giovedì 21 maggio 2015
Scuola: la sinistra PD fa male al paese
De Mauro: troppi silenzi in questa riforma Ma dico no alle barricate
intervista di Valentina Santarpia Corriere 21.5.15
Il
«bailamme» sui precari, il «punto debole» dei presidi, e tre «silenzi»
che pesano come macigni: è pacato ma severo il giudizio sulla riforma
della scuola di Tullio De Mauro, linguista, professore universitario,
socio dell’Accademia della Crusca, ex ministro dell’Istruzione e autore
di decine di libri.
Cosa pensa della riforma?
«A me pare che il
testo che va sotto il nome di Buona Scuola sia preoccupante non tanto
per quello che dice, ma per quello che tace».
Quali silenzi preoccupano?
«Il
primo è la mancanza di riconoscimento di quello che, sia in alcuni
settori particolari come infanzia e primaria, e sia nel complesso, la
scuola italiana ha dato e continua a dare a una società che sembra non
amarla troppo e che comunque poco ne finanzia le necessità».
A cosa si riferisce?
«Alcuni
pezzi della scuola funzionano a un livello straordinario. Ci sono parti
di scuola che realizzano la massima inclusione: il 100% delle bambine e
dei bambini iscritti in prima elementare raggiunge la licenza
elementare, e i più alti livello di rendimento nei test internazionali».
Il ddl non ne tiene conto?
«A
mio avviso non si tratta solo di mancato riconoscimento, ma di mancata
conoscenza di quelle parti della scuola che fanno e danno. Gli
ispiratori del premier hanno l’aria di dire: “Ora arriviamo noi e
sistemiamo tutto”».
Qual è il secondo silenzio?
«Non mi sembra che
sia presente in questo progetto ciò che ha animato e deve animare la
scuola italiana, e cioè il richiamo alla funzione di organo
costituzionale della scuola e quindi dell’impegno della Repubblica
(Stato, Comune, enti pubblici) a garantire a tutti e tutte l’istruzione:
potenziando quello che c’è, facendo sì che avvenga nelle medie e nelle
superiori ciò che è già stato fatto per le elementari: soldi e
formazione per gli insegnanti».
La terza omissione?
«La scuola
lavora in salita in una società che, come appare dalle prove
internazionali dell’Ocse, è tra le più dealfabetizzate del mondo,
insieme a quella spagnola: tra il 70 e l’80% della popolazione adulta
uscita dalla scuola anche con livelli alti di competenze, perde queste
competenze molto presto, soprattutto se non lavora».
Dove accade?
«La
recente indagine dell’Ocse ha qualcosa di preoccupante e interessante
allo stesso tempo: il fenomeno della dealfabetizzazione colpisce in
percentuali rilevanti Paesi tra i più svariati del mondo, anche
Finlandia, Corea, Giappone, con sistemi di istruzione esemplari. Il
problema dell’istruzione degli adulti è un problema generale di cui la
scuola dovrebbe tenere conto. Invece è completamente ignorato».
Il preside sceriffo allora è un falso problema?
«Non
mi troverà felice avere un preside che dopo tre anni mi può dire di
andar via: soprattutto se sono un professore di algebra e lui non sa
fare 2 più 2. È un punto debole, ma secondario: non è eliminandolo che
la riforma funziona».
E la battaglia sui precari?
«Un altro punto
debole. Non si sa bene come questi 100 mila verranno assunti, su quali
cattedre, con quali meccanismi. È un bailamme enorme allo stato attuale,
che avrebbero dovuto definire mesi fa: è chiaro che c’è un ricatto
governativo».
Come dicono i sindacati?
«Sì, ma anche i sindacati
dovrebbero mettere da parte le barricate. Bisognerebbe fermarsi,
studiare e mettere a punto un intervento ex novo sull’istruzione. Ma
temo che questa strategia non trovi ascolto».
Sembra di no, Renzi «va come un treno». E i ragazzi?
«Il
mio parlare pomposamente di ruolo costituzionale della scuola è proprio
quello di Piero Calamandrei: è il modo solenne di occuparsi dei
ragazzi, quelli che vanno a scuola e quelli che non ci vanno».
Cosa serve agli studenti?
«Solo imparare a scrivere, leggere, e far di conto, ai livelli sempre più alti che il processo di istruzione richiede».
