martedì 9 giugno 2015

Il progetto geopolitico della Chiesa cattolica

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La geopolitica di Francesco e il dialogo
di Silvia Ronchey Repubblica 8.6.15
“UNA terza guerra mondiale combattuta a pezzi” l’ha definita Bergoglio nell’omelia tenuta sabato mattina allo stadio olimpico Koševo di Sarajevo durante l’oceanica messa gremita di reduci della guerra che ha insanguinato i Balcani negli anni ’90 del Novecento. Così, con l’usuale raffinatezza di un linguaggio solo apparentemente semplice, di una comunicazione intellettuale a più livelli, in contrapposizione a quello che ha definito “il clima di guerra della comunicazione globale”, papa Francesco ha fotografato lo scenario bellico su cui si è aperto il terzo millennio e rinominato il conflitto cui è stata applicata da molti, non ultimo il precedente papa, la contestabile nozione di scontro di civiltà.

“Scontro fra culture” al plurale, ha concesso Bergoglio, può se mai definirsi la guerra in corso. Non ci si aspetta di meno da un papa colto che ha fatto dell’understatement la propria cifra e del sottotesto il proprio mezzo; che ha adottato il motto di Ignazio di Loyola e di Hölderlin: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est , “Scavalco il grande confinandomi nel piccolo”; che battendosi contro il “tomismo decadente” ha rivendicato il manifestarsi di dio nella rivelazione storica; il cui programma affonda nei millenni e guarda all’eredità dell’ellenismo e di Bisanzio, dunque all’ecumenismo come priorità; che sul dialogo interconfessionale, prima e oltre che interreligioso, gioca la sua partita a scacchi col secolo.
Il pontificato di Bergoglio è in questo senso erede diretto di quello del “papa geopolitico” Wojtyla. Dopo il definitivo esaurirsi nel secolo breve del fantasma imperiale postbizantino il blocco ottomano caduto al suo inizio, nel conflitto innescato proprio a Sarajevo, quello russo-sovietico dissolto alla sua fine, con la caduta del muro e il golpe di Eltsin — il millennio si è aperto su un nuovo scenario di conflitto. La Terza Guerra Mondiale a Pezzi di Bergoglio è molteplice, scava più solchi, dischiude più fronti; faglie di attrito antichissime ricominciano a entrare in moto complesso; un unico macroscopico sussulto tellurico scuote i Balcani, il Caucaso, la Mesopotamia, dilaga nel Medio Oriente, destabilizza e arroventa pezzo a pezzo le aree geografiche in cui i due imperi avevano imposto identità unitarie trasversali sia alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, sia a quella tra religioni. È allora che si insinua nella fantasia collettiva l’idea di uno scontro frontale di civiltà tra oriente islamico e occidente cristiano.
Un’idea che Bergoglio rifiuta. Lo indica già in sé la mossa del cavallo con cui ha fatto slittare il discorso sull’islam allo scacchiere balcanico e partire il messaggio da Sarajevo, covo di antichi demoni e città martire dall’uno all’altro capo del Novecento, menzionando le sue diversità etniche e religiose, sottolineando la sua sofferenza storica, definendola “la Gerusalemme dell’occidente” con l’antico linguaggio che i papi rinascimentali applicarono a Costantinopoli nel primo frangente geopolitico che cinque secoli fa, a metà del quindicesimo, fece riflettere l’élite della curia romana sulla sorte degli equilibri mondiali alla prima islamizzazione ottomana dei Balcani.
Non è un caso che Bergoglio lanci il suo messaggio alla vigilia del G7, dove sia sulla questione ucraina, sia sui dossier Libia, Iraq e Siria il principale invitato è quello assente: il convitato di pietra Putin. Nella Terza Guerra Mondiale a Pezzi l’area slavo-balcanica interseca alla memoria islamica il più decisivo interlocutore di Bergoglio: la chiesa ortodossa, assuefatta a una perdurante fedeltà politica alla sfera russa, che già nel ’99 Julia Kristeva analizzava su Le monde partendo dalla millenaria alterità teologica tra chiesa d’oriente e d’occidente sintetizzabile nella contesa trinitaria sulla processione dello Spirito Santo. Il problema di Francesco, più ancora che quello della jihad, è quello del Filioque. È il risanamento dello scisma tra le chiese cristiane, prima ancora del patteggiamento tra cristianesimo e islam, a pesare nell’agenda del papa che per primo dopo Wojtyla, con raffinatezza gesuitica, ha ripreso il filo della geopolitica. 

