venerdì 1 maggio 2015

Strike! Per riconoscere i pezzi della sinistra PD ci vorrà l'esame del DNA


Risultati immagini per renzi orfiniIl premier: “Ho forzato. Ma anche se non ho tutti a bordo, adesso la nave va”

“Non voglio morire democristiano”

di Francesco Bei Repubblica 30.4.15

ROMA «Certo, ho fatto una forzatura e ho perso qualcosa sulla sinistra. Ma esercitare la leadership non è avere tutti a bordo: la leadership è muovere la nave. Per avere tutti a bordo bastava Letta». A sera, consumato il primo strappo in Parlamento, mentre i renziani festeggiano i numeri della fiducia e lo sfarinamento della minoranza, con i fedelissimi il premier ammette «la forzatura» sulla questione di fiducia. I voti per ora gli hanno dato ragione e due ex segretari come Bersani e Epifani non sono riusciti a convincere che una ventina di Area riformista a non votare la fiducia. «Sul Jobs Act erano stati in 33 a non votare, stavolta sono saliti a 38: tanto rumore per nulla».
Ma lo strappo in realtà impensierisce anche a palazzo Chigi, soprattutto in vista della prossima battaglia, quella al Senato sulla riforma costituzionale. Dove anche una ventina di senatori dissidenti potrebbero bastare a rendere necessario il ricorso a Denis Verdini e ai suoi amici sparsi dentro Forza Italia e Gal. Un soccorso imbarazzante per Renzi. Eppure il capo del governo continua a ritenere di non aver avuto altra scelta. «Conosco questo Parlamento. Avrei perso. Non faccio forzature inutili. Senza la fiducia - ripete ai suoi - saremmo andati sotto su soglie e apparentamento. Al Senato sarebbe ricominciato tutto da capo, come accade ormai da anni. Senza la fiducia avremmo fatto un’operazione nobile, ma ci saremmo tenuti il Consultellum, la più pericolosa legge elettorale perché costringe alle larghe intese permanenti».
Ecco dunque il cuore del renzismo, la filosofia che lo spinge sempre alla sfida frontale rispetto alla mediazione: «Preferisco forzare ma non morire democristiano e avere una legge elettorale col ballottaggio per la prima volta nella storia italiana ». Davide Ermini, responsabile giustizia del Pd, uno che lo segue da quando aveva vent’anni, la spiega in questo modo: «Solo chi non lo conosce si può stupire di questa decisione. Lui è fatto così. Anche quando era presidente della provincia di Firenze e pensava di candidarsi alle primarie da sindaco, io glielo sconsigliai in tutti i modi. “Ci faranno un c...così”. Per fortuna non mi diede retta e vinse».
Il suo “metodo” il premier lo rivendica oggi alla luce dei risultati già raggiunti. «Ho portato Berlusconi al tavolo e la minoranza se ne è andata: però le riforme sono ripartite. Abbiamo fatto la riforma del lavoro, gli 80 euro, la giustizia dall’autoriciclaggio alla responsabilità civile. Abbiamo eletto Mattarella con lo stesso Parlamento che aveva fatto schifo la volta scorsa e questo nonostante la contrarietà iniziale di Alfano e l’opposizione Berlusconi». Insomma, il “metodo” funziona. E la scelta intransigente di Bersani, Cuperlo, Letta e Bindi ha visto più defezioni che consensi nella stessa minoranza. «Del resto era una scelta incomprensibile - confida Matteo Orfini - anche perché in un partito ci si sta seguendo le regole. Io me lo ricordo ancora Enrico Letta premier quando, in un’assemblea di gruppo, ci obbligò nel 2013 a votare la fiducia al ministro Cancellieri dicendo che “sfiduciare lei equivale a sfiduciare il mio governo”. E noi tutti obbedimmo, turandoci il naso, compreso Civati».
I rapporti insomma sono lacerati, in tanti ieri in Transatlantico non si salutavano più e si guardavano in cagnesco. Ma la battaglia del Senato incombe e lì si misurerà la capacità di Renzi di ricompattare il partito. Intanto, da subito, partirà un’offensiva sul fronte sinistro. Con l’uso del “tesoretto” per gli incapienti, con il comizio domenica alla Festa dell’Unità, con le unioni civili, lo ius soli. E il riconoscimento di una nuova leadership della minoranza dopo che cinquanta deputati di Area riformista hanno voltato le spalle a Roberto Speranza. Il premier già si rivolge al ministro Maurizio Martina come nuovo interlocutore per l’opposizione interna.
Dunque, a palazzo Madama, Renzi punta a gettare sul tavolo alcune aperture per bilanciare lo strappo sull’Italicum. Ma il nodo centrale resta quello del Senato elettivo, la minoranza non intende accontentarsi di alcune operazioni di semplice ritocco su parti marginali della riforma costituzionale. Sono già stati chiesti dei pareri di autorevoli costituzionalisti per sostenere l’ipotesi di una riapertura dell’articolo due, quello che riguarda appunto la composizione del Senato con i consiglieri regionali. La minoranza punta all’elezione diretta, in un listino a parte, dei futuri senatori. Secondo l’idea a suo tempo sostenuta da Gaetano Quagliariello. Ma c’è chi va oltre. Il bersaniano Miguel Gotor sostiene infatti, alla luce dell’approvazione dell’Italicum, che palazzo Madama dovrebbe diventare «un Senato delle garanzie e non più della autonomie, passando dal modello tedesco del Bundesrat a quello spagnolo». Significherebbe allargare le competenze di palazzo Madama ai diritti civili. Inoltre, sull’elezione del capo dello Stato, per la minoranza dem si dovrebbe prevedere una norma di chiusura, con il ballottaggio finale tra i primi due candidati più votati. Insomma, i bersaniani si aspettano una discussione vera, su punti qualificanti della riforma. Solo in questo caso potrebbero dare voto favorevole alla legge costituzionale, sottraendosi alle sirene dei forzisti che puntano ad arruolarli per far fallire il progetto del governo. «Ora - tuonava ieri bellicoso a Montecitorio Augusto Minzolini - state certi che a Renzi faremo saltare la riforma a palazzo Madama. Così si andrà a votare con l’Italicum alla Camera e con il Consultellum al Senato». 