Avanti sulla scuola, sinistra pd divisa
di C.Vol. Corriere 21.5.15
ROMA
Trecentosedici sì. Cento-trentasette no. Un astenuto. «La Camera
approva». Nell’Aula di Montecitorio si conclude un pezzo di strada della
Buona Scuola. Più di due mesi dopo quel 12 marzo in cui il consiglio
dei Ministri licenziò il disegno di legge 2.994 per riformare il sistema
scolastico italiano e lo inviò al Parlamento chiedendo di «fare bene e
fare presto». Alla Camera scoppiano gli applausi. Ma volano anche parole
grosse con i 5 Stelle che sui banchi stendono fogli a comporre la
scritta: «Fuori il Pd dalla scuola». Loro hanno votato contro, come Sel,
Lega e Forza Italia.
La sinistra del Pd si è divisa, una parte
continua a non gradire la riforma renziana: è mancato il voto di 40
deputati, 12 assenti giustificati, ma 28 esponenti della minoranza, tra
cui Fassina, Bersani, Cuperlo, Speranza ed Epifani, sono usciti
dall’Aula. E in una lettera inviata ai senatori Pd, che presto dovranno
esaminare il ddl, la minoranza dem invita a «ricucire la frattura» con
quella parte di «insegnanti, studenti, famiglie che vive la riforma come
una ferita», perciò «il contributo e l’impegno del Senato possono
condurre a ulteriori e necessari cambiamenti del testo che vi
consegniamo». La ministra Maria Elena Boschi sottolinea: «Maggioranza
assoluta». Ma l’esame al Senato che attende la Buona Scuola non sarà
altrettanto facile, visti i numeri più esigui di cui dispone la
maggioranza. E già i 5 Stelle con Luigi Di Maio affilano i denti: «State
certi che daremo battaglia, sarà un Vietnam».
Ma la ministra
dell’Istruzione Stefania Giannini è «emozionata e soddisfatta, molto
soddisfatta, si avvicina il raggiungimento di un obiettivo centrale per
questo governo: il rilancio del nostro sistema di istruzione. E il
premier Matteo Renzi ringrazia i deputati del Pd che «hanno trasformato
idee e riunioni sulla scuola al Nazareno in una buona legge» e rilancia:
«Andiamo avanti, ma i professori devono essere coinvolti, la scuola non
deve essere più terreno di scontro, ripartiamo insieme». E sui presidi:
«Non li voglio sceriffi, ma nemmeno burocrati e passacarte».
Fuori
dall’Aula la piazza però non festeggia. Davanti a Montecitorio, prof e
sindacati sulla lavagna scrivono: «La Buona Scuola siamo noi» e gridano
«dimissioni, vergogna». Decine di studenti dell’Uds in tutta Italia fin
dalla mattina circondano in un grande abbraccio le loro scuole per dire
«#nellenostremani». I sindacati aspettano l’incontro con la Giannini
lunedì, ma non fanno passi indietro sulla mobilitazione. Il segretario
Cgil Susanna Camusso è netta: «Con il voto di oggi non si chiude la
battaglia, ma la battaglia continua». E Flc Cgil, Cisl, Uil, Fnals
Confsal e Gilda fanno sapere che proteste e assemblee nelle scuole non
si fermano e il 5 giugno portano migliaia di prof nelle piazza d’Italia
per la fiaccolata «La cultura in piazza». Ma cedono sul blocco degli
scrutini: sarà solo un’ora di sciopero per i primi due giorni «nel
rispetto delle disposizioni di legge». Anche Unicobas, Cobas e Usb hanno
dovuto mollare: al garante degli scioperi hanno comunicato che faranno
due giorni di sciopero ma non durante gli scrutini.
Riforma scuola, sì della Camera La battaglia si sposta in Senato
Governo soddisfatto, ma Bersani e una trentina del Pd non votano
di Carlo Bertini La Stampa 21.5.15
La
«Buona Scuola» con 100 mila assunzioni e i presidi-manager passa il
primo giro di boa alla Camera e lo passa anche bene vista con gli occhi
di Renzi, dato che il numero simbolico di 316 sì vuol dire che il
governo strappa la maggioranza assoluta su una delle riforme cardine del
suo programma. Ma se i 137 no di Sel, Lega, 5Stelle e Forza Italia sono
scontati, al premier certo non fa piacere che una trentina di deputati
della minoranza anche questa volta non votino, dopo aver disertato l’ok
all’Italicum e al jobs act. Un problema politico per il governo. Per i
ragazzi invece gli esami sono salvi, malgrado le proteste: nessun blocco
degli scrutini, esami di terza media e maturità garantiti, assicura
l’Autorità di garanzia, cui sono pervenute le proclamazioni dei
sindacati autonomi di due giorni di sciopero dopo la chiusura delle
scuole.