La mano tesa del Papa alle Chiese d’Oriente e quella diatriba che dura da millenni
La lite sui calendari, incomprensibile per il mondo di oggidi Luigi Accattoli Corriere 13.6.15
C’è del sale e c’è del pepe nella battuta di papa Francesco sulla data della Pasqua. Il sale attiene alla buona volontà di arrivare a un accordo su una materia che divide ancora il mondo cristiano per ragioni ormai incomprensibili alla cultura contemporanea. Il pepe sta nel tono tranciante dell’accenno: come a dire che non solo è tempo di accordarsi, ma è già tardi.
Nel 2016 dovrebbe riunirsi a Istanbul un Concilio Panortodosso, cioè di tutte le Chiese dell’Ortodossia. Il pressing di Francesco sulla data della Pasqua — è almeno la quarta volta che ne parla in pubblico da quando è Papa — mira a facilitare il compito al moderatore della convocazione panortodossa che è il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo: Francesco con la sua mano tesa permette a Bartolomeo (con il quale ha ripetutamente parlato della questione) di presentare alle Chiese Ortodosse una via relativamente spianata.
Ma sarebbe ingenuo immaginare che l’accordo possa arrivare in tempi rapidi: sulla data della Pasqua si battaglia tra cristiani occidentali e orientali dalla fine del secondo secolo e pur trattandosi di una questione minore, non bisogna dimenticare che spesso ai religiosi appare grande ciò che alla ragione laica parrebbe piccolo.
Tre sono i problemi principali che finora hanno impedito un accordo: la diversa maniera del computo astronomico della data, il conflitto tra Chiese che seguono il calendario giuliano (risalente a Giulio Cesare) e quelle che hanno adottato il calendario Gregoriano (da papa Gregorio XIII), la novità di stabilire una data fissa per una celebrazione che gli antichi consideravano mobile al fine di farla coincidere con il momento «lunare» nel quale Cristo riunì i dodici per l’Ultima Cena.
I cristiani hanno sempre inteso celebrare la Pasqua nel giorno della risurrezione di Cristo, che i Vangeli collocano a metà del mese ebraico di Nisan: al 14° giorno di questo mese cadeva la Pasqua ebraica, che dà il nome a quella cristiana. Subito nacquero divergenze su come trasferire ai calendari ellenistico-romani una datazione del calendario ebraico.
Il conflitto aperto tra Oriente e Occidente, che nei primi secoli produsse lacerazioni e scomuniche, risale a papa Vittore I (189-199) e al suo antagonista d’Oriente che fu Policrate vescovo di Efeso: Vittore voleva che la Pasqua fosse celebrata sempre di domenica, comunque venisse calcolato il «14 di Nisan»; secondo Policrate invece la Pasqua si sarebbe dovuta celebrare in qualsiasi giorno uscisse da quel calcolo, fosse o no domenica.
Il Concilio di Nicea stabilì nel 325 che la Pasqua coincidesse con la prima domenica successiva alla luna piena che viene dopo l’equinozio di primavera dell’emisfero Nord. La pace seguita a questa decisione – mai accettata da tutte le Chiese, ma fatta propria sia da Roma sia dalle principali comunità orientali – fu infranta dalla riforma del calendario: da allora (1582) le Chiese dell’Ortodossia continuano a calcolare e celebrare secondo il vecchio calendario, mentre la Chiesa Cattolica – seguita in questo da quelle protestanti – ha cambiato passo e le due date non solo non coincidono ma vanno sempre più distanziandosi per effetto del progressivo allontanamento del computo giuliano rispetto al più corretto – anche se non perfetto – metodo gregoriano.
I tentativi di arrivare a un accordo durano da quasi cent’anni. Una prima proposta nacque in campo laico negli anni 20 del secolo scorso, per iniziativa della Società delle Nazioni che suggerì a tutte le Chiese di fissare la Pasqua alla domenica successiva al secondo sabato di aprile. La proposta trovò favore negli ambienti protestanti, ma lasciò fredda la Chiesa Cattolica e contrarie le Chiese dell’Ortodossia.
Toccò poi al Vaticano II rilanciare la questione affermando – nella Costituzione sulla Liturgia (1963) – che la Chiesa di Roma «non ha nulla in contrario a che la festa di Pasqua venga assegnata a una determinata domenica nel calendario gregoriano». Ovviamente già il solo richiamo al calendario gregoriano provocò lo sgradimento degli orientali.
Da allora passi in avanti se ne sono fatti un po’ ovunque, ma restano ancora varie resistenze. Favorevoli a un accordo che fissi la data sono sia i cattolici sia i protestanti. Ancora legati al computo di una data variabile dipendente dalle fasi lunari sono invece gli orientali.

