giovedì 4 giugno 2015
Crumiri d'Italia: l'idillio renzista di Mastrocola che sogna i presidi della sua infanzia
Elogio del super-preside
Per noi prof avere un capo che valuta è una buona cosa Purché i criteri siano culturali e non puramente numerici
di Paola Mastrocola Il Sole Domenica 31.5.15
Il preside di una volta
Se mi volgo indietro a rivedere i miei anni di scuola, da allieva e da
insegnante, i presidi che ricordo meglio sono quelli con l’aria un po’
truce, che al mattino alle otto stavano in alto sulla scala ad
aspettarci, e se erano le otto e due minuti ci guardavano con l’aria
ancor più truce. Bastava quello, e di sicuro non facevamo, di quei due
minuti di ritardo, un’abitudine.
Oggi che le piazze si riempiono di gente che protesta per i superpoteri
del preside, mi va di parlare un po’ dei miei presidi, quando ero una
giovane insegnante. Ne ho avuti alcuni che mi convocavano per parlar di
letteratura. Magari scrivevano essi stessi saggi di critica letteraria, o
poesie e racconti. In generale, s’informavano dei programmi, a che
punto ero, cosa restava da fare, se in quinta sarei arrivata solo a
Montale o avrei parlato anche di Pasolini, e del Gruppo 63. A volte,
entravano in classe a sorpresa e dicevano: Mi permette di assistere a
una sua lezione? E si sedevano all’ultimo banco, buoni, attenti. A volte
ci chiedevano, a seconda della materia che insegnavamo, di presentare
un libro a scuola al pomeriggio, di scienze, di filosofia, di
letteratura.
Mi sentivo sotto pressione? Be’, certamente sì. Ma mi sentivo anche
coinvolta in un ambito un po’ più grande, che chiamerei genericamente
culturale. Inoltre, l’idea di essere osservata mi faceva bene, mi
spronava a far meglio. Per esempio, passavo i pomeriggi a preparare bene
le lezioni.
Avere un capo è semplicemente questo: sapere che qualcuno osserva,
guida, e giudica il nostro operato. È solcare mari aperti verso una
direzione ben precisa. O essere un aereo, consapevole che una torre di
controllo sta monitorando i suoi spostamenti nell’aria. Il contrario è
stare tutti immersi in una palude stagna (quale adesso mi sembra la
scuola), e lì sguazzare e mandar spruzzi a caso, a seconda di come a
ciascuno vien bene sul momento. A lungo andare, ci si sente inutili, e
sperduti nella nebbia.
Sembra un elogio della severità, dell’autoritarismo, lo so. Ma in realtà
dico una cosa molto banale e innocua: dico che lo sguardo su di noi ci
migliora. Se nessuno mai ci guardasse, vivremmo peggio. Saremmo più
sciatti, usciremmo di casa in pantofole e coi riccioli spettinati. O non
usciremmo nemmeno di casa, e passeremmo le nostre giornate sdraiati sul
divano a far niente. Invece per fortuna un altro, uno che fa un po’ da
capo, che è per noi un riferimento, ci guarda, e in qualche misura
determina le nostre azioni. In ogni lavoro c’è un capo. Negli ospedali,
per esempio, il primario deve far sì che il suo reparto funzioni, e se
qualcuno salta il turno viene redarguito. E se qualcuno salva un
paziente viene lodato. Ci sembra così assurdo?
La «misurazione»
La parola sbagliata è valutazione. Se ci sentiamo valutati, cioè
misurati, se ci viene attribuito un punteggio, reagiamo male. Ci
sentiamo come una pezza di stoffa, che viene valutata a metri. O un
sacco di patate, che va pesato. La «misurazione» è entrata pesantemente
non solo nella scuola, ma in tutti gli ambiti lavorativi della nostra
vita, e l’ha, secondo me, notevolmente peggiorata: intristita, direi.
Per cui, pur non avendo nei giorni scorsi aderito allo sciopero, devo
dire che capisco e condivido (per certi aspetti) la protesta dei miei
colleghi. Dovrebbe essere una protesta più generalizzata, però. Dovremmo
tutti quanti ribellarci alla misurazione, allargando il significato
della nostra ribellione a un’idea culturale, e non solo meramente a un
uso politico e alla rivendicazione dei soliti diritti.
Una scuola senza voti
Dovremmo liberare anche i nostri allievi dalla misurazione. Dovremmo
smettere di dare voti, di promuovere e bocciare e rimandare (o meglio,
sospendere il giudizio a settembre). Dovremmo smettere di dare valore al
titolo di studio. E cominciare a giudicare solo con lo sguardo e con le
parole, di lode o di rimprovero. Dovremmo smettere di aver paura delle
parole e adoperarle con coraggio, perché sono il nostro mezzo migliore, e
distintivo, di entrare in relazione con gli altri. Basterebbe usare
sguardi e parole, perché i ragazzi avessero la sensazione che la nostra
attenzione è su di loro; questo li spronerebbe a far meglio. Invece così
sentono solo incombere voti, punteggi, valutazioni: numeri, che essi
possono benissimo dribblare, ignorare, falsificare... Tanto, vedono che
il nostro sguardo è rivolto altrove.
Le parole fanno molto. Colpiscono, premiano. Se ben usate, aiutano il
nostro lavoro. Il silenzio in cui a scuola siamo immersi, invece, è
deprimente: mai nessuno apprezza, incoraggia o critica il nostro modo,
personale e unico, di essere insegnanti, siamo lasciati in balia di noi
stessi, nelle nostre barchette a remi, chi più chi meno tutti alla
deriva. (Veniamo, di contro, pesantemente diretti da impersonali e
costrittive regole burocratiche, che rischiano di affondare le
barchette...). Mi piacerebbe avere un capo, insomma. Lo troverei
normale. Intanto, mi piacerebbe che non si chiamasse, come nelle
aziende, dirigente. Che non fosse solo un burocrate che annota le ore di
presenza extra, perlopiù di puro volontariato; che non ci redarguisse
solo se non abbiamo compilato griglie o fatto il corso on line sulla
sicurezza; che non ci convocasse solo in presenza di qualche ricorso o
per la solita protesta del genitore che preme per la promozione del suo
rampollo. La scuola è molto di più, e non si risolve in pura
organizzazione e abilità gestionale. Mi dispiace vederla così abbassata e
svilita.
Il primato culturale
Sono contenta, quindi, che si pensi di dare più potere ai presidi. A
patto che si restituisca loro un ruolo prima di tutto culturale. Trovo
anche giusto che un capo possa scegliere i suoi collaboratori migliori,
per il bene dell’utenza (che smetterei di chiamare utenza, però: la
scuola non è solo erogazione di un servizio, come l’Enel o il Gas!). Non
so bene, però, in che modo compirà le sue scelte, questo è il punto: in
base a un’ennesima tavola numerica, temo, e a criteri che non so
proprio se avranno a che fare con il merito. La parola meritocrazia mi
pare oggi abusata, fraintesa, fuorviante e, sinceramente, irritante; di
colpo è venuta alla ribalta come un must, una vuota formula-litania di
cui sembra che la politica non possa più fare a meno. Temo che il merito
sfugga, per definizione stessa, a qualsiasi misurazione, ma sia
soprattutto immensamente lontano da qualsivoglia –crazia: il merito non
sarà mai valutabile e non andrà mai al potere. E di questo dovremmo
essere, al tempo stesso, rassegnati e fieri.
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