lunedì 25 maggio 2015
Postmodernismo perpetuo: rivalutare la sofistica per continuare ad adorare in tutta pace l'esistente e a rendere impensabile ogni alternativa
Il linguaggio, la politica e noi. I sofisti hanno ragione
Si occupano delle parole che sono come un pharmakon diceva Gorgia,
come una medicina o iuna droga, sostanze che possono salare ma anche
uccidere Il mondo senza un senso assoluto, la verità è frutto di un negoziato
di Mauro Bonazzi Corriere La Lettura 24.5.15
I sofisti sono i perdenti della storia. Ne fa fede il termine stesso,
«sofista»: da esperto del sapere ( sophistes è imparentato con sophia ,
«sapienza») a poco più che ciarlatano. Sofista, oggi come ieri, è chi
gioca con le parole, chi imbastisce ragionamenti capziosi al solo fine
di prevalere in una discussione. Il giudizio di Aristotele è tombale: il
sapere dei sofisti è un sapere delle apparenze e dunque un’apparenza di
sapere. Un sapere illusorio, fatto di parole brillanti ma vuote:
fossero vissuti oggi, i sofisti imperverserebbero negli studi
televisivi, pronti a sostenere non importa quale tesi, capaci delle più
imprevedibili giravolte. Oppure, ma in fondo è la stessa cosa, li
troveremmo nelle stanze segrete della politica, impegnati ad ammantare
di belle parole i propositi non sempre nobili dei loro capi. Gli altri,
le persone per bene e i filosofi, fanno altro, si occupano di problemi
seri, e di cose reali.
La questione è però che anche i sofisti, spregiudicati e cialtroni
quanto si voglia, si occupano di cose reali. Si occupano delle parole,
che sono come un pharmakon , diceva il sofista Gorgia, come una medicina
o una droga, sostanze che possono salvare ma anche uccidere. A chi li
frequentava i sofisti promettevano che avrebbe imparato a padroneggiare
il linguaggio per affermarsi in tutte le situazioni — perché in una
società complessa non si prevale con la forza, ma con le parole.
All’inizio degli anni Novanta, sfumate le illusioni del comunismo, da
destra a sinistra tutti si dicevano liberali e tutti parlavano di
libertà, termini di per sé opachi, aperti a molteplici interpretazioni.
Alla fine, di queste parole si è appropriato Silvio Berlusconi: ha
impresso loro la rotazione che gli serviva e ha governato vent’anni. Le
parole contano e andare a lezione dai sofisti a volte conviene. Ma la
lezione dei sofisti non si esaurisce in questa dimensione pratica, per
cui importa solo il controllo concreto delle parole. Più interessante è
la riflessione sottotraccia.
Detto in sintesi, la filosofia è il grandioso tentativo di trovare il
senso della realtà. Ci siamo noi e c’è il mondo: il compito della
filosofia è scoprire il senso del mondo, mostrarne la razionalità e
offrirci una guida per le nostre azioni. Per i sofisti è tutto più
complicato: ci siamo noi e c’è il mondo, certo. Ma è sicuro che ci sia
un legame tra noi e il mondo? L’intuizione dei sofisti è tutta qui: è la
presa d’atto del rapporto problematico che separa noi e la realtà, i
soggetti e gli oggetti. La realtà che ci circonda è sfuggente, non è
dotata di senso univoco e tanto meno di un valore assoluto. Non si
tratta dunque di estrarre un senso dalla realtà; al contrario si tratta
di darle un significato e un valore — un significato e un valore umano.
In questo i sofisti fanno propria un’idea di fondo dei greci (ma non dei
filosofi greci): che il mondo non è qui per noi, ma che siamo noi a
doverci adattare ad esso. E per fare questo lo strumento di cui
disponiamo è il logos : i pensieri, i ragionamenti, le parole e i
discorsi.
Questo strumento che è il linguaggio può però essere usato bene o male, e
in entrambi i casi i sofisti hanno qualcosa da dire. Il linguaggio è
usato male quando viene sfruttato per giustificare abitudini e
pregiudizi, o ancora peggio rapporti di forza. È la legge delle tre «n»:
normale, naturale, normativo. Se fino a qui è stato normale fare così,
vuol dire che era naturale fare così; e se era naturale vuol dire che
era giusto: normale, dunque naturale, dunque normativo… Da che mondo è
mondo, le donne stanno a casa; e se così accade è perché è naturale che
sia così. E dunque è giusto che sia così. Ma perché poi? Si noti: i
sofisti non hanno tesi da sostenere, ma pregiudizi da smascherare.
Magari è giusto che le donne stiano a casa. Ma bisogna dimostrarlo.
L’effetto dirompente di un simile atteggiamento si manifesta soprattutto
nel campo della politica. Negli stessi anni dei sofisti, ad Atene aveva
trionfato una tragedia di Sofocle, che celebrava il nobile sacrificio
di Antigone, disposta a morire pur di rispettare i suoi ideali di
giustizia. Ma Antigone, per i sofisti, aveva sbagliato tutto, perché
aveva presupposto l’esistenza — ma perché poi? — di una giustizia divina
e assoluta, sulla cui base aveva regolato le proprie azioni. La
giustizia però non è una divinità: è quanto di più umano vi possa
essere, è il risultato di accordi e decisioni umane e fin troppo umane.