Ora a sinistra si evocano i gruppi autonomi
di Monica Guerzoni Corriere 30.4.15

L’idea che circola tra i «duri». Area riformista lacerata: l’ipotesi delle carte bollate per contendersi il marchio Ma sulla scissione i big dell’ala dissidente frenano. Bersani: «Non esco dal Pd, è Renzi che ha fatto lo strappo»
ROMA «E chi li guida i nuovi responsabili, Scilipoti?» ironizza un bersaniano reduce dalla lunga notte che ha lacerato la minoranza, prima che il giorno spaccasse come una mela anche il Pd. Dalle ceneri di Area riformista nascono due nuove componenti del Pd. Da una parte i 38 «riformisti» (opposizione dura e pura) che non hanno votato la fiducia. Dall’altra i nuovi filo-renziani, che si sono smarcati dai «padri» rottamati dicendo sì al governo e professando lealtà con la lettera dei 50: un documento che Nico Stumpo paragona a un «volantino ciclinprop» stile anni ‘70 e un’altra dissidente bersaniana, Enza Bruno Bossio, definisce «falso perché senza firme». Dopo i tormenti e le lacrime potrebbero arrivare anche le carte bollate, perché si litiga anche sul marchio di Area riformista .
Adesso nel partito di Renzi tutto può succedere. Dalla costruzione di una agguerrita corrente ulivista che si riconosca in Letta e Bersani (ma anche in Prodi e D’Alema) alla nascita di un nuovo soggetto politico. «Renzi ha compiuto un atto grave sul piano democratico, questo strappo lascerà dei segni — pensa al dopo Stefano Fassina — Sarebbe stupido negarlo. Il congresso è chiuso, ora la minoranza è quella che vota in modo diverso». La nuova fase potrebbe portare alla nascita di gruppi autonomi. «Sul no al provvedimento saremo più di 38», spera Rosy Bindi. Non teme sanzioni? «Se vogliono cacciarci, lo facciano».
A sinistra si sono convinti che Renzi stia correndo verso le elezioni anticipate. Cuperlo, che ha perso nel primo voto 7 deputati su 21, pensa che la fiducia avrà «ripercussioni sui tempi della legislatura». E Bindi: «Elezioni più vicine? Chi lo dice non ha torto, l’Italicum è un’arma che Renzi vuol tenersi per avere le mani libere». Bersani è durissimo, pensa che Renzi stia sottovalutando un precedente che «non porterà nulla di buono» e non accetta, dichiara, che «si zittisca il Parlamento su un tema così».
Il presidente dell’Emilia Romagna, l’ex bersaniano Stefano Bonaccini, comprende il dramma degli ex compagni: «La scissione? È legittimo che qualcuno se ne voglia andare perché non si sente più a casa». Il dilemma di Bersani è che un fondatore del suo calibro non ha alcuna voglia di fare «il nanetto di Biancaneve» in un partito mignon del 3%: «Io non esco dal Pd, bisogna tornare al Pd. È Renzi che ha fatto lo strappo, non io». Ma Alfredo D’Attorre non esclude nulla: «Dobbiamo trovarci una prospettiva nuova in tempi brevi». Stumpo frena: «Ci batteremo per costruire un’area di minoranza che contenderà a Renzi la guida del Pd».
Rancori, veleni, amicizie in pezzi. In termini di rapporti umani e politici chi paga il prezzo più alto è Roberto Speranza, che si è visto sfilar via più di mezza corrente dai «governativi» Martina e Mauri, dopo il drammatico processo subito dai suoi la notte della vigilia. Tra i deputati che non hanno tradito l’ex capogruppo si parla molto della presunta «compravendita» da parte dei renziani: un pressing tutto politico per convincere bersaniani e lettiani incerti a passare il guado: «Si sono mossi Renzi, Boschi e Lotti promettendo posti in lista e presidenze di commissione». Damiano e Boccia? «Hanno votato la fiducia...». Il ministro Orlando non fa mistero di aver fatto un paio di telefonate: «Pressing? Ma no... Una è andata bene, l’altra no».
Lettiane come l’ex ministro Carrozza e la sottosegretaria De Micheli hanno votato sì. E c’è anche chi è riuscito a resistere, a metà. Lattuca dice di essersi fatto «violenza» per votare la fiducia, ma boccerà l’Italicum. 


Il destino di un partito
di Claudio Tito Repubblica 30.4.15

NEL Dna della sinistra e del centrosinistra c’è evidentemente un gene che nemmeno l’evoluzione subita in questi anni riesce a modificare. È una particolare specie di tara che porta quasi ineluttabilmente alla divisione. E ancora più spesso all’autolesionismo. Il voto di fiducia ne è l’ultima espressione. Perché gli effetti di questa ennesima spaccatura non possono essere valutati nel brevissimo periodo. In gioco non c’è solo una legge, seppure importante, come quella elettorale.
MA È la natura stessa del Pd, il suo destino prossimo futuro. E le conseguenze ricadranno sulla effettiva sopravvivenza di un’area politica e culturale, quella della minoranza dem, e sulla tenuta del governo guidato da Matteo Renzi. L’esecutivo rischia di essere indebolito da una guerra intestina. E la sinistra del Pd è ormai sconquassata da questa sfida, con un gruppo dirigente vocato all’autorottamazione.
Basta leggere i numeri che si sono materializzati ieri nell’aula della Camera per capire che nessuno ci guadagnerà. La sinistra interna è certo ridimensionata ma cristallizzata su una posizione antigovernativa. A Montecitorio, dove pure la maggioranza è blindata, Palazzo Chigi dovrà sistematicamente fare i conti con la pattuglia dei dissidenti. Al Senato la situazione è perfino più accidentata: il margine dell’esecutivo si basa su 7 senatori. I potenziali “ribelli” dem vengono conteggiati in una dozzina. Come farà Renzi a far approvare la riforma costituzionale proprio a Palazzo Madama con quei numeri? Come farà digerire in autunno la legge di Stabilità probabilmente piena di corposi tagli alla spesa pubblica? Con la stampella degli ex M5S o con il soccorso dei forzisti in libera uscita?
Sono queste le incognite connesse alla scelta di porre la fiducia. Si tratta di insidie che possono essere superate in un solo modo: recuperare il Pd come soggetto riformatore unitario. Il leader democratico è riuscito in questo anno a rendere il suo partito centrale nella vita politica anche attraverso quel 40,8% conquistato alle europee del maggio scorso. I democratici sono diventati per la prima volta nella loro storia il player imprescindibile nello scacchiere della politica. Come per tutti i soggetti sottoposti al vaglio del consenso, però, esistono degli elementi di fragilità di cui Renzi deve tenere conto. Non può decidere in solitudine e poi dire come De Gaulle: «L’intendenza seguirà». La forza della persuasione e la capacità di cambiare quando le condizioni lo richiedono costituiscono il nucleo di una leadership in una grande partito. E se davvero il premier aspira a trasformare il Pd nel Partito della Nazione, allora ci riuscirà solo se al suo interno ci sarà anche la storia e le direttrici della sinistra. Altrimenti si configurerà semplicemente come una nuova formazione centrista.
Ma i contraccolpi di questi due giorni sono forse ancora più pesanti per la minoranza democratica. Si sono spaccati almeno in tre parti. Erano un centinaio e si sono ritrovati in 38. Come è accaduto in questi venti anni i “padri nobili” hanno ammazzato politicamente i potenziali successori. In una sorta di delirio autodistruttivo la classe dirigente più anziana e in via d’uscita ha divorato i suoi “figli”, a cominciare da Cuperlo e Speranza, dissipando le loro chance di leadership. Per di più Bersani che aveva “nominato” nel 2013 gli attuali gruppi parlamentari si è riparlamentari.
trovato a capitanare solo un gruppuscolo di fedelissimi. Le critiche manifestate nel merito della riforma elettorale sono state spesso confuse e contraddittorie. Soprattutto evidenziavano un obiettivo occulto: colpire il governo Renzi per indebolirlo. Per poi scoprire — come è accaduto ad esempio al lettiano Boccia — che la base del partito, la loro base, non voleva quello scontro frontale e anzi si schierava per il sì alla legge.
Un contesto talmente sfibrato da rendere ancora più marcato l’errore del governo di porre la fiducia. La sinistra dem probabilmente si sarebbe spaccata anche nel voto segreto e Palazzo Chigi si sarebbe risparmiato una inutile lesione politica delle procedure Il premier ora sarà costretto a trovare una formula per tentare di ricucire un dialogo a sinistra. Non basterà mettere in campo i provvedimenti che più solleticano l’opinione pubblica progressista. Dovrà coinvolgerla nelle scelte e nella definizione di quel che sarà il Pd nei prossimi dieci anni. Però, la sua linea politica dovrà in primo luogo affrontare il test delle prossime elezioni regionali. Se il voto del 31 maggio sarà positivo per il centrosinistra, allora sarà più agevole imboccare la strada di una riedificazione dei rapporti a sinistra. Altrimenti quella che porta alle elezioni anticipate potrebbe diventare la via maestra.


