giovedì 21 maggio 2015

Scuola: la sinistra PD fa male al paese

De Mauro: troppi silenzi in questa riforma Ma dico no alle barricate
intervista di Valentina Santarpia Corriere 21.5.15

Il «bailamme» sui precari, il «punto debole» dei presidi, e tre «silenzi» che pesano come macigni: è pacato ma severo il giudizio sulla riforma della scuola di Tullio De Mauro, linguista, professore universitario, socio dell’Accademia della Crusca, ex ministro dell’Istruzione e autore di decine di libri.
Cosa pensa della riforma?
«A me pare che il testo che va sotto il nome di Buona Scuola sia preoccupante non tanto per quello che dice, ma per quello che tace».
Quali silenzi preoccupano?
«Il primo è la mancanza di riconoscimento di quello che, sia in alcuni settori particolari come infanzia e primaria, e sia nel complesso, la scuola italiana ha dato e continua a dare a una società che sembra non amarla troppo e che comunque poco ne finanzia le necessità».
A cosa si riferisce?
«Alcuni pezzi della scuola funzionano a un livello straordinario. Ci sono parti di scuola che realizzano la massima inclusione: il 100% delle bambine e dei bambini iscritti in prima elementare raggiunge la licenza elementare, e i più alti livello di rendimento nei test internazionali».
Il ddl non ne tiene conto?
«A mio avviso non si tratta solo di mancato riconoscimento, ma di mancata conoscenza di quelle parti della scuola che fanno e danno. Gli ispiratori del premier hanno l’aria di dire: “Ora arriviamo noi e sistemiamo tutto”».
Qual è il secondo silenzio?
«Non mi sembra che sia presente in questo progetto ciò che ha animato e deve animare la scuola italiana, e cioè il richiamo alla funzione di organo costituzionale della scuola e quindi dell’impegno della Repubblica (Stato, Comune, enti pubblici) a garantire a tutti e tutte l’istruzione: potenziando quello che c’è, facendo sì che avvenga nelle medie e nelle superiori ciò che è già stato fatto per le elementari: soldi e formazione per gli insegnanti».
La terza omissione?
«La scuola lavora in salita in una società che, come appare dalle prove internazionali dell’Ocse, è tra le più dealfabetizzate del mondo, insieme a quella spagnola: tra il 70 e l’80% della popolazione adulta uscita dalla scuola anche con livelli alti di competenze, perde queste competenze molto presto, soprattutto se non lavora».
Dove accade?
«La recente indagine dell’Ocse ha qualcosa di preoccupante e interessante allo stesso tempo: il fenomeno della dealfabetizzazione colpisce in percentuali rilevanti Paesi tra i più svariati del mondo, anche Finlandia, Corea, Giappone, con sistemi di istruzione esemplari. Il problema dell’istruzione degli adulti è un problema generale di cui la scuola dovrebbe tenere conto. Invece è completamente ignorato».
Il preside sceriffo allora è un falso problema?
«Non mi troverà felice avere un preside che dopo tre anni mi può dire di andar via: soprattutto se sono un professore di algebra e lui non sa fare 2 più 2. È un punto debole, ma secondario: non è eliminandolo che la riforma funziona».
E la battaglia sui precari?
«Un altro punto debole. Non si sa bene come questi 100 mila verranno assunti, su quali cattedre, con quali meccanismi. È un bailamme enorme allo stato attuale, che avrebbero dovuto definire mesi fa: è chiaro che c’è un ricatto governativo».
Come dicono i sindacati?
«Sì, ma anche i sindacati dovrebbero mettere da parte le barricate. Bisognerebbe fermarsi, studiare e mettere a punto un intervento ex novo sull’istruzione. Ma temo che questa strategia non trovi ascolto».
Sembra di no, Renzi «va come un treno». E i ragazzi?
«Il mio parlare pomposamente di ruolo costituzionale della scuola è proprio quello di Piero Calamandrei: è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi, quelli che vanno a scuola e quelli che non ci vanno».
Cosa serve agli studenti?
«Solo imparare a scrivere, leggere, e far di conto, ai livelli sempre più alti che il processo di istruzione richiede». 


