venerdì 1 maggio 2015
Strike! Per riconoscere i pezzi della sinistra PD ci vorrà l'esame del DNA
“Non voglio morire democristiano”
di Francesco Bei Repubblica 30.4.15
ROMA
«Certo, ho fatto una forzatura e ho perso qualcosa sulla sinistra. Ma
esercitare la leadership non è avere tutti a bordo: la leadership è
muovere la nave. Per avere tutti a bordo bastava Letta». A sera,
consumato il primo strappo in Parlamento, mentre i renziani festeggiano i
numeri della fiducia e lo sfarinamento della minoranza, con i
fedelissimi il premier ammette «la forzatura» sulla questione di
fiducia. I voti per ora gli hanno dato ragione e due ex segretari come
Bersani e Epifani non sono riusciti a convincere che una ventina di Area
riformista a non votare la fiducia. «Sul Jobs Act erano stati in 33 a
non votare, stavolta sono saliti a 38: tanto rumore per nulla».
Ma lo
strappo in realtà impensierisce anche a palazzo Chigi, soprattutto in
vista della prossima battaglia, quella al Senato sulla riforma
costituzionale. Dove anche una ventina di senatori dissidenti potrebbero
bastare a rendere necessario il ricorso a Denis Verdini e ai suoi amici
sparsi dentro Forza Italia e Gal. Un soccorso imbarazzante per Renzi.
Eppure il capo del governo continua a ritenere di non aver avuto altra
scelta. «Conosco questo Parlamento. Avrei perso. Non faccio forzature
inutili. Senza la fiducia - ripete ai suoi - saremmo andati sotto su
soglie e apparentamento. Al Senato sarebbe ricominciato tutto da capo,
come accade ormai da anni. Senza la fiducia avremmo fatto un’operazione
nobile, ma ci saremmo tenuti il Consultellum, la più pericolosa legge
elettorale perché costringe alle larghe intese permanenti».
Ecco
dunque il cuore del renzismo, la filosofia che lo spinge sempre alla
sfida frontale rispetto alla mediazione: «Preferisco forzare ma non
morire democristiano e avere una legge elettorale col ballottaggio per
la prima volta nella storia italiana ». Davide Ermini, responsabile
giustizia del Pd, uno che lo segue da quando aveva vent’anni, la spiega
in questo modo: «Solo chi non lo conosce si può stupire di questa
decisione. Lui è fatto così. Anche quando era presidente della provincia
di Firenze e pensava di candidarsi alle primarie da sindaco, io glielo
sconsigliai in tutti i modi. “Ci faranno un c...così”. Per fortuna non
mi diede retta e vinse».
Il suo “metodo” il premier lo rivendica oggi
alla luce dei risultati già raggiunti. «Ho portato Berlusconi al tavolo
e la minoranza se ne è andata: però le riforme sono ripartite. Abbiamo
fatto la riforma del lavoro, gli 80 euro, la giustizia
dall’autoriciclaggio alla responsabilità civile. Abbiamo eletto
Mattarella con lo stesso Parlamento che aveva fatto schifo la volta
scorsa e questo nonostante la contrarietà iniziale di Alfano e
l’opposizione Berlusconi». Insomma, il “metodo” funziona. E la scelta
intransigente di Bersani, Cuperlo, Letta e Bindi ha visto più defezioni
che consensi nella stessa minoranza. «Del resto era una scelta
incomprensibile - confida Matteo Orfini - anche perché in un partito ci
si sta seguendo le regole. Io me lo ricordo ancora Enrico Letta premier
quando, in un’assemblea di gruppo, ci obbligò nel 2013 a votare la
fiducia al ministro Cancellieri dicendo che “sfiduciare lei equivale a
sfiduciare il mio governo”. E noi tutti obbedimmo, turandoci il naso,
compreso Civati».
I rapporti insomma sono lacerati, in tanti ieri in
Transatlantico non si salutavano più e si guardavano in cagnesco. Ma la
battaglia del Senato incombe e lì si misurerà la capacità di Renzi di
ricompattare il partito. Intanto, da subito, partirà un’offensiva sul
fronte sinistro. Con l’uso del “tesoretto” per gli incapienti, con il
comizio domenica alla Festa dell’Unità, con le unioni civili, lo ius
soli. E il riconoscimento di una nuova leadership della minoranza dopo
che cinquanta deputati di Area riformista hanno voltato le spalle a
Roberto Speranza. Il premier già si rivolge al ministro Maurizio Martina
come nuovo interlocutore per l’opposizione interna.
Dunque, a
palazzo Madama, Renzi punta a gettare sul tavolo alcune aperture per
bilanciare lo strappo sull’Italicum. Ma il nodo centrale resta quello
del Senato elettivo, la minoranza non intende accontentarsi di alcune
operazioni di semplice ritocco su parti marginali della riforma
costituzionale. Sono già stati chiesti dei pareri di autorevoli
costituzionalisti per sostenere l’ipotesi di una riapertura
dell’articolo due, quello che riguarda appunto la composizione del
Senato con i consiglieri regionali. La minoranza punta all’elezione
diretta, in un listino a parte, dei futuri senatori. Secondo l’idea a
suo tempo sostenuta da Gaetano Quagliariello. Ma c’è chi va oltre. Il
bersaniano Miguel Gotor sostiene infatti, alla luce dell’approvazione
dell’Italicum, che palazzo Madama dovrebbe diventare «un Senato delle
garanzie e non più della autonomie, passando dal modello tedesco del
Bundesrat a quello spagnolo». Significherebbe allargare le competenze di
palazzo Madama ai diritti civili. Inoltre, sull’elezione del capo dello
Stato, per la minoranza dem si dovrebbe prevedere una norma di
chiusura, con il ballottaggio finale tra i primi due candidati più
votati. Insomma, i bersaniani si aspettano una discussione vera, su
punti qualificanti della riforma. Solo in questo caso potrebbero dare
voto favorevole alla legge costituzionale, sottraendosi alle sirene dei
forzisti che puntano ad arruolarli per far fallire il progetto del
governo. «Ora - tuonava ieri bellicoso a Montecitorio Augusto Minzolini -
state certi che a Renzi faremo saltare la riforma a palazzo Madama.