La maggioranza marcia sulle macerie dei partiti
di Massimo Franco Corriere 30.4.15

Si discuterà a lungo se i 38 voti del Pd contro la fiducia al governo sulla riforma elettorale siano pochi o molti; se Matteo Renzi, imponendo la forzatura, abbia dato mostra di forza o di debolezza; e se davvero in questo caso si tratta di «no che si contano e si pesano», nelle parole di Rosy Bindi, una degli sconfitti. L’impressione è che il presidente del Consiglio abbia scommesso sulle divisioni della minoranza e vinto; e che per i suoi avversari interni si apra una fase delicata. Dovranno affrontare non tanto l’arroganza di Palazzo Chigi, che pure è evidente, quanto il rischio di apparire irrilevanti.
Quando il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, parla di «strappo contenuto» e nega azioni disciplinari contro chi ha disubbidito al governo, archivia politicamente lo scontro. Lo declassa, come il ministro Maria Elena Boschi, a qualcosa di fisiologico. Eppure l’ Italicum rappresenta una svolta, drammatizzata dalla fiducia. Ma quando cinquanta deputati del Pd anti-Renzi fanno sapere che voteranno comunque «sì» per senso di responsabilità, la spaccatura con i fautori del «no» è evidente. E rivela la diversità di obiettivi che si annida tra gli oppositori del premier.
È indubbio che colpisca la presenza tra i «no» dell’ex segretario Pier Luigi Bersani, dell’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, dell’altro ex segretario Guglielmo Epifani e della stessa Bindi. Ma con i numeri che si sono delineati ieri, c’è da chiedersi se davvero esista una fronda ristretta ma «pesante» a Palazzo Chigi; oppure se il ridimensionamento di alcuni esponenti storici del Pd sia stato sancito proprio ieri. L’ipotesi di una qualunque scissione è ancora meno verosimile; e si allontana anche quella di elezioni anticipate.
Si delinea invece un renzismo deciso a utilizzare le debolezze altrui, approfittando della mancanza di una leadership alternativa; e pronto a sfidare i nemici, a costo di prendere iniziative destinate a lasciare lividi istituzionali profondi, e precedenti ingombranti. Forza Italia si vanta della propria compattezza, ma non può nascondersi che l’appello alla rivolta nel Pd è caduto nel vuoto. E il Movimento 5 stelle ironizza su un Sergio Mattarella «imbavagliato» al Quirinale. Ma la realtà è che la maggioranza marcia sulle macerie dei partiti: anche del Pd come è stato fino a poco tempo fa.
Può permetterselo perché è sostenuta da un Parlamento provocato sulle riforme; e spaventato dall’idea di un fallimento. Almeno fino a che non si capirà se la ripresa economica è una finzione o una realtà, Renzi insisterà sulla narrativa della «volta buona»; dei diritti della maggioranza e dei doveri delle minoranze. Il Nuovo centrodestra, alleato renziano, cerca di negare che ci sia «un uomo solo al comando». Eppure, la giornata di ieri dice il contrario. Forse gli avversari dovrebbero cominciare a porsi qualche domanda. Autocritica.


I numeri «esili» della sfida dei big
di Lina Palmerini Il Sole 30.4.15

Dal numero 38 - quanti sono stati quelli che non hanno votato la fiducia - parte l’offensiva contro il Governo e dentro il Pd. Un numero esile per un’impresa tanto grande quanto legittima.
I numeri raccontano sempre una storia, spesso diversa dalla versione dei protagonisti. E quelli della fiducia di ieri sono stati: 352, 50 e 38. I primi sono stati a favore di Matteo Renzi, l’ultimo invece riguarda la minoranza che ne esce piuttosto ridimensionata.
Soprattutto se si pensa che alla testa di questa operazione politica erano scesi in campo ex leader del Pd come Bersani ed Epifani, l’ex premier Enrico Letta e personaggi di calibro come Rosy Bindi o l’ex capogruppo Roberto Speranza e Gianni Cuperlo, già sfidante di Renzi alle ultime primarie. E dunque una prima linea di tutto rispetto, l’élite del partito anti-renziano che però ha fatto davvero pochi proseliti. E ha mancato non uno ma due obiettivi. Non c’è stato un effetto destabilizzante sulla maggioranza; non si è ricompattata la minoranza.
E qui arriviamo agli altri due numeri della giornata. Con 352 voti a favore, ieri Renzi ha incassato la quarta migliore fiducia del suo Governo (le ultime erano state di 353 sì) e quindi quel richiamo alla battaglia dei big ha avuto ben poco impatto sulla maggioranza e sulla stabilità. Non che questo voglia dire che da qui in avanti sarà tutto più facile. Al contrario. I problemi cominceranno al Senato dove i numeri sono davvero risicati per il Governo come si è visto ieri quando, a poche ore di distanza dal voto di fiducia, l’Esecutivo ha rischiato di andare sotto sul provvedimento sulla Pubblica amministrazione. È rimasto in piedi per un solo voto.
Quindi la navigazione a Palazzo Madama resta complicatissima anche se la svolta sarà l’Italicum. Se davvero Renzi incasserà la legge elettorale - dopo le altre due fiducie di oggi e il voto finale (segreto) la prossima settimana - allora governerà con quella sul tavolo. Pronto a usare le urne per andare avanti. A quel punto anche i senatori dissidenti ci penseranno seriamente a staccare la spina al Governo sapendo che se si vota rischiano di non rientrare in Parlamento. Se davvero faranno cadere Renzi non sarà più possibile scivolare tra le parole e la logica come faceva ieri Cuperlo che diceva di votare contro la fiducia ma di voler restare nel partito, un parodosso degno della meccanica quantistica.
Se la minoranza sposterà la manovra anti-Renzi al Senato, sarà più facile - visti i numeri - ma è chiaro che si interromperà la legislatura perché ci sarà uno strappo reale e non solo virtuale nel Pd. E alle urne si andrà con l’Italicum o con il Consultellum solo al Senato, che vuol dire per i partiti una soglia di sbarrammento all’8% per ciascuna Regione. Insomma, non sarà una passeggiata fuori dal Pd.
Soprattutto se si parte, appunto, con il numero 38 quanti sono stati i deputati che ieri hanno seguito i capi-corrente e non hanno votato la fiducia. Ma guardiamo dentro questo numero. Innanzitutto rappresenta l’insieme delle minoranze che fino all’altroieri contavano almeno su un centinaio di deputati, quindi le defezioni sono state molte. Non solo. In Area riformista che è quella che fa capo a Bersani e Speranza la spaccatura è stata netta: 50 hanno votato la fiducia e 18 no. Quindi l’ex leader e l’ex capogruppo sono diventati minoranza della minoranza. A parte il gioco di parole il dato è piuttosto amaro perché il gruppo parlamentare attuale - 310 deputati - è stato in gran parte selezionato da Bersani (in parte anche con le primarie) ed è poi confluito nelle varie minoranze, circa 80 a Bersani, circa 20 a Cuperlo.
Alla fine la democrazia è fatta di numeri e sono i numeri che danno l’allarme.