Avanti sulla scuola, sinistra pd divisa
di C.Vol. Corriere 21.5.15

ROMA Trecentosedici sì. Cento-trentasette no. Un astenuto. «La Camera approva». Nell’Aula di Montecitorio si conclude un pezzo di strada della Buona Scuola. Più di due mesi dopo quel 12 marzo in cui il consiglio dei Ministri licenziò il disegno di legge 2.994 per riformare il sistema scolastico italiano e lo inviò al Parlamento chiedendo di «fare bene e fare presto». Alla Camera scoppiano gli applausi. Ma volano anche parole grosse con i 5 Stelle che sui banchi stendono fogli a comporre la scritta: «Fuori il Pd dalla scuola». Loro hanno votato contro, come Sel, Lega e Forza Italia.
La sinistra del Pd si è divisa, una parte continua a non gradire la riforma renziana: è mancato il voto di 40 deputati, 12 assenti giustificati, ma 28 esponenti della minoranza, tra cui Fassina, Bersani, Cuperlo, Speranza ed Epifani, sono usciti dall’Aula. E in una lettera inviata ai senatori Pd, che presto dovranno esaminare il ddl, la minoranza dem invita a «ricucire la frattura» con quella parte di «insegnanti, studenti, famiglie che vive la riforma come una ferita», perciò «il contributo e l’impegno del Senato possono condurre a ulteriori e necessari cambiamenti del testo che vi consegniamo». La ministra Maria Elena Boschi sottolinea: «Maggioranza assoluta». Ma l’esame al Senato che attende la Buona Scuola non sarà altrettanto facile, visti i numeri più esigui di cui dispone la maggioranza. E già i 5 Stelle con Luigi Di Maio affilano i denti: «State certi che daremo battaglia, sarà un Vietnam».
Ma la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini è «emozionata e soddisfatta, molto soddisfatta, si avvicina il raggiungimento di un obiettivo centrale per questo governo: il rilancio del nostro sistema di istruzione. E il premier Matteo Renzi ringrazia i deputati del Pd che «hanno trasformato idee e riunioni sulla scuola al Nazareno in una buona legge» e rilancia: «Andiamo avanti, ma i professori devono essere coinvolti, la scuola non deve essere più terreno di scontro, ripartiamo insieme». E sui presidi: «Non li voglio sceriffi, ma nemmeno burocrati e passacarte».
Fuori dall’Aula la piazza però non festeggia. Davanti a Montecitorio, prof e sindacati sulla lavagna scrivono: «La Buona Scuola siamo noi» e gridano «dimissioni, vergogna». Decine di studenti dell’Uds in tutta Italia fin dalla mattina circondano in un grande abbraccio le loro scuole per dire «#nellenostremani». I sindacati aspettano l’incontro con la Giannini lunedì, ma non fanno passi indietro sulla mobilitazione. Il segretario Cgil Susanna Camusso è netta: «Con il voto di oggi non si chiude la battaglia, ma la battaglia continua». E Flc Cgil, Cisl, Uil, Fnals Confsal e Gilda fanno sapere che proteste e assemblee nelle scuole non si fermano e il 5 giugno portano migliaia di prof nelle piazza d’Italia per la fiaccolata «La cultura in piazza». Ma cedono sul blocco degli scrutini: sarà solo un’ora di sciopero per i primi due giorni «nel rispetto delle disposizioni di legge». Anche Unicobas, Cobas e Usb hanno dovuto mollare: al garante degli scioperi hanno comunicato che faranno due giorni di sciopero ma non durante gli scrutini.