Così si andrà a votare con l’Italicum alla Camera e con il Consultellum
al Senato».
Ora a sinistra si evocano i gruppi autonomi
di Monica Guerzoni Corriere 30.4.15
L’idea
che circola tra i «duri». Area riformista lacerata: l’ipotesi delle
carte bollate per contendersi il marchio Ma sulla scissione i big
dell’ala dissidente frenano. Bersani: «Non esco dal Pd, è Renzi che ha
fatto lo strappo»
ROMA «E chi li guida i nuovi responsabili,
Scilipoti?» ironizza un bersaniano reduce dalla lunga notte che ha
lacerato la minoranza, prima che il giorno spaccasse come una mela anche
il Pd. Dalle ceneri di Area riformista nascono due nuove componenti del
Pd. Da una parte i 38 «riformisti» (opposizione dura e pura) che non
hanno votato la fiducia. Dall’altra i nuovi filo-renziani, che si sono
smarcati dai «padri» rottamati dicendo sì al governo e professando
lealtà con la lettera dei 50: un documento che Nico Stumpo paragona a un
«volantino ciclinprop» stile anni ‘70 e un’altra dissidente bersaniana,
Enza Bruno Bossio, definisce «falso perché senza firme». Dopo i
tormenti e le lacrime potrebbero arrivare anche le carte bollate, perché
si litiga anche sul marchio di Area riformista .
Adesso nel partito
di Renzi tutto può succedere. Dalla costruzione di una agguerrita
corrente ulivista che si riconosca in Letta e Bersani (ma anche in Prodi
e D’Alema) alla nascita di un nuovo soggetto politico. «Renzi ha
compiuto un atto grave sul piano democratico, questo strappo lascerà dei
segni — pensa al dopo Stefano Fassina — Sarebbe stupido negarlo. Il
congresso è chiuso, ora la minoranza è quella che vota in modo diverso».
La nuova fase potrebbe portare alla nascita di gruppi autonomi. «Sul no
al provvedimento saremo più di 38», spera Rosy Bindi. Non teme
sanzioni? «Se vogliono cacciarci, lo facciano».
A sinistra si sono
convinti che Renzi stia correndo verso le elezioni anticipate. Cuperlo,
che ha perso nel primo voto 7 deputati su 21, pensa che la fiducia avrà
«ripercussioni sui tempi della legislatura». E Bindi: «Elezioni più
vicine? Chi lo dice non ha torto, l’Italicum è un’arma che Renzi vuol
tenersi per avere le mani libere». Bersani è durissimo, pensa che Renzi
stia sottovalutando un precedente che «non porterà nulla di buono» e non
accetta, dichiara, che «si zittisca il Parlamento su un tema così».
Il
presidente dell’Emilia Romagna, l’ex bersaniano Stefano Bonaccini,
comprende il dramma degli ex compagni: «La scissione? È legittimo che
qualcuno se ne voglia andare perché non si sente più a casa». Il dilemma
di Bersani è che un fondatore del suo calibro non ha alcuna voglia di
fare «il nanetto di Biancaneve» in un partito mignon del 3%: «Io non
esco dal Pd, bisogna tornare al Pd. È Renzi che ha fatto lo strappo, non
io». Ma Alfredo D’Attorre non esclude nulla: «Dobbiamo trovarci una
prospettiva nuova in tempi brevi». Stumpo frena: «Ci batteremo per
costruire un’area di minoranza che contenderà a Renzi la guida del Pd».
Rancori,
veleni, amicizie in pezzi. In termini di rapporti umani e politici chi
paga il prezzo più alto è Roberto Speranza, che si è visto sfilar via
più di mezza corrente dai «governativi» Martina e Mauri, dopo il
drammatico processo subito dai suoi la notte della vigilia. Tra i
deputati che non hanno tradito l’ex capogruppo si parla molto della
presunta «compravendita» da parte dei renziani: un pressing tutto
politico per convincere bersaniani e lettiani incerti a passare il
guado: «Si sono mossi Renzi, Boschi e Lotti promettendo posti in lista e
presidenze di commissione». Damiano e Boccia? «Hanno votato la
fiducia...». Il ministro Orlando non fa mistero di aver fatto un paio di
telefonate: «Pressing? Ma no... Una è andata bene, l’altra no».
Lettiane
come l’ex ministro Carrozza e la sottosegretaria De Micheli hanno
votato sì. E c’è anche chi è riuscito a resistere, a metà. Lattuca dice
di essersi fatto «violenza» per votare la fiducia, ma boccerà
l’Italicum.
Il destino di un partito
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