Bobo boccia i ribelli: la base è con Matteo
di Annalisa Cuzzocrea Repubblica 30.4.15

ROMA . I segnali di fumo della base pd arrivano alla Camera attraverso i telefonini. A voce o per messaggio, via e mail o sui social, i parlamentari cercano una bussola nel mare sconosciuto di un partito che non vota la fiducia al suo governo. «È curioso vedere come cambi il linguaggio a seconda delle posizioni di chi scrive - racconta Gianni Cuperlo - da una parte c’è chi ci invita a portare fino in fondo una battaglia. Dall’altra, chi si limita a insultarci con frasi tipo “Siete solo attaccati alla poltrona”. E pensare che stanno nello stesso partito».
Dal Nazareno, trapela solo che di mail ne sono arrivate poche, e che il rapporto è di 1 a 3 in favore della fiducia. «Non ci sono neanche valanghe di lodi, per carità - racconta il vicesegretario Lorenzo Guerini ma l’argomento sembra meno sentito di quanto non sia stato, ad esempio, il Jobs Act». «Ho passato la mattina al telefono con i miei - racconta Antonio Misiani, giovane turco e tesoriere durante la segreteria Bersani - la maggior parte mi ha detto di non capire chi non vota la fiducia. I più arrabbiati sono soprattutto gli anziani, quelli che vengono dal Pci. Sarà la vecchia storia del centralismo democratico».
«Su democrazia un governo non mette la fiducia, io non la voterò», ha scritto Pier Luigi Bersani su Twitter. Qualcuno lo sostiene, o lo invita ad andare oltre: «Speriamo sia la volta buona per dire con forza no!», scrive Lorena. Ma ci sono soprattutto dubbi e attacchi: «Che bello ritornare dove siamo sempre stati all’opposizione pochi ma buoni poi la riforma la facciamo fare a Berlusconi». E mentre Stefano Fassina mostra mail che invitano a tener duro, a Roma Andrea Sgrulletti - già segretario di circolo di Tor Bella Monaca - dice sì alla fiducia: «Discutiamo di questa legge da 14 mesi, ci sono state tante modifiche richieste anche dalla minoranza. Può essere che in questo Paese il tempo di decidere non venga mai?». Al contrario, il segretario di San Basilio Matteo Sculco avverte: «Il pericolo è che il Pd diventi una scatola virtuale dalla quale entra ed esce chi vuole».
Ma il popolo del Pd lo incontri soprattutto quando parli con Sergio Staino, che da Parma - dov’è insieme ad altri militanti - ti dice: «La base è con Renzi, e anche io», mentre sembra di vedere Bobo che gesticola e Ilaria con un punto interrogativo nella nuvoletta. «C’è un popolo disorientato della sinistra che nella migliore delle ipotesi si disinteressa di questa legge, o che non ha capito come possa essere antidemocratica se poi basta qualche ritocchino per farla andar bene. Come si può permettere che persone come Bersani o D’Alema, che ci hanno portato in questo vicolo cieco, che hanno favorito l’ascesa di Renzi e che si dovrebbero ritirare, rovinino il lavoro del governo per il loro tornaconto? Dire che se queste cose le facesse Berlusconi saremmo in piazza è un ragionamento astratto, perché in piazza scendevi con un’alternativa, un’idea politica per cambiare l’Italia. Ma se lo ricordano il 25 aprile quando c’era Berlusconi? Lo sanno che se si va al voto vincono i grillini e Salvini? Non si può dire che siamo nel fascismo. Capisco D’Alema che ha una concezione della politica come potere personale, ma Cuperlo, come fa a non capire che deve mettere la sua forza intellettuale a servizio di una battaglia interna nel partito? È da dentro che bisogna lavorare per un governo migliore». Infine, una vignetta: «Ho disegnato Saturno che mangia i suoi figli: D’Alema e Bersani si stanno mangiando Cuperlo e Speranza».

Ma il malessere all’interno del Pd non indebolisce premier e partito
di Marcello Sorgi La Stampa 30.4.15
I 38 voti mancati al primo voto di fiducia sull’Italicum, che ha visto la maggioranza renziana prevalere largamente con 352 sì, non sono un gran risultato per il fronte dei dissidenti interno al Pd. I leader della protesta si sono schierati compatti contro Renzi: da Bersani e Epifani, ex-segretari, a Bindi, ex-presidente del partito, a Letta, predecessore di Renzi a Palazzo Chigi, ai candidati sconfitti alle primarie Cuperlo e Civati, all’ex-capogruppo Speranza, all’ex-viceministro Fassina, e così via. Ma considerato che all’ultima assemblea del gruppo parlamentare erano stati in 110 a disertare la votazione (contro 190 che avevano detto di si al premier), e dopo quella riunione, da una parte e dall’altra, era partita un’azione capillare di convincimento degli incerti, alla fine due terzi degli oppositori si sono schierati con il governo e un terzo no. In aggiunta, cinquanta esponenti della minoranza, guidati dall’ex-ministro del lavoro Damiano, già fortemente contrario al Jobs Act, hanno firmato un documento in cui, pur mantenendo forti riserve sull’Italicum, prendono le distanze dal fronte del no.
Sarà interessante oggi vedere se il rifiuto della fiducia troverà altri consensi o ne perderà, ma con i numeri della prima votazione ieri a Montecitorio non c’era più nessuno a dubitare sull’esito dello scrutinio finale, quando, la prossima settimana, i deputati saranno chiamati a valutare a voto segreto il contenuto della legge elettorale. L’idea che dopo quanto è accaduto il Pd «non esista più», come ha detto il capogruppo di Forza Italia Brunetta, è lontana dalla realtà. Renzi ha subito ringraziato chi lo ha sostenuto e tramite il vicesegretario Guerini ha fatto sapere che non ci saranno conseguenze per chi si è opposto, ribadendo che esiste uno spazio per modificare la riforma del Senato nel senso, forse, di un passo indietro sull’eleggibilità dei futuri senatori, chiesto da Bersani. Tutti, nel Pd, escludono, sia la possibilità di una ricomposizione a breve, sia di una scissione. È evidente una mutazione che parte dalla periferia, dove i tentativi di mettere in difficoltà il governo non sono ben visti, e arriva al centro. Dall’approvazione dell’Italicum, Renzi uscirà rafforzato.
Post-scriptum. La parola «voltagabbana», da me usata ieri nell’editoriale per definire coloro che, pur avendo avuto un ruolo nella gestazione dell’Italicum, o avendone condiviso i principi, adesso la avversano, ha sollevato reazioni risentite. Tra le altre, quelle di Letta (che ha scritto la lettera che pubblichiamo), Bindi e Brunetta. Se il termine, che non era rivolto solo a loro, li ha offesi, mi dispiace. È chiaro che non c’è niente di personale.
La Stampa 30.4.15
L’incoerenza dei separati in casa del Pd
di Federico Geremicca