Riforma scuola, sì della Camera La battaglia si sposta in Senato

Governo soddisfatto, ma Bersani e una trentina del Pd non votano

di Carlo Bertini La Stampa 21.5.15

La «Buona Scuola» con 100 mila assunzioni e i presidi-manager passa il primo giro di boa alla Camera e lo passa anche bene vista con gli occhi di Renzi, dato che il numero simbolico di 316 sì vuol dire che il governo strappa la maggioranza assoluta su una delle riforme cardine del suo programma. Ma se i 137 no di Sel, Lega, 5Stelle e Forza Italia sono scontati, al premier certo non fa piacere che una trentina di deputati della minoranza anche questa volta non votino, dopo aver disertato l’ok all’Italicum e al jobs act. Un problema politico per il governo. Per i ragazzi invece gli esami sono salvi, malgrado le proteste: nessun blocco degli scrutini, esami di terza media e maturità garantiti, assicura l’Autorità di garanzia, cui sono pervenute le proclamazioni dei sindacati autonomi di due giorni di sciopero dopo la chiusura delle scuole.
La sinistra non si arrende
Ora la partita si sposta a Palazzo Madama, dove la minoranza Pd ha un asset prezioso, una ventina di voti che possono fare la differenza perché cruciali per far passare o meno la legge. In sintonia con una lettera di Cuperlo, Speranza e una cinquantina di deputati, i senatori preparano sfilze di emendamenti sulla chiamata diretta degli insegnanti da parte dei presidi, sui precari di seconda fascia rimasti esclusi dal piano assunzioni, sulle «detrazioni fiscali garantite anche alle private e parificate che sono in gran parte dei diplomifici», per dirla con Miguel Gotor. «Riaffronteremo alcuni punti», promette la Boschi, che terrà le fila della trattativa finale, quella più difficile. Renzi fissa i punti fermi. «La scuola non sia terreno di scontro. Il blocco degli scrutini? Sarebbe un errore clamoroso. Di cosa si lamentano i sindacati che non scioperarono con la Fornero? Che mettiamo 3 miliardi nella scuola? Noi vogliamo presidi che non siano sceriffi o passacarte ma che si prendano più responsabilità».
Tempi contingentati
La prossima settimana dunque si lavora in Commissione al Senato, la corsa contro il tempo scatta da qui al 15 giugno, entro quella data va approvata la norma che contiene l’assunzione di 100 mila precari, oltre a una serie di novità non da poco. Che scatenano le proteste dentro e fuori il palazzo, dove i Cobas della scuola fin dalla mattina si fanno sentire con un sit in rumoroso davanti alle finestre di Montecitorio. «Con il voto di oggi non si conclude la battaglia», avverte minacciosa la Camusso.
Schiaffi e urla
Nell’emiciclo scene di ordinaria protesta: il coro di Sel «Scuo-la-pub-blica», i 5Stelle che coprono i loro banchi di lettere cubitali con la scritta «Fuori il Pd dalla Scuola». Dei big solo Enrico Letta arriva e vota sì, Bersani e Bindi non ci sono. L’aria si surriscalda quando termina il voto e tutti escono: rissa sfiorata tra un deputato grillino, Tofalo e uno del Pd, Marracu, sulle scale che portano ai bagni. Lo denuncia il pddì Miccoli in aula,Tofalo nega ma la Boldrini dispone un’indagine sull’episodio. Fuori al sit in volano i fischi, «uscite dal Pd», urlano i Cobas a Fassina che esce a sostenere la lotta di professori e studenti. «I sindacati hanno il diritto di portare fino alle estreme conseguenze la loro battaglia», infiamma gli animi il leader di Sel, Nichi Vendola. Solo dopo che chiuderanno le scuole, la riforma riceverà il timbro finale. 

Opposizioni appese alle regionali e all’economia

C’ è qualcosa di stanco, nel modo in cui la minoranza del partito fa l’opposizione a Matteo Renzi

di Massimo Franco Corriere 21.5.15

C’ è qualcosa di stanco, nel modo in cui la minoranza del partito fa l’opposizione a Matteo Renzi. Si assiste ad un canovaccio scontato, con numeri parlamentari che confermano una fronda in realtà meno corposa di quanto si potrebbe immaginare: quella emersa ieri sulla riforma della scuola è l’ultimo esempio. In parallelo, si invoca un’urgenza per chiarire identità e strategia del Pd, che però viene rinviata a dopo le elezioni regionali di fine maggio. Segno che si tratta di urgenza relativa; o comunque, che prima di trattare col premier i suoi avversari aspettano il voto e sperano in una vittoria risicata.
Ma è difficile che il governo esca sconfitto da quell’appuntamento. Il centrodestra versa in condizioni pietose, soprattutto Forza Italia. E, nonostante le tensioni a sinistra, e i sondaggi che danno il Pd in leggera flessione, le distanze con gli avversari rimangono nette. Renzi confida almeno in un 5 a 2 che gli consentirebbe di zittire i suoi critici e andare avanti. Anche se sa bene che la sfida vera non è quella. Si concentra sull’economia, sulla capacità di non pagare un prezzo troppo alto alla questione del buco delle pensioni e alla riforma scolastica.
L’insistenza di Silvio Berlusconi, ma anche del Movimento 5 Stelle e della Lega su un governo che non riesce ad abbassare le tasse, cerca di intercettare un malessere diffuso. Idem il martellamento sui rimborsi ai pensionati, con l’accusa di «prenderli in giro»; e di avere presentato il decreto che contiene l’ una tantum senza averlo nemmeno consegnato al Quirinale. «Questo governo ha aumentato la pressione fiscale. Con il mio esecutivo era arrivata a meno del 40 percento, oggi è oltre», ricorda Berlusconi, dimenticando però di avere portato l’Italia sull’orlo del baratro finanziario nel 2011.
Renzi può ribattere presentandosi come il premier che finalmente «ha fatto le cose»; ed è riuscito, così sostiene, a piegare l’Europa ad un’agenda economica che non prevede più solo misure di austerità ma anche per la crescita. E tende a dimostrare che anche gli inciampi più eclatanti non nascono da questa maggioranza, ma dagli errori del passato: nel caso della sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni, dalla riforma fatta dal governo Monti e firmata dal suo ministro Elsa Fornero.
Rimane il fatto che l’ una tantum data a una parte dei pensionati danneggiati alimenta lo scontento. Evita «punizioni» da parte dell’Ue nei confronti dell’Italia, ma impedisce anche di accelerare la ripresa. Nei prossimi dieci giorni, Renzi dovrà convincere gli elettori che non si poteva restituire tutto. Il rimborso totale, ha spiegato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, «avrebbe comportato una spesa in più pari a circa 17,6 miliardi». Insomma, sarebbero saltati i conti. Bisogna capire se basterà questo a placare lo scontento cavalcato dagli avversari. 