La sinistra non si arrende
Ora la partita si sposta a
Palazzo Madama, dove la minoranza Pd ha un asset prezioso, una ventina
di voti che possono fare la differenza perché cruciali per far passare o
meno la legge. In sintonia con una lettera di Cuperlo, Speranza e una
cinquantina di deputati, i senatori preparano sfilze di emendamenti
sulla chiamata diretta degli insegnanti da parte dei presidi, sui
precari di seconda fascia rimasti esclusi dal piano assunzioni, sulle
«detrazioni fiscali garantite anche alle private e parificate che sono
in gran parte dei diplomifici», per dirla con Miguel Gotor.
«Riaffronteremo alcuni punti», promette la Boschi, che terrà le fila
della trattativa finale, quella più difficile. Renzi fissa i punti
fermi. «La scuola non sia terreno di scontro. Il blocco degli scrutini?
Sarebbe un errore clamoroso. Di cosa si lamentano i sindacati che non
scioperarono con la Fornero? Che mettiamo 3 miliardi nella scuola? Noi
vogliamo presidi che non siano sceriffi o passacarte ma che si prendano
più responsabilità».
Tempi contingentati
La prossima settimana
dunque si lavora in Commissione al Senato, la corsa contro il tempo
scatta da qui al 15 giugno, entro quella data va approvata la norma che
contiene l’assunzione di 100 mila precari, oltre a una serie di novità
non da poco. Che scatenano le proteste dentro e fuori il palazzo, dove i
Cobas della scuola fin dalla mattina si fanno sentire con un sit in
rumoroso davanti alle finestre di Montecitorio. «Con il voto di oggi non
si conclude la battaglia», avverte minacciosa la Camusso.
Schiaffi e urla
Nell’emiciclo
scene di ordinaria protesta: il coro di Sel «Scuo-la-pub-blica», i
5Stelle che coprono i loro banchi di lettere cubitali con la scritta
«Fuori il Pd dalla Scuola». Dei big solo Enrico Letta arriva e vota sì,
Bersani e Bindi non ci sono. L’aria si surriscalda quando termina il
voto e tutti escono: rissa sfiorata tra un deputato grillino, Tofalo e
uno del Pd, Marracu, sulle scale che portano ai bagni. Lo denuncia il
pddì Miccoli in aula,Tofalo nega ma la Boldrini dispone un’indagine
sull’episodio. Fuori al sit in volano i fischi, «uscite dal Pd», urlano i
Cobas a Fassina che esce a sostenere la lotta di professori e studenti.
«I sindacati hanno il diritto di portare fino alle estreme conseguenze
la loro battaglia», infiamma gli animi il leader di Sel, Nichi Vendola.
Solo dopo che chiuderanno le scuole, la riforma riceverà il timbro
finale.
Opposizioni appese alle regionali e all’economia
C’ è qualcosa di stanco, nel modo in cui la minoranza del partito fa l’opposizione a Matteo Renzi
di Massimo Franco Corriere 21.5.15
C’
è qualcosa di stanco, nel modo in cui la minoranza del partito fa
l’opposizione a Matteo Renzi. Si assiste ad un canovaccio scontato, con
numeri parlamentari che confermano una fronda in realtà meno corposa di
quanto si potrebbe immaginare: quella emersa ieri sulla riforma della
scuola è l’ultimo esempio. In parallelo, si invoca un’urgenza per
chiarire identità e strategia del Pd, che però viene rinviata a dopo le
elezioni regionali di fine maggio. Segno che si tratta di urgenza
relativa; o comunque, che prima di trattare col premier i suoi avversari
aspettano il voto e sperano in una vittoria risicata.
Ma è difficile
che il governo esca sconfitto da quell’appuntamento. Il centrodestra
versa in condizioni pietose, soprattutto Forza Italia. E, nonostante le
tensioni a sinistra, e i sondaggi che danno il Pd in leggera flessione,
le distanze con gli avversari rimangono nette. Renzi confida almeno in
un 5 a 2 che gli consentirebbe di zittire i suoi critici e andare
avanti. Anche se sa bene che la sfida vera non è quella. Si concentra
sull’economia, sulla capacità di non pagare un prezzo troppo alto alla
questione del buco delle pensioni e alla riforma scolastica.
L’insistenza
di Silvio Berlusconi, ma anche del Movimento 5 Stelle e della Lega su
un governo che non riesce ad abbassare le tasse, cerca di intercettare
un malessere diffuso. Idem il martellamento sui rimborsi ai pensionati,
con l’accusa di «prenderli in giro»; e di avere presentato il decreto
che contiene l’ una tantum senza averlo nemmeno consegnato al Quirinale.