Ora qualcuno dirà che il risultato era scontato, e qualcuno replicherà ironizzando sulla frantumazione della minoranza pd e sul peso specifico di ex premier ed ex segretari capaci di orientare - a proposito dell’Italicum - il voto di poco più del dieci per cento dei deputati democratici.
A quel che si osserva, insomma, il muro contro muro tra Renzi e parte del vecchio gruppo dirigente è destinato a continuare: col duplice rischio di diventare stantio (oltre che incomprensibile) e di far scivolare in secondo piano, purtroppo, il merito delle questioni di volta in volta in discussione.
Il succo di quel che è accaduto ieri nell’aula di Montecitorio è che Matteo Renzi - giungendo a ventilare perfino la caduta del governo e le elezioni anticipate - ha vinto, incassando la sua trentasettesima fiducia; e che le minoranze interne - confuse e divise - hanno subito una pesantissima sconfitta.
Che si tratti di una vittoria di Pirro o di una disfatta definitiva, lo diranno le prossime settimane. Ma in tutta evidenza c’è un problema politico che ha ormai raggiunto dimensioni tali da non poter più essere aggirato: e intendiamo il rapporto tra il premier-segretario ed una parte non insignificante del suo partito.
C’è un’evidente sproporzione, infatti, tra i toni e gli argomenti messi in campo nel lungo confronto svoltosi sulla riforma della legge elettorale e le determinazioni e gli atti conseguenti che avrebbero dovuto (dovrebbero) far seguito a un certo, allarmato argomentare. L’annotazione riguarda tanto le scelte effettuate dall’esecutivo, naturalmente, quanto i comportamenti delle opposizioni: e nel caso in questione, appunto, soprattutto della minoranza interna al Pd.
In questi mesi, dell’Italicum si è scritto e detto di tutto: sgombrando il terreno da faziosità e propagandismi, si può forse concludere - banalmente - che quella in via di approvazione non è la migliore delle leggi possibili ma è senz’altro preferibile all’orrendo e cancellato Porcellum. E che, soprattutto, non pare «strumento» sufficiente a trasformare la pur affaticata democrazia italiana in un regime dittatoriale.
Eppure, è proprio questa l’accusa più pesante lanciata contro Renzi, nella sua doppia veste di capo del governo e segretario del Partito democratico. Fin quando è Renato Brunetta - capogruppo di un partito di opposizione - a invitare il Parlamento alla resistenza contro il «fascismo renziano», c’è poco da dire: se non, magari, invitare a rapportare e «pesare» toni e critiche ai rischi e agli argomenti realmente in campo. Ma il discorso si fa diverso quando a sposare le stesse tesi - con toni solo più allusivi - sono leader di primissimo piano del partito di cui Renzi è segretario.
«Una violenza al Parlamento», ha accusato Roberto Speranza, capogruppo dimissionario alla Camera; «E’ la logica inaccettabile del “qui comando io”...», ha fatto sapere Enrico Letta; «Non è più il mio partito, qui è in gioco la democrazia», ha avvertito Pier Luigi Bersani. Lungi dall’entrare nel merito delle accuse mosse - perfette per stigmatizzare il comportamento di un avversario politico - quel che qui si pone in questione è altro: e cioè, se e quando a tali analisi corrisponderanno scelte e comportamenti conseguenti e coerenti.
Non è da ieri, infatti, che le minoranze interne al Pd contestano - con intensità variabile - qualunque provvedimento proposto dal governo: dal Jobs Act alla riforma del bicameralismo, le accuse piovute sul segretario-premier sono andate dal «populista» (buona per tutte le occasioni...) al «servo dei padroni». Ripetiamo: non è qui in discussione la fondatezza di tali contestazioni, ma piuttosto l’insostenibilità di un comportamento (un po’ dentro e un po’ fuori) che rischia di minare, prima di tutto, la credibilità e la coerenza di chi lo pratica.
Per chi non gira troppo intorno alle cose, è infatti inspiegabile che si resti in un partito che non si sente più proprio; e ancor meno comprensibile risulta continuare a sostenere un governo accusato di far violenza al Parlamento. Perché delle due l’una: o si crede davvero in quel che si dice - e ci si comporta di conseguenza - oppure no, e allora si è di fronte a fenomeni di autolesionismo nei confronti della stessa «ditta». A meno che, naturalmente, il vero obiettivo non sia l’evocata rivincita congressuale: ma il Congresso pd è lontano due anni, e nessuno - si spera - punta a un Vietnam politico-parlamentare lungo 24 mesi...

Un capogruppo e nuovo Senato Il premio di Renzi ai “responsabili”
Dopo un mese di trattative il premier ha spaccato la minoranzadi Fabio Martini La Stampa 30.4.15
Si è tenuto lontano dall’epicentro della battaglia per entrambi i giorni. Per 48 ore nell’aula di Montecitorio fischiavano gli insulti, sul voto di fiducia si determinava la più profonda frattura mai consumata dentro la sinistra del Pd, amicizie durate anni si incrinavano e in quel clima lì il presidente del Consiglio ha capito che era meglio non immischiarsi. Risparmiandosi insulti personalizzati e risparmiarli al Pd.
Calma e gesso
E così, nel primo pomeriggio, Matteo Renzi ha seguito da palazzo Chigi - e in tv - il risultato della prima fiducia, quella decisiva. E quando sullo schermo sono comparsi i numeri in rosso, Renzi non ha esultato più di tanto: «A questo punto me lo aspettavo». Il sì era scontato ma per il premier lo erano anche quei numeri schiaccianti, soprattutto lo scarto tra i 352 sì e i 207 no delle opposizioni unite: uno spread di 145 voti. Un abisso. E a quel punto, con una di quelle posture che di solito spiazzano i suoi interlocutori, Renzi ha dato disposizione ai suoi di non maramaldeggiare, di non cantare vittoria. Di non stravincere.
Certo, come ha detto lui stesso perché «la strada è ancora lunga», ci sono ancora due fiducie e un voto finale a scrutinio segreto. Ma quel self control è un espediente anche per non infierire sugli sconfitti. Renzi non ha sopportato certe battute di Bersani (e viceversa) e avrebbe voluto replicare. Ma nel giorno della vittoria parlamentare più importante della sua carriera politica, il premier ha preferito contenersi.
Una lunga trattativa
Certo, molto pathos in queste ultime 48 ore per quella prova di forza cercata e vinta. Ma Renzi - ecco il punto - aveva preparato da un mese il voto di ieri: dietro le quinte aveva aperto una trattativa politica e personale con l’area più dialogante della minoranza interna, un lavorìo tutto finalizzato alla nascita di una nuova e strutturata corrente, che non entrerà nell’area renziana, manterrà una connotazione di sinistra e che comunque alla sua nascita è già diventata l’area politica più forte del partito dopo quella renziana quella di Franceschini. Dietro il ministro Maurizio Martina, Enzo Amendola e Matteo Mauri cinquanta deputati e anche una decina di senatori.
Il gruppo dei Sessanta
Un’operazione alla quale si è dedicato nelle ultime settimane Luca Lotti, preziosissimo braccio destro del premier, e sulla quale Renzi ha deciso di «investire» politicamente. Perché - la prossima mossa del presidente del Consiglio - consisterà nel blindare la nuova corrente. Gratificandola. Separandola definitivamente dai loro ex capi-corrente, Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Gianni Cuperlo. Renzi sa che i 50 deputati e soprattutto i 10 senatori gli renderanno il cammino molto più tranquillo in tutti i passaggi più difficili.
Un «nuovo» Senato
Ma naturalmente il gruppo dei 60 andrà «pagato» politicamente. Ecco perché il presidente del Consiglio vuole concedere qualche modifica sulle riforme istituzionali, per potere consentire al nuovo gruppo di intestarsi la novità. Non c’è nulla di deciso, non ci saranno concessioni plateali, qualcosa sul processo legislativo che potrà essere perfezionato, forse qualcosa sulla rappresentanza delle Regioni, che potrebbe essere arricchita con la presenza dei presidenti. Una modifica che sta a cuore alla «ditta», che ancora elegge qualche Governatore.
Capigruppo in campo
Ma Renzi medita di premiare i «sessanta» anche assegnando alla nuova corrente di centrosinistra il capogruppo dei deputati. Certo, per la sostituzione di Speranza c’è la candidatura, in pole position, di Ettore Rosato, che già da diversi mesi ha dimostrato di avere i «numeri». Ma Renzi, pur apprezzando Rosato, preferirebbe premiare i «sessanta» e in quel caso si configura un testa a testa tra Cesare Damiano e (con qualche chances in più) Enzo Amendola.
Aperture sulla scuola
Un Renzi che guarda a sinistra, ma senza esagerare, anche sul campo della scuola. Alla vigilia di uno sciopero indetto da tutte le sigle sindacali, nessuna esclusa, il presidente del Consiglio significativamente fa marcia indietro su alcuni capisaldi del ddl: «Il preside non deve essere uno sceriffo».