L’ira del premier: “La minoranza vuole solo farmi cadere”

di Francesco Bei, Goffredo De Marchis Repubblica 21.5.15

ROMA La scuola ormai c’entra poco, la posta in gioco — per entrambi i fronti — è tutta politica: la riconquista del Pd per i nostalgici della Ditta, la definitiva renzianizzazione del partito per il capo del governo. Il luogo dello scontro sarà palazzo Madama, dove i 23 senatori della minoranza, se restassero compatti, potrebbero in teoria mandare agli archivi la Buona scuola. Renzi è furente per quanto accaduto ieri in aula. Certo, i 38 dissidenti dell’Italicum si sono ridotti a 28 (29 con la Bindi), ma la ferita brucia lo stesso: «Gli siamo venuti incontro, abbiamo accettato molte modifiche, abbiamo persino ritirato l’articolo sul 5 per mille. E non hanno votato lo stesso. È evidente che puntano ad altro».
Gli occhi sono fissi sul Senato, è lì che i ribelli vogliono consumare fino in fondo la loro rivincita. Tanto più se le regionali dovessero risolversi con la perdita della Liguria e con un arretramento del Pd in termini di voti assoluti per via dell’astensionismo record. Perché è lì che la maggioranza è in bilico. E il dissenso appare più solido che a Montecitorio. A guidare la pattuglia dei ribelli ci sono i tre civatiani — Mineo, Ricchiuti e Tocci — e bersaniani irriducibili come Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca. Così la strategia di palazzo Chigi prevede anzitutto di assottigliare e dividere il blocco della minoranza. Separando chi punta realmente a migliorare il testo da chi, invece, «persegue solo l’obiettivo di far cadere il governo costruendo un partito dentro il partito». Il malumore dei renziani è a livelli di guardia. «Dopo il voto alle regionali - si sfoga Edoardo Fanucci, renziano della primissima ora - non è più prescindibile un chiarimento tra di noi. Non parliamo di Costituzione o di legge elettorale. Ogni provvedimento dell’esecutivo viene ostacolato da una corrente. Non può durare a lungo». Le contromisure al Senato sono già state studiate. Si punta anzitutto su quella parte di Area riformista interessata a consolidare un rapporto con il premier. «Claudio Martini è una persona autorevole - spiega Roberto Rampi, uno degli esponenti del- la corrente di mezzo tra sinistra e renziani - e può convincere molti a votare a favore se il testo sarà modificato. Alla fine scommetto che di quei 23 ne rimarranno al massimo 8». Per separare gli “irriducibili” dai “ragionevoli” Renzi ha già pronto un pacchetto di modifiche, discusse nei giorni scorsi da Matteo Orfini e Lorenzo Guerini con i sindacati. Compresa la Cgil. Un tris di emendamenti che il presidente del Consiglio si è tenuto nella manica per gettarli sul tavolo verde di palazzo Madama: saranno previsti criteri oggettivi per assegnare i premi - un tesoretto da 200 milioni - ai professori più meritevoli in modo da attenuare la discrezionalità dei presidi, e gli stessi presidi avranno meno libertà nella scelta degli insegnati; infine qualche ulteriore apertura ci sarà per una delle tante categorie di precari rimasti esclusi dall’infornata dei 160 mila.
E tuttavia, dopo tutte le mediazioni, esauriti tutti i tentativi di convincimento e se il dissenso dovesse restare consistente, molti renziani non escludono nemmeno di usare l’arma finale, quella fin qui smentita in maniera ufficiale: la fiducia. Il clima in effetti è già surriscaldato. Enza Bruno Bossio e Nico Stumpo, che ieri non hanno votato, avvertono: «In uno Stato democratico nessuna riforma può farsi senza il consenso». Anche da parte dei renziani la tensione si tocca con mano. E lo dimostra la sfuriata fatta ieri in aula dal solitamente diplomatico Lorenzo Guerini, vicesegretario Pd, a Gianni Cuperlo e agli altri della minoranza che chiedevano di intervenire, in sede di dichiarazione di voto, in dissenso dal gruppo. «Adesso basta, è inaccettabile che ogni passaggio qua dentro sia segnato da una dichiarazione di corrente!». Oltretutto gli esponenti della maggioranza accusano gli oppositori dem di essere venuti meno ai patti. «C’era un’intesa - rivela Anna Ascani -, un gentlemen’s agreement sottoscritto tra noi e loro. Se noi avessimo ritirato l’articolo sul 5X1000 loro avrebbero votato il provvedimento. Ma non l’hanno fatto: la verità è che or- mai non riescono a mantenere più nulla».
I renziani ritengono che la scelta di non votare la riforma sia stata presa proprio per coprire le divisioni interne alla minoranza fra dialoganti e duri. I primi favorevoli a sottolineare le modifiche ottenute nella discussione parlamentare, i secondi che puntavano a mettere in difficoltà il governo. Qualche strascico della discussione interna lo si è visto anche al momento del voto, quando un bersaniano come Enzo Lattuca, ad esempio, alla fine ha optato per il sì differenziandosi dagli altri 28. Pur firmando più tardi la lettera della minoranza ai senatori per spronarli alla pugna. Sono segnali di una sofferenza che lasciano intravedere sviluppi più grandi dopo le regionali. Lo stesso Lattuca, sospirando, ammette che esiste «un rischio di assimilazione progressiva della minoranza da parte di Renzi. Soprattutto se il premier continuerà a restare così sulla cresta dell’onda».



