giovedì 21 maggio 2015

"Outlet" sull'ideologia dell'innovazione

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"Outlet. Per una critica dell'ideologia italiana": Innovazione

Risvolto

Dov’è l’innovazione? La rivista l’ha cercata nella politica, nelle istituzioni, nella comunicazione, nella fede, nella giustizia, nelle élites. Inutilmente. Eppure oggi è la parola più usata, che pretende di essere aggressiva, di risolvere la crisi, di cambiare radicalmente il mondo. «Nulla sarà come prima», quante volte in questi ultimi anni questa frase l’abbiamo letta o sentita da pennivendoli e ciarlatani! Invece il segnale più diretto ed eclatante che ci è pervenuto è proprio la scomparsa del gusto della ricerca, del rischio dell’avventura teorica, dell’assenza di creatività, soprattutto nella nostra cultura politica stretta nella morsa della crisi economica, dell’emergenza sociale e dell’assenza di una radicalità delle scelte di campo perché non più legittimata da quel vuoto politico in cui oggi ci dimeniamo. Tutto diventa uguale nel linguaggio della comunicazione, tutto «ritorna al passato» in quello della politica per l’incapacità di pensare e rispondere al presente e il linguaggio non fa che rispecchiare questo vuoto. L’uso grottesco della parola “innovazione” sta appunto a dimostrarlo. Non a caso il segno impressionante di questa crisi si svela nella consumazione e nella distruzione della parola. Di fronte alla innovazione (questa sì vera) della tecnica e del capitale finanziario, la parola della politica si è fatta silenzio e di conseguenza la parola degli uomini ha perso man mano la sua forza. Si è pervenuti alla parola concepita come pura convenzione senza alcun rapporto con la realtà che non riesce più ad esprimerla né a comunicarla. Solo l’evento in sé conta ma svuotato appunto di ogni consistenza materiale: l’evento che deve reincantare un mondo senza futuro dove tutto continua indifferentemente e indefinitivamente verso la consumazione di ogni aspettativa e di ogni prospettiva. È il mondo dell’homo aestheticus dove le distinzioni e le opposizioni reali perdono forza con la conseguenza di produrre nessuna esperienza e insieme una passiva accettazione della logica dell’ et…et e non dell’aut…aut. La cultura materiale si trasforma in cultura dell’immagine e sparisce. E, d’altra parte, «il piacere per il mondo delle immagini – si domandava Walter Benjamin – , non si nutre forse di una cupa ostinazione contro la conoscenza?» Di fronte all’innovazione farlocca ci possono essere due atteggiamenti: la denuncia o il disincanto. La rivista ha scelto il primo. Il secondo sarà il tema di un prossimo numero. Non viviamo affatto in un mondo disincantato come molti ritengono. Anzi. Anche qui l’inganno perpetrato dall’innovazione ‘che non c’è’ ne è la riprova. Dalla politica allo sport, dallo spettacolo alla religione la moltitudine ha bisogno continuamente di idoli sempre nuovi che vengono poi venerati in maniera ossessiva e in riti sempre-uguali e ripetitivi che sono l’opposto del disincanto e del suo senso della fine. Il disincanto bandisce infatti l’eccesso di ogni atteggiamento. Non mira mai a qualcosa, non cerca mai di persuadere. Ha una mano leggera pronta a lasciare la presa. Vive nella separazione, nell’assenza, nel distacco. Perché il suo obiettivo non è di rinchiudersi nelle fantasticherie o nelle illusioni ma quello di una critica spietata e corrosiva agli strumenti e alle forme del potere e di ogni autorità costituita che usano appunto la chiacchiera e i luoghi comuni per perpetuare il loro dominio.


Innovazione, la parola glamour del trasformismo 
Riviste. Dedicato all’innovazione il nuovo numero di «Outlet». Un termine usato per legittimare le scelte neoliberiste di governi e imprese per «governare» la crisi. Oggi la presentazione a Roma 