Roberto Speranza L’ex capogruppo: “Niente scissione ma riflettiamo su un partito che attira critiche dalla Camusso e lodi da Bondi e Verdini”
Non è stato facile non votare la fiducia, ma abbiamo reagito a una violenza Non sono pentito di essermi dimesso di fronte a delle scelte sbagliate “I no al voto finale saranno di più adesso possiamo sfidare il premier”intervista di Tommaso Ciriaco Repubblica 30.4.15
ROMA Lo studio sa di pittura fresca. Più che essenziale, è spoglio perché Roberto Speranza non ha ancora completato il trasloco dopo le dimissioni da capogruppo. Ha appena disertato la fiducia, assieme ad altri trentasette. Pochi, secondo i renziani. Però di peso, a scorrere l’elenco. «Trentotto sono un’enormità. Trentotto deputati che decidono di non votare la fiducia a un governo che pure sostengono sono un numero altissimo. Fra loro ci sono ex premier ed ex segretari. Hanno un peso politico. Sono un tratto importante del cammino del Pd. Di fronte a questi nomi, me lo lasci dire: non è più un problema di numeri».
Indietro non si torna, Speranza. È un atto grave. Troppo?
«Lo so, non è facile non votare la fiducia. Non lo è stato per nessuno di noi. Ma la fiducia è stata una violenza. Una forzatura gratuita. In passato era accaduto solo due volte. Si poteva evitare, come aveva dimostrato il voto sulle pregiudiziali. Renzi ha sbagliato e penso che adesso sia necessaria una riflessione».
Non votare non è una mossa incompatibile con la permanenza nel Pd?
«No. E lo sa perché? Si tratta di un atto grave, ma comunque meno grave della scelta di mettere la fiducia su una legge elettorale. Non votare è un atto comprensibile, giustificato dalla gravità della mossa del governo. Io, noi, non potevamo essere in pace con le nostre idee avallando un precedente tanto grave».
Trentotto deputati, dicevamo. Eppure i deputati delle minoranze dem sono il triplo, sulla carta.
«Trentotto di noi non hanno votato. Poi c’è chi non era convinto, ma ha detto sì per disciplina o responsabilità e si opporrà al testo finale. C’è un’area del dissenso che va ben oltre i trentotto, insomma. Penso all’intervento di Lattuca. Resta un punto di fondo, quello che mi ha portato alle dimissioni: stiamo votando una legge elettorale senza opposizioni e con un pezzo di Pd contrario».
Insomma, nel voto finale crescerete?
«Diversi deputati hanno detto in Aula che non voteranno il testo finale. Però voglio essere chiaro: a questo punto non è un problema di numeri, perché la maggioranza è larghissima. Il problema è tutto politico. Vale a dire: queste riforme sono poggiate sulla leadership carismatica di Renzi. Dico che non va bene, che il Pd non può farlo, che in passato accusavamo altri di fare quel che facciamo noi oggi».
Renzi lega la riforma elettorale alla vita del governo. Voi votate contro, quindi volete affossare il governo?
«Non la vedo così. È stato un errore legare la vita del governo alla legge elettorale. Un errore di Renzi. Nessuno ha in testa di abbattere il governo. E la legge passerà. Nessuno ha votato contro la fiducia precedente, nessuno lo farà sulla fiducia successiva a quella dell’Italicum. Ma per noi il Pd esce più debole da questo passaggio, non più forte».
La crisi interna al Pd consiglia a Renzi un passaggio istituzionale?
« Io penso che occorra una riflessione profonda fra di noi. Sui nostri valori fondanti, che sono stati messi in discussione».
La giornata di oggi è l’anticamera di una scissione?« Scissione non fa parte del vocabolario del Pd. La scissione è una prospettiva sbagliata. Il Pd è il mio partito. Però dobbiamo chiarire fra noi cos’è, oggi, questo Pd. C’è molto da capire. Quando vedo Camusso che tutti i giorni attacca il Partito democratico e non ne condivide le politiche, ad esempio. Oppure quando vedo Bondi che vota il Def e la fiducia a Renzi. O ancora quando leggo che Verdini ragiona di un gruppo di senatori che vanno verso il Pd. Ecco, vedo un problema enorme. Cosa vogliamo diventare?».
Un partito del 40%, sostengono i renziani.
« Un partito della nazione, forse? Significa una forza politica in cui c’è di tutto, indistintamente. In cui c’è la destra e la sinistra. Ecco, per me la strada è un’altra. Per me il Pd è una forza plurale, ma alternativa al centrodestra. Non possiamo essere un partito che si mette in mezzo e che imbarca chiunque passi, lasciando alle estreme Landini e Salvini ».
Le domando ancora: se continua così, sarà scissione?
« È proprio perché si va in quella direzione che voglio battermi nel Pd. Con lo spirito di rafforzarlo».
Non state pensando a un nuovo Ulivo?
« Il soggetto politico è il Pd, ma tornando allo spirito originario del partito. Quello della grande famiglia del centrosinistra».
Serve un congresso? Vi preparate a chiederlo?
« No, penso che adesso serva far vivere i nostri temi».
È pentito di essersi dimesso? C’è chi, nella minoranza, le imputa una scelta solitaria e divisiva.
« Le dimissioni sono sempre un atto personale. Comunque non sono pentito, avevo bisogno di far capire la mia autonomia rispetto a scelte sbagliate. E d’altra parte il disegno di Renzi, con la sostituzione dei membri in commissione e la blindatura con la fiducia, mi era chiaro fin dall’inizio».
E la minoranza frammentata? Anche oggi, in fondo, è andata così. Riuscirete mai a superare queste divisioni?
« Bisogna far vivere con forza maggiore un’alternativa dentro il Pd. In questi mesi non ci siamo riusciti. C’è un mondo, fatto di iscritti e militanti, che vuole che un’altra sensibilità sia protagonista. Io lavoro in questa direzione».