Fassina (PD) “Dovrò uscire dal partito se a Palazzo Madama non sarà modificata davvero”
I voti alle europee ricevuti su aspettative indefinite e ambigue su lavoro o scuola La mia uscita? Tra il popolo dem e il partito di Renzi, scelgo il primo

intervista di Giovanna Casadio Repubblica 21.5.15

ROMA «Veramente in piazza è stato contestato il Pd, non il sottoscritto». Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, è appena tornato dalla piazza in aula a Montecitorio. Non vota la riforma della scuola.
Fassina, i manifestanti le hanno gridato “lascia il Pd”. È arrivato il momento?
«Il passaggio ora al Senato del disegno di legge sulla scuola è decisivo per verificare se è reversibile lo spostamento del Pd dopo la svolta liberista sul lavoro e il segno plebiscitario sulla democrazia».
Rimanda la sua uscita. Ma è più fuori che dentro?
«Tra il popolo dem — abbandonato da un Pd geneticamente modificato — e il partito di Renzi, scelgo il primo».
Perché lega il suo addio al Pd alla riforma della scuola? La giudica una riforma di destra?
«Bisogna essere cauti nell’uso del termine riforma che ha perso il significato progressista avuto in una parte del Novecento. Temo che parlare di riforma della scuola sia improprio come lo è stato per la legge Fornero sulle pensioni, per la legge sul mercato del lavoro di Sacconi. Il ddl scuola, concentrando i poteri di chiamata dei docenti sul dirigente scolastico, incide sulla libertà di insegnamento. Senza un piano pluriennale di assunzione degli insegnati precari riproduce il dramma degli esodati».
Spera sia modificato al Senato?
«Assolutamente sì. Nonostante la contrarietà netta di alcuni di noi, per organizzare l’area del dissenso, in più di 30 non abbiamo partecipato al voto. Abbiamo rafforzato la battaglia al Senato unendo la minoranza dem».
Quali cambiamenti si aspetta?
«Su tre punti: cancellare i poteri dei presidi di chiamare e rimuovere dall’incarico i docenti; introdurre un piano pluriennale di assunzione degli insegnanti precari connesso con le uscite di pensionamento quindi senza oneri aggiuntivi; eliminare la detrazione fiscale per le secondarie superiori private».
Però potrebbe avere l’ok con l’appoggio di Verdini e company?
«Deve passare con i voti di tutto il Pd e dell’attuale maggioranza. Sarebbe altrimenti un fatto politico grave».
Il suo è un ultimatum?
«È una presa d’atto. Il programma elettorale votato da 8,6 milioni di elettori può essere archiviato da 2 milioni di voti al congresso del Pd? Il 40% di voti raccolti alle elezioni europee sono stati ricevuti dal Pd su aspettative indefinite e ambigue senza riferimenti specifici su lavoro o scuola. La contraddizione tra il mandato elettorale che ci è stato dato e il programma del governo Renzi, senza legittimazione elettorale, è questione rilevante di democrazia o capriccio del sottoscritto? Una parte del popolo dem si è allontanato, il Pd raccoglie sempre di più i voti dell’establishment e occupa lo spazio presidiato in Europa dalle destre merkeliane assenti in Italia».