«Questo governo ha aumentato la pressione fiscale. Con il mio esecutivo
era arrivata a meno del 40 percento, oggi è oltre», ricorda Berlusconi,
dimenticando però di avere portato l’Italia sull’orlo del baratro
finanziario nel 2011.
Renzi può ribattere presentandosi come il
premier che finalmente «ha fatto le cose»; ed è riuscito, così sostiene,
a piegare l’Europa ad un’agenda economica che non prevede più solo
misure di austerità ma anche per la crescita. E tende a dimostrare che
anche gli inciampi più eclatanti non nascono da questa maggioranza, ma
dagli errori del passato: nel caso della sentenza della Corte
costituzionale sulle pensioni, dalla riforma fatta dal governo Monti e
firmata dal suo ministro Elsa Fornero.
Rimane il fatto che l’ una
tantum data a una parte dei pensionati danneggiati alimenta lo
scontento. Evita «punizioni» da parte dell’Ue nei confronti dell’Italia,
ma impedisce anche di accelerare la ripresa. Nei prossimi dieci giorni,
Renzi dovrà convincere gli elettori che non si poteva restituire tutto.
Il rimborso totale, ha spiegato il ministro dell’Economia, Pier Carlo
Padoan, «avrebbe comportato una spesa in più pari a circa 17,6
miliardi». Insomma, sarebbero saltati i conti. Bisogna capire se basterà
questo a placare lo scontento cavalcato dagli avversari.
L’ira del premier: “La minoranza vuole solo farmi cadere”
di Francesco Bei, Goffredo De Marchis Repubblica 21.5.15
ROMA
La scuola ormai c’entra poco, la posta in gioco — per entrambi i fronti
— è tutta politica: la riconquista del Pd per i nostalgici della Ditta,
la definitiva renzianizzazione del partito per il capo del governo. Il
luogo dello scontro sarà palazzo Madama, dove i 23 senatori della
minoranza, se restassero compatti, potrebbero in teoria mandare agli
archivi la Buona scuola. Renzi è furente per quanto accaduto ieri in
aula. Certo, i 38 dissidenti dell’Italicum si sono ridotti a 28 (29 con
la Bindi), ma la ferita brucia lo stesso: «Gli siamo venuti incontro,
abbiamo accettato molte modifiche, abbiamo persino ritirato l’articolo
sul 5 per mille. E non hanno votato lo stesso. È evidente che puntano ad
altro».
Gli occhi sono fissi sul Senato, è lì che i ribelli vogliono
consumare fino in fondo la loro rivincita. Tanto più se le regionali
dovessero risolversi con la perdita della Liguria e con un arretramento
del Pd in termini di voti assoluti per via dell’astensionismo record.
Perché è lì che la maggioranza è in bilico. E il dissenso appare più
solido che a Montecitorio. A guidare la pattuglia dei ribelli ci sono i
tre civatiani — Mineo, Ricchiuti e Tocci — e bersaniani irriducibili
come Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca. Così la strategia di palazzo
Chigi prevede anzitutto di assottigliare e dividere il blocco della
minoranza. Separando chi punta realmente a migliorare il testo da chi,
invece, «persegue solo l’obiettivo di far cadere il governo costruendo
un partito dentro il partito». Il malumore dei renziani è a livelli di
guardia. «Dopo il voto alle regionali - si sfoga Edoardo Fanucci,
renziano della primissima ora - non è più prescindibile un chiarimento
tra di noi. Non parliamo di Costituzione o di legge elettorale. Ogni
provvedimento dell’esecutivo viene ostacolato da una corrente. Non può
durare a lungo». Le contromisure al Senato sono già state studiate. Si
punta anzitutto su quella parte di Area riformista interessata a
consolidare un rapporto con il premier. «Claudio Martini è una persona
autorevole - spiega Roberto Rampi, uno degli esponenti del- la corrente
di mezzo tra sinistra e renziani - e può convincere molti a votare a
favore se il testo sarà modificato. Alla fine scommetto che di quei 23
ne rimarranno al massimo 8». Per separare gli “irriducibili” dai
“ragionevoli” Renzi ha già pronto un pacchetto di modifiche, discusse
nei giorni scorsi da Matteo Orfini e Lorenzo Guerini con i sindacati.
Compresa la Cgil. Un tris di emendamenti che il presidente del Consiglio
si è tenuto nella manica per gettarli sul tavolo verde di palazzo
Madama: saranno previsti criteri oggettivi per assegnare i premi - un
tesoretto da 200 milioni - ai professori più meritevoli in modo da
attenuare la discrezionalità dei presidi, e gli stessi presidi avranno
meno libertà nella scelta degli insegnati; infine qualche ulteriore
apertura ci sarà per una delle tante categorie di precari rimasti
esclusi dall’infornata dei 160 mila.
