mer­ciale a uno scam­bio che pre­vede una forma di mora­lità. L’ispirazione per la rea­liz­za­zione di que­sti sistemi è stata tratta da realtà simili ope­ranti a Grand Yoff, un quar­tiere di Dakar. Cosa è acca­duto in Sene­gal? Che per fare fronte a un sistema eco­no­mico di mar­chio occi­den­tale, amato dalle élite dei fun­zio­nari ma troppo lon­tano dalle esi­genze della gente comune, si è ten­tato di ripro­porre in chiave moderna quella che gli antro­po­logi defi­ni­scono «l’economia degli affetti».
Niente di più natu­rale che recu­pe­rare le tra­di­zio­nali rela­zioni paren­tali, strut­tura fon­dante della società afri­cana, e farle fun­zio­nare come rete di scambio.

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