Minoranza in trincea, rischio Senato per il premier
A Palazzo Madama dove la soglia minima è di 161 la maggioranza può contare su 175 senatori salvo defezioni

di Emilia Patta Il Sole 21.5.15

ROMA La riforma della scuola passa con la maggioranza assoluta a Montecitorio, non un voto in più non un voto in meno. «Trecentosedici sì è la maggioranza assoluta, per cui diciamo che è andato bene anche il voto sulla riforma della scuola», commenta la ministra per le Riforme e per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Che per svelenire il clima interno al Pd apre anche a possibili modifiche sui punti controversi nel prossimo passaggio in Senato: «Adesso c’è un altro passaggio significativo al Senato, quindi riaffronteremo alcuni punti che sappiamo essere ancora discussi», assicura Boschi. Eppure la tranquillità di facciata nasconde un vero e proprio allarme tra i renziani per il passaggio in Senato. Era infatti dal Jobs Act che una riforma targata Matteo Renzi non aveva un consenso parlamentare così basso alla Camera: 316 furono i sì nel novembre scorso sulla legge delega e 316 sono stati sul Ddl scuola. Due riforme con la R maiuscola che hanno oltre ai numeri altri due comuni denominatori: l’opposizione della minoranza bersanian-cuperliana del Pd e il successivo approdo a Palazzo Madama. Dove, com’è noto, la maggioranza si regge su una decina di voti di scarto e la sinistra del Pd è particolarmente compatta e agguerrita (in 24 firmarono il documento contro le riforme costituzionali). Per questo, al di là dei toni concilianti, tra i parlamentari renziani non si esclude la fiducia sulla “Buona Scuola” a Palazzo Madama. Anche se da Palazzo Chigi bocciano «voci» e «illazioni» e sottolineano che nessuno pensa alla fiducia sulla scuola.
Conti alla mano, nel Pd non hanno votato in segno di dissenso in 28 (40 nel complesso, ma molti erano in missione o assenti giustificati): un po’ meno dei 36 che non hanno votato la fiducia sull’Italicum (Enrico Letta, ad esempio, ieri ha votato) ma comunque un numero considerevole dentro il quale c’è un pezzo di Pd: gli ex segretari Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, l’ex capogruppo Roberto Speranza, l’ex sfidante alle primarie del Pd Gianni Cuperlo e personalità dell’era bersaniana come Alfredo D’Attorre, Nico Stumpo, Davide Zoggia e il sempre più in uscita Stefano Fassina. Insomma, nonostante i numeri si siano assottigliati rispetto al voto sull’Italicum, la riforma della scuola certifica la frattura tra i dem. «È la prova di un’opposizione a prescindere, un Vietnam strumentale e non di merito», sottolineano i renziani. Il riferimento è alla lettera dialogante con cui la sinistra (e tra le firme ce n’è anche qualcuna di chi ieri ha votato sì) riconosce i passi avanti fatti alla Camera con le modifiche introdotte in commissione e chiama i senatori ad impegnarsi per correttivi in 3 punti. Perché sulle due nuove modifiche chieste dalla minoranza per rivedere la chiamata diretta del preside (punto qualificante per Renzi della sua riforma) e sulle assunzioni per i precari di seconda fascia (qui è questione di bilancio pubblico) è chiaro che la porta del dialogo è chiusa. Ma l’eventuale resa dei conti con la sinistra del partito sulla scuola, e non solo, è a questo punto rimandata a dopo le regionali del 31 maggio. È evidente che l’esito del voto, con particolare occhio alla Liguria in bilico, influenzerà il comportamento di Renzi. Che comunque rivendica quanto fatto fin qui, dal Jobs Act all’Italicum alla responsabilità civile dei magistrati. Anche se non tutti sono d’accordo nel merito, ragiona il premier, «nessuno può negare che finalmente in Italia le cose si fanno, la politica ha ripreso slancio e il tempo delle chiacchiere è finito».
Intanto già da oggi l’incubo Senato comincerà a prendere forma, con l’arrivo del Ddl scuola in commissione Istruzione a Palazzo Madama: tre gli esponenti della minoranza dem (Martini, Mineo e Tocci), decisivi.