E tuttavia, dopo tutte le
mediazioni, esauriti tutti i tentativi di convincimento e se il dissenso
dovesse restare consistente, molti renziani non escludono nemmeno di
usare l’arma finale, quella fin qui smentita in maniera ufficiale: la
fiducia. Il clima in effetti è già surriscaldato. Enza Bruno Bossio e
Nico Stumpo, che ieri non hanno votato, avvertono: «In uno Stato
democratico nessuna riforma può farsi senza il consenso». Anche da parte
dei renziani la tensione si tocca con mano. E lo dimostra la sfuriata
fatta ieri in aula dal solitamente diplomatico Lorenzo Guerini,
vicesegretario Pd, a Gianni Cuperlo e agli altri della minoranza che
chiedevano di intervenire, in sede di dichiarazione di voto, in dissenso
dal gruppo. «Adesso basta, è inaccettabile che ogni passaggio qua
dentro sia segnato da una dichiarazione di corrente!». Oltretutto gli
esponenti della maggioranza accusano gli oppositori dem di essere venuti
meno ai patti. «C’era un’intesa - rivela Anna Ascani -, un gentlemen’s
agreement sottoscritto tra noi e loro. Se noi avessimo ritirato
l’articolo sul 5X1000 loro avrebbero votato il provvedimento. Ma non
l’hanno fatto: la verità è che or- mai non riescono a mantenere più
nulla».
I renziani ritengono che la scelta di non votare la riforma
sia stata presa proprio per coprire le divisioni interne alla minoranza
fra dialoganti e duri. I primi favorevoli a sottolineare le modifiche
ottenute nella discussione parlamentare, i secondi che puntavano a
mettere in difficoltà il governo. Qualche strascico della discussione
interna lo si è visto anche al momento del voto, quando un bersaniano
come Enzo Lattuca, ad esempio, alla fine ha optato per il sì
differenziandosi dagli altri 28. Pur firmando più tardi la lettera della
minoranza ai senatori per spronarli alla pugna. Sono segnali di una
sofferenza che lasciano intravedere sviluppi più grandi dopo le
regionali. Lo stesso Lattuca, sospirando, ammette che esiste «un rischio
di assimilazione progressiva della minoranza da parte di Renzi.
Soprattutto se il premier continuerà a restare così sulla cresta
dell’onda».
Fassina (PD) “Dovrò uscire dal partito se a Palazzo Madama non sarà modificata davvero”
I voti alle europee ricevuti su aspettative indefinite e ambigue su lavoro o scuola La mia uscita? Tra il popolo dem e il partito di Renzi, scelgo il primo
intervista di Giovanna Casadio Repubblica 21.5.15
ROMA
«Veramente in piazza è stato contestato il Pd, non il sottoscritto».
Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, è appena tornato
dalla piazza in aula a Montecitorio. Non vota la riforma della scuola.
Fassina, i manifestanti le hanno gridato “lascia il Pd”. È arrivato il momento?
«Il
passaggio ora al Senato del disegno di legge sulla scuola è decisivo
per verificare se è reversibile lo spostamento del Pd dopo la svolta
liberista sul lavoro e il segno plebiscitario sulla democrazia».
Rimanda la sua uscita. Ma è più fuori che dentro?
«Tra il popolo dem — abbandonato da un Pd geneticamente modificato — e il partito di Renzi, scelgo il primo».
Perché lega il suo addio al Pd alla riforma della scuola? La giudica una riforma di destra?
«Bisogna
essere cauti nell’uso del termine riforma che ha perso il significato
progressista avuto in una parte del Novecento. Temo che parlare di
riforma della scuola sia improprio come lo è stato per la legge Fornero
sulle pensioni, per la legge sul mercato del lavoro di Sacconi. Il ddl
scuola, concentrando i poteri di chiamata dei docenti sul dirigente
scolastico, incide sulla libertà di insegnamento. Senza un piano
pluriennale di assunzione degli insegnati precari riproduce il dramma
degli esodati».
Spera sia modificato al Senato?
«Assolutamente sì.
Nonostante la contrarietà netta di alcuni di noi, per organizzare
l’area del dissenso, in più di 30 non abbiamo partecipato al voto.
Abbiamo rafforzato la battaglia al Senato unendo la minoranza dem».
Quali cambiamenti si aspetta?