Benedetto Vecchi il Manifesto 21.5.2015, 0:01 
Ci sono ter­mini che illu­mi­nano lo stato dell’arte dell’ideologia domi­nante in una data for­ma­zione sociale. Nel capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, la parola inno­va­zione è usata per indi­care la capa­cità di tra­sfor­mare la realtà senza cam­biare di una vir­gola i rap­porti di potere tra le classi sociali. È que­sto il filo rosso del nuovo numero della rivi­sta «Outlet», dedi­cata appunto all’innovazione. Gli autori di que­sto numero – che sarà pre­sen­tato oggi a Roma (appun­ta­mento alle 17 alla Casa dei Tea­tri di Villa Doria Pam­phili) – non si limi­tano solo a denun­ciare il tra­sfor­mi­smo di chi usa il tema dell’innovazione per legit­ti­mare le scelte poli­ti­che, eco­no­mi­che e sociali di matrice neo­li­be­ri­sta, ma pro­vano a «deco­struire» l’ordine del discorso domi­nante attorno alla capa­cità del capi­ta­li­smo di essere una for­ma­zione sociale in un con­ti­nuo dive­nire che con­sente l’esercizio di una libertà radi­cale nel per­se­guire una sin­go­lare «buona vita». 
Ci sono saggi che in maniera bril­lante ana­liz­zano come l’innovazione gio­chi, nella sfera poli­tica, un ruolo deter­mi­nante nel rac­co­gliere con­senso e per con­se­guire un’egemonia cul­tu­rale, sve­lando l’indubbia capa­cità da parte della destra di appro­priarsi del ter­mine per affer­mare l’immagine di una com­po­sita realtà poli­tica che per­se­gue la con­ser­va­zione dell’esistente, ma che si can­dida sem­pre a tra­sfor­mare l’esistente, asse­gnando invece alla sini­stra poli­tica il ruolo di difen­sori di uno sta­tus quo. 
Un ribal­ta­mento di senso e di signi­fi­cato che ha carat­te­riz­zato il lungo inverno neo­li­be­ri­sta, ma che viene nuo­va­mente ripro­po­sto dopo, anzi nel pieno di una crisi eco­no­mica diven­tata strut­tu­rale. L’innovazione, in que­sto caso, serve ad occul­tare scelte tese a gover­nare gli effetti della crisi, non a tro­vare vie d’uscita da una sta­gna­zione eco­no­mica che cri­stal­lizza feroci disu­gua­glianze e gerar­chie sociali. La costante ero­sione dei diritti sociali di cit­ta­di­nanza e la demo­li­zione del wel­fare state sono infatti pre­sen­tate come un’innovazione nell’azione di governo, sia nazio­nale che sovra­na­zio­nale. Da que­sto punto di vista, l’attuale pre­mier di governo Mat­teo Renzi non è secondo a nes­suno nel pre­sen­tarsi come un inno­va­tore che è riu­scito a far tor­nare que­sta atti­tu­dine alla tra­sfor­ma­zione nell’alveo della sini­stra, anche quando pro­pone misure in per­fetta con­ti­nuità con il neoliberismo. 
L’innovazione dun­que come un manu­fatto ideo­lo­gico che viene pro­dotto per legit­ti­mare i rap­porti di potere domi­nante. Su que­sto punto, «Outlet» dà il meglio di sé, soprat­tutto quando mette in evi­denza le con­trad­di­zioni, le ambi­va­lenze pre­senti nell’ordine del discorso «innovatore». 
C’è però un aspetto che nel numero della rivi­sta è messo in ombra dalla vis pole­mica degli scritti che lo com­pon­gono. Ed è pro­prio su cosa si possa inten­dere per inno­va­zione. Da quando è entrato nel les­sico poli­tico, inno­va­zione ha sosti­tuito il più impe­gna­tivo ter­mine «rivo­lu­zione», segna­lando appunto la capa­cità del capi­ta­li­smo di tra­sfor­mare pro­cessi pro­dut­tivi, eser­ci­zio del governo. L’innovazione è cioè sino­nimo di pro­gresso, un ter­mine che non gode più del con­senso avuto nel pas­sato. Attra­verso l’attitudine inno­va­tiva era cioè pos­si­bile imma­gi­nare pro­cessi di moder­niz­za­zione just in time, indi­cando la pos­si­bi­lità delle imprese e del sistema poli­tico di rea­gire pron­ta­mente alle tra­sfor­ma­zione dei com­por­ta­menti sociali. 
Nel recente pas­sato, l’innovazione atte­neva infatti alla velo­cità delle pro­ce­dure all’interno delle imprese e delle orga­niz­za­zioni sta­tali nell’adeguarsi a tra­sfor­ma­zioni sociali, cul­tu­rali che pren­de­vano forma al di fuori tanto delle imprese che delle isti­tu­zioni sta­tali: le imprese e le isti­tu­zioni dove­vano cioè diven­tare «mac­chine dell’innovazione». È su que­sto cri­nale che viene ope­rata una con­ti­nuità con rela­tiva presa di distanza dalle tesi di Joseph Shum­pe­ter con le con­ce­zioni esi­stenti sull’innovazione, che era sem­pre una capa­cità interna dell’impresa o dello Stato. E se per l’economista austriaco l’imprenditore era l’unica figura che poteva ambire ad avere lo scet­tro dell’innovazione, nel capi­ta­li­smo «orga­niz­zato» erano i pro­cessi pro­dut­tivi o deci­sio­nali che dove­vano essere orga­niz­zati per pro­durre inno­va­zione. Ma tanto in Shum­pe­ter che in stu­diosi come Wil­liam Bau­moil, l’innovazione era sem­pre un fat­tore interno, mai esterno all’organizzazione. Sol­tanto che il capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo ha dina­mi­che più arti­co­late, meno lineari di quanto pos­sono sta­bi­lire modelli ana­li­tici svi­lup­pati solo per far rima­nere il potere deci­sio­nale nelle mani di chi lo ha sem­pre esercitato. 
La Rete indi­vi­dua nella coo­pe­ra­zione il campo dove si pro­duce inno­va­zione. Steve Jobs, figura sim­bolo dell’innovatore puro, altro non è che un ren­tier dell’innovazione pro­dotta dalla coo­pe­ra­zione sociale. Lo stesso si può dire dei makers , che immersi nelle rela­zioni sociali pro­vano a tra­sfor­mare ciò che viene discusso e spe­ri­men­tato nella coo­pe­ra­zione sociale in un fare impresa, l’oggetto del desi­de­rio dei capi­ta­li­sti di ven­tura. Il nodo è come viene «cat­tu­rata» l’innovazione. Un campo di inda­gine, forse, per un pros­simo numero di Outlet.

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