Il premier: «Il dissenso? Asciugato». E scommette sui numeri al Senato
Secondo il leader il dialogo ha funzionato. Il timore per l’astensionismo alle urne

di Maria Teresa Meli Corriere 21.5.15

Il voto di ieri, a Montecitorio, ha fatto registrare un numero minore di dissensi nel Pd rispetto all’Italicum. Il particolare non è sfuggito a Renzi, che ha confidato ai collaboratori: «L’opposizione interna si è asciugata. L’interlocuzione funziona».
ROMA L’annuncio della minoranza interna che promette di riprendere la battaglia sulla riforma della scuola al Senato non sembra preoccupare troppo Matteo Renzi.
L’idea del premier è quella di concedere due, tre modifiche in Commissione — di cui si è già discusso in questi giorni — e poi di non mettere necessariamente la fiducia sul provvedimento, che tornerà alla Camera.
Una decisione ufficiale su come agire ancora non c’è e non verrà comunicata adesso, anche se la minoranza, benché Palazzo Chigi smentisca, dà per scontato il ricorso al voto di fiducia.
Nessun eccesso di preoccupazione da parte di Renzi, comunque, anche perché il voto di ieri, a Montecitorio, ha fatto registrare un numero minore di dissensi rispetto all’Italicum. Particolare, questo, che non poteva certamente sfuggire al premier, il quale ha confidato ai collaboratori: «L’opposizione si è asciugata. L’interlocuzione funziona».
A preoccupare veramente Renzi sono invece i dati dell’affluenza alle urne. Se il sei a uno si dà per molto probabile,benché per scaramanzia non si dica troppo apertamente, sono altri i numeri che impensieriscono Palazzo Chigi. E riguardano la percentuale dei votanti. Un dato basso verrebbe interpretato come un primo segno di disaffezione al governo Renzi. A questo va aggiunto il timore che Raffaella Paita, anche in caso di vittoria, non raggiunga in Liguria il quorum necessario per governare da sola e sia costretta a chiedere aiuto al Nuovo centrodestra per formare la sua giunta perché Luca Pastorino ha già fatto sapere che lui non è interessato alla cosa.
Non è un caso, dunque, se ieri uno degli oppositori interni del premier, Vannino Chiti, abbia dichiarato: «La questione principale è la partecipazione alle regionali. Non funziona una democrazia con una bassa presenza di cittadini alle elezioni».
Comunque, anche un’estendersi dell’astensionismo non fermerà la corsa del presidente del Consiglio, che sembra molto determinato ad andare avanti lungo la sua strada: «Io mi sono assunto la responsabilità di governare il Paese e di decidere».
E di nuove decisioni per il futuro, Renzi ne ha in mente molte. Meno decreti legge, innanzitutto. E più decreti attuativi. «Dobbiamo semplificare il fisco — spiega — velocizzare i tribunali e mandare definitivamente in porto la riforma della Pubblica amministrazione. Io credo che se mettiamo ordine in tutto questo, in Europa non ci fermerà nessuno».
Ma il premier, a quanto pare, non ha rinunciato all’idea di affrontare pure la pratica della tv di Stato: «Naturalmente ora dovremo procedere anche con la Rai».
Questo per quanto riguarda i fronti esterni. Poi c’è quello interno, del Pd. La minoranza non sembra avere grande voglia di fare i bagagli e di uscire dal partito. Stefano Fassina sembra aver posticipato il suo addio a dopo l’approvazione della riforma della scuola al Senato. Michela Marzano prima di dare le dimissioni da deputata, annunciate con grande anticipo, aspetterà l’approvazione delle unioni civili.
Gli altri vogliono restare. E sono sempre più spaccati tra chi cerca il confronto con Renzi e chi vuole la guerriglia. A generare questa divisione, due motivi fondamentali. Il primo lo spiega il presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano, che fa parte dell’ala dialogante della minoranza: «Non ci si può muovere come un partito nel partito, non votando mai i provvedimenti del governo, allora si esce... Non capisco Speranza, non è da lui comportarsi così».
Già, «non è da lui», lo dicono in molti. Ma la verità è che l’ala più oltranzista della minoranza è tornata, di fatto, a essere guidata da Pier Luigi Bersani e dai suoi uomini (Maurizio Migliavacca). Loro aspettano al varco Renzi su un altro fronte: la legge sui partiti, per dare seguito all’articolo 49 della Costituzione, e, soprattutto, la revisione, elaborata dal tandem Lorenzo Guerini e Matteo Orfini della forma partito, che riguarda il Pd e il delicato nodo delle nuove regole delle primarie. 