«Su
tre punti: cancellare i poteri dei presidi di chiamare e rimuovere
dall’incarico i docenti; introdurre un piano pluriennale di assunzione
degli insegnanti precari connesso con le uscite di pensionamento quindi
senza oneri aggiuntivi; eliminare la detrazione fiscale per le
secondarie superiori private».
Però potrebbe avere l’ok con l’appoggio di Verdini e company?
«Deve passare con i voti di tutto il Pd e dell’attuale maggioranza. Sarebbe altrimenti un fatto politico grave».
Il suo è un ultimatum?
«È
una presa d’atto. Il programma elettorale votato da 8,6 milioni di
elettori può essere archiviato da 2 milioni di voti al congresso del Pd?
Il 40% di voti raccolti alle elezioni europee sono stati ricevuti dal
Pd su aspettative indefinite e ambigue senza riferimenti specifici su
lavoro o scuola. La contraddizione tra il mandato elettorale che ci è
stato dato e il programma del governo Renzi, senza legittimazione
elettorale, è questione rilevante di democrazia o capriccio del
sottoscritto? Una parte del popolo dem si è allontanato, il Pd raccoglie
sempre di più i voti dell’establishment e occupa lo spazio presidiato
in Europa dalle destre merkeliane assenti in Italia».
Minoranza in trincea, rischio Senato per il premier
A Palazzo Madama dove la soglia minima è di 161 la maggioranza può contare su 175 senatori salvo defezioni
di Emilia Patta Il Sole 21.5.15
ROMA
La riforma della scuola passa con la maggioranza assoluta a
Montecitorio, non un voto in più non un voto in meno. «Trecentosedici sì
è la maggioranza assoluta, per cui diciamo che è andato bene anche il
voto sulla riforma della scuola», commenta la ministra per le Riforme e
per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Che per svelenire
il clima interno al Pd apre anche a possibili modifiche sui punti
controversi nel prossimo passaggio in Senato: «Adesso c’è un altro
passaggio significativo al Senato, quindi riaffronteremo alcuni punti
che sappiamo essere ancora discussi», assicura Boschi. Eppure la
tranquillità di facciata nasconde un vero e proprio allarme tra i
renziani per il passaggio in Senato. Era infatti dal Jobs Act che una
riforma targata Matteo Renzi non aveva un consenso parlamentare così
basso alla Camera: 316 furono i sì nel novembre scorso sulla legge
delega e 316 sono stati sul Ddl scuola. Due riforme con la R maiuscola
che hanno oltre ai numeri altri due comuni denominatori: l’opposizione
della minoranza bersanian-cuperliana del Pd e il successivo approdo a
Palazzo Madama. Dove, com’è noto, la maggioranza si regge su una decina
di voti di scarto e la sinistra del Pd è particolarmente compatta e
agguerrita (in 24 firmarono il documento contro le riforme
costituzionali). Per questo, al di là dei toni concilianti, tra i
parlamentari renziani non si esclude la fiducia sulla “Buona Scuola” a
Palazzo Madama. Anche se da Palazzo Chigi bocciano «voci» e «illazioni» e
sottolineano che nessuno pensa alla fiducia sulla scuola.
Conti alla
mano, nel Pd non hanno votato in segno di dissenso in 28 (40 nel
complesso, ma molti erano in missione o assenti giustificati): un po’
meno dei 36 che non hanno votato la fiducia sull’Italicum (Enrico Letta,
ad esempio, ieri ha votato) ma comunque un numero considerevole dentro
il quale c’è un pezzo di Pd: gli ex segretari Pier Luigi Bersani e
Guglielmo Epifani, l’ex capogruppo Roberto Speranza, l’ex sfidante alle
primarie del Pd Gianni Cuperlo e personalità dell’era bersaniana come
Alfredo D’Attorre, Nico Stumpo, Davide Zoggia e il sempre più in uscita
Stefano Fassina. Insomma, nonostante i numeri si siano assottigliati
rispetto al voto sull’Italicum, la riforma della scuola certifica la
frattura tra i dem. «È la prova di un’opposizione a prescindere, un
Vietnam strumentale e non di merito», sottolineano i renziani. Il
riferimento è alla lettera dialogante con cui la sinistra (e tra le
firme ce n’è anche qualcuna di chi ieri ha votato sì) riconosce i passi
avanti fatti alla Camera con le modifiche introdotte in commissione e
chiama i senatori ad impegnarsi per correttivi in 3 punti. Perché sulle
due nuove modifiche chieste dalla minoranza per rivedere la chiamata
diretta del preside (punto qualificante per Renzi della sua riforma) e
sulle assunzioni per i precari di seconda fascia (qui è questione di
bilancio pubblico) è chiaro che la porta del dialogo è chiusa. Ma
l’eventuale resa dei conti con la sinistra del partito sulla scuola, e
non solo, è a questo punto rimandata a dopo le regionali del 31 maggio. È
evidente che l’esito del voto, con particolare occhio alla Liguria in
bilico, influenzerà il comportamento di Renzi. Che comunque rivendica
quanto fatto fin qui, dal Jobs Act all’Italicum alla responsabilità
civile dei magistrati. Anche se non tutti sono d’accordo nel merito,
ragiona il premier, «nessuno può negare che finalmente in Italia le cose
si fanno, la politica ha ripreso slancio e il tempo delle chiacchiere è
finito».