Arturo Parisi Il professore che fondò con Prodi la coalizione di centrosinistra boccia l’idea di progetti alternativi
“Chi ha delle idee le spenda dentro il partito” “Il Pd di oggi è l’Ulivo nostalgici senza chance fuori avrebbero il 3%”intervista di Giovanna Casadio Repubblica 30.5.15
ROMA «Piaccia o no, questo Pd è l’Ulivo. Abbiamo costruito un palazzo che è appunto un partito del 41%, non ci si rifugi in un canile del 3%». Arturo Parisi, il fondatore con Prodi dell’Ulivo, invita i ribelli dem a dare battaglia dentro il Pd.
Professor Parisi, dopo lo strappo sulla fiducia, la scissione nel Pd diventa inevitabile?
«Non credo. Certo vedo crescere forte l’insofferenza e approfondirsi il risentimento. Ma non vedo la determinazione e soprattutto la visione e il disegno. Non basta a una scissione ritrovarsi su un no. Né il no a una persona, e neppure ad una scelta di metodo. E men che mai un no che come scelta comune riesce con fatica a tradursi in una non fiducia».
Quindi non è possibile un’altra stagione dell' Ulivo?
«Che piaccia o non piaccia, e a me molte cose non piacciono, la nuova stagione dell’Ulivo da otto anni si chiama Pd. Fu Prodi che del Pd è stato il primo presidente a insistere col primo segretario, Walter Veltroni perché questo fosse scritto nel simbolo per ricordare quale fosse il solco e la radice dai quali nasceva il partito».
Ma è un progetto che potrebbe ripartire con Letta, Bindi e lo stesso Prodi?
«Per dirla con Totò, le direi quisquilie. Se il nuovo Ulivo è il progetto che leggo da più parti comune oltre a Prodi, a Letta e alla Bindi, a Cuperlo e a Bersani e che potrebbe addirittura reclutare anche D’Alema vorrei prima saperne qualcosa di più, e soprattutto saperlo da ognuno di essi. Non ho alcun titolo a parlare di Prodi o per Prodi. Ma chi sta alle sue dichiarazioni pubbliche non troverà tuttavia in esse un solo appiglio».
Lei ci starebbe nel caso in un progetto così?
«Se nei dieci anni di battaglie uliviste, prima della resa all’Unione, una volta insorgemmo all’insegna di un Asinello scalciante, e più volte minacciammo di rompere, fu sempre e solo per costringere altri a riprendere il cammino dell’unità e impedire i ritorni indietro. Ed ora che la casa, che come Democratici chiamammo dall’inizio Pd, è finalmente costruita dovremmo riparare in un canile del 3%? No. È dentro il partito che chi ha idee da spendere le deve spendere. Chi non sopporta Renzi alzi la mano. E conquisti il palazzo, non il canile».
Proprio quando si torna a parlare di Ulivo, si chiama fuori?
«Guardi di ulivisti e di Ulivo ogni giorno ne scopro uno nuovo. E ognuno ha il diritto di raccontare il suo. Anche se mi sembra paradossale ritrovare sotto le stesse fronde tutti i ministri che nel governo D’Alema-Cossiga condivisero la scelta della interruzione della stagione ulivista. Qualche volta mi chiedo se nel nostro uliveto la Xylella fastidiosa stia producendo danni peggiori di quelli che ha prodotto a Gallipoli e nel Salento».
Cosa è oggi il PdR, il Pd di Renzi e verso dove va?
«Dipende da tutti. Certo da Renzi. Ma se il Pd appare come il PdR dipende anche da chi gli si oppone. Di fronte al diktat di Cossiga, che in cambio dei suoi voti chiese nel ‘98 all’Ulivo di sciogliersi, dissi che era meglio rischiare di perdere che perdersi. E perdemmo. Ma non ci perdemmo. Ora mi chiedo se questa volta il rischio non sia invece proprio quello di perderci».
L’Italicum è una buona legge elettorale?
«È un passaggio necessario. Guai se il processo riformatore si impantanasse. Dobbiamo andare avanti e pure in fretta, applicandoci alla riforma costituzionale. Quanto al merito, molte sono le cose che avrei da dire, sulla modalità di selezione dei parlamentari, sulla quantità di nominati e sulla qualità degli eletti con le preferenze. Limiti gravi, gravissimi, che spero ancora correggibili con un provvedimento distinto, che potrebbe integrare l’Italicum. Ma pur sempre obiezioni dentro il campo del Sì. Resta che una scelta la legge la fa, a favore di una democrazia governante, maggioritaria, bipolare a dominanza bipartitica, centrata sul premier. La stessa che mi ha guidato dalla stagione del movimento referendario a quella dell’Ulivo. Una scelta opposta a quella, pur sempre legittima, che guida gran parte delle minoranze Pd. Quelle dalle quali paradossalmente dovrebbe nascere il nuovo Ulivo ».
Fabbri, deputata pd, non vota la fiducia e si dispera. Quelli di Sel sfilano con le fasce nere al braccio e c’è chi sventola un libro del costituente dc Dossetti. Ma lo strappo si consuma a sangue freddo, senza clamoridi Alessandra Longo Repubblica 30.4.15
 ROMA E al secondo giorno fu subito fiducia. Il tabellone di Montecitorio fissa i numeri della prima vittoria di Renzi : 352 sì e 207 no. Non c’è più il sangue che bolle, la rabbia di martedì scorso. Anzi, c’è un’aria stanca, anemica, quasi distratta. Ieri niente più insulti e piazzate, niente presunte passioni da difendere facendo vibrare l’aula. Quelli di Sel sfilano composti davanti alla presidenza con la fascia nera del lutto sul braccio, i CinqueStelle guardano disgustati laggiù, tra i banchi del centrosinistra, «le pecore» del dissenso sull’Italicum, incapaci di sottrarsi all’egemonia renziana, un’unica deputata del Pd, Marilena Fabbri, bolognese, cede alle lacrime. Non ha votato la fiducia e si dispera. Ma è l’eccezione. Il partito registra la spaccatura a sangue freddo. Maria Elena Boschi, in azzurro, cinguetta sollevata circondata da adoratori, Pier Luigi Bersani lascia il posto vuoto, il tramonto della Ditta gli spezza il cuore.
In 38 si sottraggono al rito della fiducia. Ettore Rosato pensava fossero meno. Gotor, dal Senato, twitta e ironizza: «Aggiorna il pallottoliere». C’è poco da ridere, da dire e da fare: la collisione è stata cercata, la spaccatura è netta, cinquanta dissenzienti si piegano alla legge del più forte, ma in molti, dopo, cammineranno fra le macerie dei rapporti umani. Il giovane ex capogruppo Speranza siede vicino al maturo vice Guerini. In comune hanno solo la cravatta azzurra a pois. Il compagno Giulio Marcon vivacizza il mortorio esibendo «Costituzione e Resistenza» di Dossetti. Richiamato. Si discute di emendamenti che non hanno più senso (visto l’approdo delle fiducie), si evocano appelli al buon senso e all’unità (Orfini) superati dagli eventi. La chiama è l’immagine plastica di un rito stanco. Sul tabellone appare: «Pier Luigi Bersani non ha risposto». E poi: «Rosi Bindi non ha risposto». Non «rispondono» nemmeno Enrico Letta, Stefano Fassina, Gianni Cuperlo. Ex segretari, ex presidenti del consiglio e del partito, ex capigruppo. Meno male che la destra, a guardarla, è l’immagine dello sfascio. Renato Brunetta vaneggia, lui, ex collega di Ciarrapico, di derive fasciste, di un Pd «ormai morto»; le vestali di Berlusconi, dalla Santanché alla Biancofiore, sono meste come vedove, persino spente nella scelta dei colori. Clima di scherno, irrisione dei perdenti, quella sì un po’ fascista. Bersani viene associato a Comunardo Niccolai, calciatore che «sbagliava spesso porta».
Tiene botta stoicamente Gianni Cuperlo: «Non è una giornata brillante, né semplice né serena». Puro understatement. Per chi non è renziano è una giornata, lo confessano fuori microfono, che fa schifo. Il dissenso, così disordinato, non arriva all’elettore, la cupola renziana asfalta chiunque. Viene in mente l’ultimo libro di Lidia Ravera, «Gli scaduti». Arriva il momento che «scadi» e ti accompagnano alla porta. Puoi essere stato un fine politico, un fedele funzionario, ma se il Capo decreta che è la tua ora nessuno ti salverà.
L’Italicum sembra per un giorno cornice e non cuore dello scontro. Il malessere Pd contagia anche i «casiniani» (per gli amanti dell’atomo, De Mita e Cera non votano). I CinqueStelle si annoiano ai banchi. Carla Ruocco posta un fotomontaggio: ecco il volto di Mattarella con un grande cerotto nero sulle labbra. Non ha niente da dire, signor presidente? Si entra ed esce dall’aula come se in agenda ci fosse un disegno di legge sulle comunità montane. Pino Pisicchio, da veterano, si permette la giusta confidenza con Guerini: «Ho votato la fiducia al governo ma non all’Italicum che è una grande cacata di legge elettorale ». Niente zone d’ombra.
Giornata né serena né semplice, dice Cuperlo. Barbara Pollastrini, una dei 38, parla di «peso al cuore». Sesa Amici, cuperliana al governo, evoca la «sofferenza » di una scelta per lei inevitabile. Un sottosegretario non può negare la fiducia al suo governo. La Bbc fa fatica a capire e poi trova la sintesi: è una pièce teatrale, dicono, parlando di Montecitorio. Verso sera Arcangelo Sannicandro, di Sel, recita le generalità dei dieci deputati che hanno preso il posto dei colleghi dissidenti nella Commissione Affari Costituzionali, «dieci crumiri, di cui leggo il nome perché ne resti imperitura memoria ». Oggi si finisce il lavoro.