E Renzi in versione mediatore prepara un vertice con i sindacati
L’incontro decisivo avverrà prima del voto finale

di Fabio Martini La Stampa 21.5.15

Matteo Renzi deciderà solo all’ultimo momento se entrare anche lui nella Sala Verde. Ma sulla trattativa con i sindacati la decisione più importante, il premier l’ha già presa da diversi giorni. Anche se non ancora formalizzata, la decisione è questa: nella prima settimana di giugno, dopo l’esame del ddl scuola da parte delle Commissioni del Senato e poco prima del decisivo passaggio in aula, le porte di palazzo Chigi si riapriranno ai leader del tre sindacati confederali per un confronto finale nel quale formalizzare eventuali, ulteriori modifiche. Ma la riapertura della Sala Verde (proverbiale luogo della concertazione), anche a Susanna Camusso è un segnale importante: la conferma che Renzi sulla scuola ha cambiato approccio rispetto alle ultime battaglie. È lui stesso ad ammetterlo: «Su questo tema non abbiamo fatto come con la legge elettorale, quando abbiamo detto “prendere o lasciare”, sulla scuola invece abbiamo ripetuto: “parliamone e decidiamo insieme”». Arrivando a pronunciare, a Rtl 102,5, queste testuali parole: «Chi se ne frega delle idee di Renzi! Se un’idea va cambiata, bisogna dimostrare che siamo affezionati alla scuola, non alle nostre idee».
Renzi per una volta si dimostra prudente, trattativista e comunque lascia aperta la strada a modifiche da parte del Senato (con successivo passaggio-bis alla Camera) per due ragioni, entrambe incoffessabili. La prima: il presidente del Consiglio ha preso atto che sulla riforma della scuola, i sindacati sono riusciti ad interpretare il “sentiment” nettamente prevalente tra gli insegnanti, dimostrando di essere altamente rappresentativi di una categoria con una forte influenza sociale (sui genitori). E d’altra parte la cronicizzazione del dissenso da parte della minoranza Pd (che ieri in gran parte non ha partecipato alla votazione finale alla Camera sul ddl-scuola) rende a rischio il passaggio al Senato. I senatori del Pd stabilmente schierati con la minoranza sono ventidue e se anche soltanto quindici di loro votassero a favore di emendamenti «mirati» contro il provvedimento, potrebbero cambiare la natura della riforma.
Tanto vale, si ragiona a palazzo Chigi, bruciare sul tempo i dissidenti e cambiare ancora qualcosa nel testo. Ma senza perdere la faccia. Ecco perché Renzi sottolinea le numerose modifiche già apportate al testo iniziale della maggioranza - sui poteri dei presidi, sul 5 per mille, ma non solo. Ma per decidere quanto aprire, Renzi aspetta il risultato delle elezioni Regionali del 31 maggio. Ben sapendo che anche nel fronte sindacale si stanno aprendo delle crepe. La Cgil ha indetto, ma senza la Cisl, uno sciopero di un’ora nei primi due giorni di scrutinio, ma ha rinunciato al blocco vero e proprio: «Sarebbe stato violare il Dna della Cgil - dice Giuliano Cazzola, dirigente ai tempi di Lama e Trentin - perché colpire utenze “sensibili” come ragazzi e le famiglie è sempre stato considerato un tabù intoccabile in tutte le Cgil».

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