Intanto già da oggi l’incubo Senato comincerà a prendere
forma, con l’arrivo del Ddl scuola in commissione Istruzione a Palazzo
Madama: tre gli esponenti della minoranza dem (Martini, Mineo e Tocci),
decisivi.
Il premier: «Il dissenso? Asciugato». E scommette sui numeri al Senato
Secondo il leader il dialogo ha funzionato. Il timore per l’astensionismo alle urne
di Maria Teresa Meli Corriere 21.5.15
Il
voto di ieri, a Montecitorio, ha fatto registrare un numero minore di
dissensi nel Pd rispetto all’Italicum. Il particolare non è sfuggito a
Renzi, che ha confidato ai collaboratori: «L’opposizione interna si è
asciugata. L’interlocuzione funziona».
ROMA L’annuncio della
minoranza interna che promette di riprendere la battaglia sulla riforma
della scuola al Senato non sembra preoccupare troppo Matteo Renzi.
L’idea
del premier è quella di concedere due, tre modifiche in Commissione —
di cui si è già discusso in questi giorni — e poi di non mettere
necessariamente la fiducia sul provvedimento, che tornerà alla Camera.
Una
decisione ufficiale su come agire ancora non c’è e non verrà comunicata
adesso, anche se la minoranza, benché Palazzo Chigi smentisca, dà per
scontato il ricorso al voto di fiducia.
Nessun eccesso di
preoccupazione da parte di Renzi, comunque, anche perché il voto di
ieri, a Montecitorio, ha fatto registrare un numero minore di dissensi
rispetto all’Italicum. Particolare, questo, che non poteva certamente
sfuggire al premier, il quale ha confidato ai collaboratori:
«L’opposizione si è asciugata. L’interlocuzione funziona».
A
preoccupare veramente Renzi sono invece i dati dell’affluenza alle urne.
Se il sei a uno si dà per molto probabile,benché per scaramanzia non si
dica troppo apertamente, sono altri i numeri che impensieriscono
Palazzo Chigi. E riguardano la percentuale dei votanti. Un dato basso
verrebbe interpretato come un primo segno di disaffezione al governo
Renzi. A questo va aggiunto il timore che Raffaella Paita, anche in caso
di vittoria, non raggiunga in Liguria il quorum necessario per
governare da sola e sia costretta a chiedere aiuto al Nuovo centrodestra
per formare la sua giunta perché Luca Pastorino ha già fatto sapere che
lui non è interessato alla cosa.
Non è un caso, dunque, se ieri uno
degli oppositori interni del premier, Vannino Chiti, abbia dichiarato:
«La questione principale è la partecipazione alle regionali. Non
funziona una democrazia con una bassa presenza di cittadini alle
elezioni».
Comunque, anche un’estendersi dell’astensionismo non
fermerà la corsa del presidente del Consiglio, che sembra molto
determinato ad andare avanti lungo la sua strada: «Io mi sono assunto la
responsabilità di governare il Paese e di decidere».
E di nuove
decisioni per il futuro, Renzi ne ha in mente molte. Meno decreti legge,
innanzitutto. E più decreti attuativi. «Dobbiamo semplificare il fisco —
spiega — velocizzare i tribunali e mandare definitivamente in porto la
riforma della Pubblica amministrazione. Io credo che se mettiamo ordine
in tutto questo, in Europa non ci fermerà nessuno».
Ma il premier, a
quanto pare, non ha rinunciato all’idea di affrontare pure la pratica
della tv di Stato: «Naturalmente ora dovremo procedere anche con la
Rai».
Questo per quanto riguarda i fronti esterni. Poi c’è quello
interno, del Pd. La minoranza non sembra avere grande voglia di fare i
bagagli e di uscire dal partito. Stefano Fassina sembra aver posticipato
il suo addio a dopo l’approvazione della riforma della scuola al
Senato. Michela Marzano prima di dare le dimissioni da deputata,
annunciate con grande anticipo, aspetterà l’approvazione delle unioni
civili.