Peggio: la giustizia è l’utile del più forte, come Trasimaco spiega a
Socrate nella Repubblica di Platone. Questa è la realtà dei fatti: la
giustizia è il valore che regola i rapporti all’interno di una comunità.
Ma essa non è assoluta (vale a dire indipendente dagli e superiore agli
uomini) o neutra (vale a dire distaccata e imparziale): è piuttosto il
risultato dei rapporti di forza che attraversano una data società. La
giustizia è il sistema di regole che chi detiene il potere impone agli
altri per tutelare il proprio interesse.
Si pensi al grande scontro ideologico che ha dominato il secolo scorso,
quello tra comunismo e liberalismo. Per i comunisti giustizia era
un’equa ripartizione dei beni; per i liberali era il trionfo della
libertà. Ma perché poi, si chiede il sofista? Non è che i comunisti
sostenevano la loro idea perché adottavano il punto di vista del popolo,
desideroso di entrare in possesso dei beni dei possidenti? E i liberali
non peroravano forse la causa della libertà proprio per tutelare le
proprietà di quei possidenti? «A pensare male si fa peccato, ma spesso
ci si azzecca», verrebbe voglia di chiosare con un noto politico
italiano, che dei sofisti era evidentemente buon lettore.
Questo atteggiamento disincantato potrà spiacere per il suo cinismo
ostentato. Il mondo visto con le lenti dei sofisti è in effetti un mondo
ambiguo, faticoso, dove tutti hanno qualche ragione da far valere e
qualche interesse da difendere.
Potrà non piacere, ma l’esperienza internazionale insegna che conviene
tenerne conto: troppo spesso quando scoppiano rivolte o conflitti, in
Siria, in Libia, in Ucraina, ci si preoccupa di distinguere tra buoni e
cattivi, senza pensare alle conseguenze di quello che si sta facendo,
agli interessi e ai rapporti di forza in gioco. In certi casi almeno, i
buoni e i cattivi ci sono anche: ma il problema della politica è
dividere il mondo tra buoni e cattivi o risolvere i conflitti?
L’intuizione dei sofisti è insomma la presa d’atto della relazione
costitutiva tra il linguaggio e la politica. L’uomo è un animale
politico e la politica si fa prima di tutto con le parole: il linguaggio
è un fatto politico. E questo apre anche a una dimensione più positiva.
La lezione dei sofisti è anche un invito a farsi carico delle proprie
scelte in modo consapevole, a costruire insieme un mondo in cui ci si
possa ritrovare, uscendo dalla logica della forza.
Rinunciare alla pretesa di essere detentori di una verità assoluta non
vuol dire essere completamente privi della verità, come se non
esistesse. Vuol dire prendere atto che i punti di vista sono tanti e
tutti meritano di essere tenuti in considerazione. Quando il sofista
Protagora proclamava che «l’uomo è misura di tutte le cose», questo
voleva intendere: che ognuno di noi (l’uomo come individuo) ha delle
ragioni da far valere e che tutti insieme (l’uomo come umanità) possiamo
e dobbiamo trovare un accordo.
Bisogna insomma vigilare affinché le parole rimangano patrimonio
condiviso. Non sembra un problema centrale, e invece è fondamentale.
Allievo dei sofisti, lo storico Tucidide ha colto meglio di tanti altri
che la comunità umana poggia su basi fragili. Sul finire del V secolo
avanti Cristo la Grecia fu devastata dalle guerre civili: si assistette a
padri che uccidevano i figli e a figli che uccidevano i padri, a
supplici che venivano sterminati nei templi in cui si erano rifugiati,
al sovvertimento di qualunque regola morale e civile. Ma davvero
sconvolgente, riferisce Tucidide, è quello che era successo alle parole:
avevano perso un significato condiviso, venivano usate per fini
privati, per giustificare non importa quali azioni. La guerra civile, la
riduzione degli uomini a uno stato bestiale, passa anche per la
manipolazione delle parole.
Sono episodi lontani, che difficilmente si ripeteranno? Eppure Victor
Klemperer, un filologo tedesco, ha osservato che proprio
l’appropriazione delle parole aveva spianato il cammino di Adolf Hitler:
«Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza
saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco
rivelarsi l’effetto tossico». Ancora più eloquenti sono le parole di una
rifugiata del Ruanda: «Devo precisare un’osservazione importante: il
genocidio ha cambiato certe parole nella lingua dei rifugiati, e ha
decisamente fatto sparire il senso di altre parole, e colui che ascolta
deve essere attento a queste perturbazioni di senso». In Italia,
fortunatamente, siamo lontani da queste aberrazioni. Ma il rischio che
le parole si consumino, che perdano un significato condiviso non è per
niente remoto: cosa significa oggi «democrazia»? E «giustizia» o
«libertà»? Si badi: le parole sono sempre instabili e i significati sono
sempre il risultato di una negoziazione. Il problema è quando si perde
coscienza di questa instabilità. Rileggere quei cattivi maestri che sono
stati i sofisti potrà forse servire a evitare di ricadere in questo
errore.
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