mercoledì 3 giugno 2015
Henri Bergson ideologo della guerra e precursore dell'interventismo democratico-umanitario di matrice atlantica
Arthur Moeller van den Bruck, ad esempio, aveva capito molto bene il ruolo di Bergson. Con lui giunge a maturazione una figura di intellettuale che avrà un grande successo nel XX secolo [SGA].
Henri Bergson: Le mie missioni nella Grande guerra, a cura di Roberto Peverelli, Medusa, pp. 128, € 14
Risvolto
Durante la Grande
Guerra Henri Bergson si reca per due volte negli Stati Uniti, dapprima
da gennaio a maggio del 1917, per incontrare il Presidente Wilson e
promuovere la causa dell’ingresso in guerra degli USA a fianco delle
potenze dell’Intesa, poi una seconda volta nella primavera del 1918, al
fine di persuadere gli americani a riaprire un fronte orientale in
Siberia dopo la pace di Brest-Litovsk e l’uscita dalla guerra della
Russia. L’agente Bergson si impegna nel suo ruolo diplomatico con esiti
alterni: il filosofo-diplomatico contribuisce probabilmente alla
decisione di Wilson di entrare in guerra, e forse proprio grazie alla
sua credibilità di filosofo, di testimone di verità; fallisce nella
seconda missione, forse davvero, come annota lui stesso, perché
l’interesse nazionale francese all’intervento americano e giapponese in
Siberia è troppo palesemente incoerente con l’immagine ideale che gli
americani hanno della Francia come patria dell’universalità. Agli occhi
di Bergson è assolutamente chiaro che nelle trincee del fronte
occidentale si affrontano la Civiltà e la Barbarie, spiritualità e
materialismo, il diritto contro la forza bruta. Certo, in queste pagine
il filosofo testimone di verità sembra dissolversi. Bergson manipola la
realtà inscrivendola all’interno di una macchina retorica che riutilizza
in modo consapevole categorie e concetti della sua filosofia;
conferisce alla guerra una dimensione metafisica; imprime una torsione
nazionalista ad alcuni concetti chiave della propria metafisica,
proiettando le distinzioni centrali del bergsonismo in un conflitto tra
nazioni, lungo una direzione non estranea agli sviluppi tragici della
storia europea dei decenni successivi.
Agente Bergson Il filosofo va alla guerra
Nel 1917 viaggiò negli Stati Uniti per convincere il presidente Wilson a schierarsi con l’Intesa
Raccolti i testi dei suoi incontri pubblici
di Maurizio Assalto La Stampa 3.6.15
Il filosofo dell’élan vital, quando la Francia chiamava, non faceva
mancare il proprio vitale slancio patriottico. Nel pieno della Grande
guerra - in un momento tra i più drammatici per il suo Paese aggredito
dalla Germania, fiaccato nel morale, minato da diserzioni e
ammutinamenti - Henri Bergson partì per gli Stati Uniti con la non
facile missione di convincere il presidente Woodrow Wilson a rompere la
tradizionale politica isolazionista e scendere in campo al fianco
dell’Intesa. Si fermò da gennaio a maggio del 1917, impegnandosi in una
serie di conferenze tra Washington e New York, e incontrando di persona
il presidente alla Casa Bianca, il 18 febbraio. Un mese e mezzo dopo,
gli Stati Uniti entrarono nel conflitto, mobilitando fino a due milioni
di soldati.
Testimone di verità
Sulla decisione di Wilson anche la visita dell’illustre ospite francese
dovette avere il suo peso. Nel corso del colloquio, durato circa un’ora,
questi non aveva mancato di vellicarne le aspirazioni da filosofo-re di
platonica memoria, rappresentandogli la possibilità di fare della
filosofia il centro propulsore della politica americana. Ma soprattutto
Bergson aveva messo in gioco tutto il suo prestigio di pensatore tra i
più acclamati e influenti dell’epoca - «io domando di essere ascoltato
come testimone: altro che verità non dico», aveva annotato negli appunti
preparatori all’incontro - per rassicurare l’interlocutore circa
l’adesione del suo governo alla formula wilsoniana «pace senza vittoria»
e più in generale sui nobili fini perseguiti dalla Francia, patria
della Ragione e della libertà.
Nelle conferenze tenute in America il filosofo riprese e sviluppò idee
che aveva fatto circolare fin dall’inizio del conflitto. I testi di
quegli interventi sono raccolti e tradotti per la prima volta in
italiano in un volume in uscita per le edizioni Medusa, Le mie missioni
nella Grande guerra, a cura di Roberto Peverelli (pp. 128, € 14).
Civiltà contro Barbarie
Al centro delle sue argomentazioni è la contrapposizione tra Francia e
Germania guglielmina come scontro tra Civiltà e Barbarie, spiritualismo e
materialismo, forza del diritto e forza bruta: ossia, in termini
bergsoniani, tra vita e materia, organico e meccanico. Come si vede - e
bene sottolinea Peverelli nella sua introduzione - «Bergson manipola la
realtà inscrivendola all’interno di una macchina retorica che riutilizza
in modo consapevole categorie e concetti della sua filosofia». Ma
allora che ne è della sbandierata professione di verità? Entriamo qui in
un territorio insidioso, dove il nesso tra filosofia e impegno politico
patriottico diventa sdrucciolevole, lasciando spazio alla retorica
propagandistica con tutte le inevitabili forzature e semplificazioni.
Non proprio una bella prova, a ripensarci col senno di poi, ma i tempi
erano quelli che erano (e anche i nostri, del resto…).
Va però detto che la «rotazione» impressa da Bergson alle idee
dell’Evoluzione creatrice (opera del 1907) non si risolve nella mera
operazione strumentale d’occasione, ma apre la strada alla loro
successiva applicazione dal campo della vita spirituale a quelli della
storia e dell’etica, sfociata nel ’32 (cinque anni dopo l’assegnazione
del Nobel per la letteratura) nel saggio Le due fonti della morale e
della religione. E quanto al cedimento ai sofismi retorici, che ne aveva
fatto per un breve periodo un esemplare della nuova specie umana da lui
spregiata, quella dell’Homo loquax, il filosofo stesso lo riconoscerà
in una conversazione: «Una sola volta ho fatto eccezione: durante la
guerra del 1914-18, ma nell’intenzione di essere utile alla mia patria».
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