Gli altri vogliono restare. E sono sempre più spaccati tra
chi cerca il confronto con Renzi e chi vuole la guerriglia. A generare
questa divisione, due motivi fondamentali. Il primo lo spiega il
presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano, che fa parte
dell’ala dialogante della minoranza: «Non ci si può muovere come un
partito nel partito, non votando mai i provvedimenti del governo, allora
si esce... Non capisco Speranza, non è da lui comportarsi così».
Già,
«non è da lui», lo dicono in molti. Ma la verità è che l’ala più
oltranzista della minoranza è tornata, di fatto, a essere guidata da
Pier Luigi Bersani e dai suoi uomini (Maurizio Migliavacca). Loro
aspettano al varco Renzi su un altro fronte: la legge sui partiti, per
dare seguito all’articolo 49 della Costituzione, e, soprattutto, la
revisione, elaborata dal tandem Lorenzo Guerini e Matteo Orfini della
forma partito, che riguarda il Pd e il delicato nodo delle nuove regole
delle primarie.
E Renzi in versione mediatore prepara un vertice con i sindacati
L’incontro decisivo avverrà prima del voto finale
di Fabio Martini La Stampa 21.5.15
Matteo
Renzi deciderà solo all’ultimo momento se entrare anche lui nella Sala
Verde. Ma sulla trattativa con i sindacati la decisione più importante,
il premier l’ha già presa da diversi giorni. Anche se non ancora
formalizzata, la decisione è questa: nella prima settimana di giugno,
dopo l’esame del ddl scuola da parte delle Commissioni del Senato e poco
prima del decisivo passaggio in aula, le porte di palazzo Chigi si
riapriranno ai leader del tre sindacati confederali per un confronto
finale nel quale formalizzare eventuali, ulteriori modifiche. Ma la
riapertura della Sala Verde (proverbiale luogo della concertazione),
anche a Susanna Camusso è un segnale importante: la conferma che Renzi
sulla scuola ha cambiato approccio rispetto alle ultime battaglie. È lui
stesso ad ammetterlo: «Su questo tema non abbiamo fatto come con la
legge elettorale, quando abbiamo detto “prendere o lasciare”, sulla
scuola invece abbiamo ripetuto: “parliamone e decidiamo insieme”».
Arrivando a pronunciare, a Rtl 102,5, queste testuali parole: «Chi se ne
frega delle idee di Renzi! Se un’idea va cambiata, bisogna dimostrare
che siamo affezionati alla scuola, non alle nostre idee».
Renzi per
una volta si dimostra prudente, trattativista e comunque lascia aperta
la strada a modifiche da parte del Senato (con successivo passaggio-bis
alla Camera) per due ragioni, entrambe incoffessabili. La prima: il
presidente del Consiglio ha preso atto che sulla riforma della scuola, i
sindacati sono riusciti ad interpretare il “sentiment” nettamente
prevalente tra gli insegnanti, dimostrando di essere altamente
rappresentativi di una categoria con una forte influenza sociale (sui
genitori). E d’altra parte la cronicizzazione del dissenso da parte
della minoranza Pd (che ieri in gran parte non ha partecipato alla
votazione finale alla Camera sul ddl-scuola) rende a rischio il
passaggio al Senato. I senatori del Pd stabilmente schierati con la
minoranza sono ventidue e se anche soltanto quindici di loro votassero a
favore di emendamenti «mirati» contro il provvedimento, potrebbero
cambiare la natura della riforma.
Tanto vale, si ragiona a palazzo
Chigi, bruciare sul tempo i dissidenti e cambiare ancora qualcosa nel
testo. Ma senza perdere la faccia. Ecco perché Renzi sottolinea le
numerose modifiche già apportate al testo iniziale della maggioranza -
sui poteri dei presidi, sul 5 per mille, ma non solo. Ma per decidere
quanto aprire, Renzi aspetta il risultato delle elezioni Regionali del
31 maggio. Ben sapendo che anche nel fronte sindacale si stanno aprendo
delle crepe. La Cgil ha indetto, ma senza la Cisl, uno sciopero di
un’ora nei primi due giorni di scrutinio, ma ha rinunciato al blocco
vero e proprio: «Sarebbe stato violare il Dna della Cgil - dice Giuliano
Cazzola, dirigente ai tempi di Lama e Trentin - perché colpire utenze
“sensibili” come ragazzi e le famiglie è sempre stato considerato un
tabù intoccabile in tutte le Cgil».
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