La deputata in lacrime: basta prevaricazioni
di F. Sch. La Stampa 30.4.15
Finito il voto di fiducia, la deputata della minoranza Pd Marilena Fabbri, ex sindaco di Sasso Marconi, si allontana con gli occhi pieni di lacrime. A consolarla i renziani David Ermini e Marina Sereni: «Dai, non prenderla così».
Che succede onorevole?
«Non ho votato la fiducia. Per me è stata una scelta molto sofferta. Sono per il gioco di squadra e non fa parte della mia cultura politica votare contro il mio partito».
Però ha deciso di farlo…
«Non è un atto di sfiducia al governo, ma un gesto di ribellione per dire che l’arroganza, la prevaricazione del governo sul Parlamento ci sono momenti in cui si deve fermare».
E’ una prevaricazione mettere la fiducia?
«Ci sono ritualità che vanno rispettate. La legge elettorale non può essere votata con la fiducia: bisogna avere la responsabilità e il coraggio di affrontare la discussione, magari anche con il rischio che la legge venga modificata».
Se l’aspettava che Renzi mettesse la fiducia?
«No, non pensavo, anche se era nell’aria, visto che già la destituzione dei dieci deputati in Commissione affari costituzionali (lei è una dei dieci, ndr) era funzionale alla fiducia ed è stato un gesto violento».
Era l’unico modo per fare passare la legge.
«Ma se ritieni il provvedimento blindato, allora prenditi la responsabilità di saltare la Commissione. Altrimenti consenti di discutere».
Sembra molto turbata…
«Ma vede, io ho la fortuna di aver sempre fatto politica in un contesto di dialogo e condivisione, anche nelle discussioni aspre. Non ero abituata alle imposizioni, ai rapporti di forza che creano fratture che non sai a cosa portano».
Ora cosa succederà?
«Quello che è successo denota un disagio: spero che venga accolto e non risolto con un tweet in cui si rivendica la vittoria».
In 50 di Area riformista firmano manifesto: noi col Governodi Emilia Patta il Sole 30.5.15
ROMA I nomi che si leggono scorrendo la lista di chi nel Pd non ha partecipato al voto di fiducia sul governo guidato dal proprio segretario fanno impressione, non c’è dubbio. Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Enrico Letta, Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati. Si tratta di due ex segretari, di un ex premier nonché ex vicesegretario, di una ex presidente di partito e dei due sfidanti di Matteo Renzi alle ultime primarie di partito. C’è poi il giovane capogruppo dimissionario Roberto Speranza e alcuni nomi di spicco della stagione bersaniana come Alfredo D’Attorre, Nico Stumpo e Davide Zoggia. Eppure, a conti fatti, su più di un centinaio di componenti i deputati della minoranza del Pd che non hanno votato la fiducia sono in tutto 38, di cui 20 sono del gruppo più “radicale” formato da cuperliani, civatiani e bindiani. Lo strappo effettuato da Speranza, leader di Area riformista, e da due pesi massimi come Bersani e Letta alla fine ha trascinato solo una ventina di componenti della minoranza bersanian-speranziana. In 60 hanno votato la fiducia, e in 50 - almeno stando alle assicurazioni dei protagonisti - hanno aderito a un documento per dissociarsi dalla scelta di Speranza: tra di loro l’ex ministro Cesare Damiano, Matteo Mauri, Dario Ginefra, Enzo Amendola e naturalmente il ministro Maurizio Martina che domani sarà impegnato con il premier nell’inaugurazione dell’Expo di Milano.
Più che spaccarsi il Pd, alla resa dei conti sulla leadership di Renzi a spaccarsi è stata la minoranza. E a Palazzo Chigi fanno notare che nonostante la faccia messaci da Speranza, Bersani, Epifani e e Letta i “dissidenti” non sono stati poi molti di più dei 29 del Jobs Act. Un risultato raggiunto dai vertici del Pd renziano non senza fatica e trascorrendo la scorsa nottata al telefono (lo stesso Renzi, si racconta, ha fatto una sessantina di telefonate). La conclusione è che i generali - notano con malizia i renziani più vicini al premier dopo il voto - «sono generali in pensione senza più truppe». Vero anche che alcuni di coloro che hanno votato ieri sì alla fiducia voteranno no martedì prossimo, quando senza fiducia bisognerà dare a scrutinio segreto il voto finale sull’Italicum (tra questi il ventisettenne Enzo Lattuca). Ma è analisi comune a maggioranza e minoranza che ieri si è consumata una scelta politica tra chi (Speranza) prepara innanzitutto la piattaforma antirenziana in vista del congresso del 2017 e chi (da Martina a Damiano ad Amendola) focalizza la propria attenzione su come aiutare lealmente il governo mantenendo la propria autonomia politica di “sinistra”. Di fatto Area riformista non esiste più, e tra i votanti in favore della fiducia ieri già si parlava di scioglimento.
Insomma nel voto di martedì non dovrebbero esserci troppe sorprese: nel cerchio renziano si stima che ai 38 di ieri se ne possano aggiungere una decina ma non molti di più. E si confida sull’apporto dei peones sparsi delle opposizioni che tutto vogliono tranne che tornare a casa. Tuttavia la preoccupazione c’è, e il passaggio non è affatto dato per scontato a Palazzo Chigi. «Fa male sentirsi dire che siamo arroganti e prepotenti: stiamo solo facendo il nostro dovere» scrive Renzi nella sua e-news. E dopo il voto twitta a caldo: «Grazie di cuore ai deputati che hanno votato la prima fiducia. La strada è ancora lunga ma questa è #lavoltabuona». La strada fino a martedì è ancora lunga. Anche per questo Renzi, escludendo come era già chiaro sanzioni per i “dissidenti”, tiene aperta la porta delle modifiche alla riforma del Senato e del Titolo V di cui si occuperà Palazzo Madama dopo le regionali: «Ci sarà spazio per riequilibrare ancora la riforma costituzionale facendo attenzione a pesi e contrappesi: nessuna blindatura, nessuna forzatura», è l’assicurazione del premier alla minoranza dialogante del Pd nella sua lettera-appello pubblicata dalla Stampa. Da una parte qualche modifica al Ddl Boschi in tema di procedimento legislativo e composizione del Senato (si veda il Sole 24 Ore di ieri), dall’altra l’ipotesi di nominare un esponente della nuova minoranza governativa come capogruppo (si fanno i nomi di Amendola e Damiano).
Intanto i big escludono scissioni, ma le parole sono forti. Bersani, con lucidità, boccia l’ipotesi di un minipartito che entra in Parlamento con un misero 3%: «Cosa se ne fa uno del 3%? Quello è un diritto di tribuna, non farò il nanetto di Biancaneve». E ancora: «Non è più la ditta che ho costruito io, questa è un’altra cosa, un altro partito. Io non esco, bisogna tornare al Pd. È Renzi che ha fatto lo strappo, non io». Come concilare posizioni tanto distanti tuttavia non è chiaro. Tanto che gli stessi che ieri non hanno votato la fiducia si pongono il problema del cambio generazionale. «È stato Speranza, con la sua posizione, a motivare molti di noi - racconta Stumpo -. Bersani e Letta hanno dichiarato dopo. Noi vogliamo che sia chiaro che c’è una leadership più giovane di Renzi (Speranza ha 36 anni) che si batterà per vincere al prossimo congresso, e anche se perderà resterà nel partito per vincere a quello dopo ancora». Liberarsi dei padri a volte può essere utile anche a chi non è nato rottamatore. 

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