La mossa geo-politica del Vaticano “Una data fissa per la Pasqua” L’invito del Papa agli ortodossi
L’apertura del Pontefice ai patriarchi di Costantinopoli e Mosca I due giorni oggi non coincidono a causa del calendario diversodi Franco Garelli La Stampa 13.6.15
Possono essere molte le ragioni sottese alla rivoluzionaria proposta di Francesco di stabilire una data fissa per celebrare la risurrezione di Cristo, in modo che ogni anno, nello stesso giorno, tutti i cristiani – cattolici, ortodossi o protestanti – vivano insieme la Pasqua.
La prima è dare un segno di concretezza ad una istanza ecumenica che da tempo fatica ad andare oltre le buone intenzioni, dal momento che si scontra con differenze teologiche e di tradizione cristallizzate nel corso della storia e che persistono anche nell’epoca attuale. Come si sa, per il mondo cattolico la Pasqua è una festa mobile, e la sua data cambia di anno in anno, in quanto connessa al ciclo lunare. La Pasqua si celebra la domenica successiva alla prima luna di primavera, e viene sempre compresa nel periodo tra il 22 marzo e il 25 aprile. Gli ortodossi invece seguono il calendario giuliano, che prevede la ricorrenza della Pasqua in una data diversa da quella celebrata in Occidente. Si tratta di opzioni e di tradizioni differenti che al mondo secolarizzato di oggi possono apparire poco rilevanti, ma che invece per il popolo dei fedeli e per i cultori della tradizione mantengono un forte valore identitario. In altri termini, dietro le diverse sequenze del calendario vi è l’affermazione di specifiche identità confessionali, che si sono delineate nel tempo e impediscono il dialogo e la convergenza tra quanti professano l’unica fede in Gesù Cristo. Di qui la mano tesa del Papa soprattutto nei confronti delle Chiese ortodosse, con la disponibilità a trovare una data comune, in modo che a Roma, a Costantinopoli e a Mosca venga celebrata la Pasqua ogni anno nello stesso giorno. Ciò per evitare, nelle parole di Francesco, che i cattolici e gli ortodossi celebrino la Pasqua in giorni diversi; che gli uni festeggino la più grande festa dei cristiani quando gli altri ritengono che il Signore non sia ancora risorto.
Ma oltre ad essere dettata da ragioni ecumeniche, questa apertura del Pontefice sembra far parte della grande attenzione che Francesco riserva a ciò che accade a livello religioso e politico nel Medio Oriente e nell’Est europeo. E’ grande la preoccupazione del Papa non soltanto per le sorti delle comunità cristiane in Paesi e in territori in cui l’islam è fortemente maggioritario e in cui esse hanno problemi di sopravvivenza fisica; ma anche per il ruolo che le chiese ortodosse possono avere in nazioni (come la Russia e l’Ucraina) che sono al centro di conflitti identitari ed etnici. Di qui, l’attenzione - che oggi si arricchisce di un nuovo gesto - nei confronti del Patriarcato di Mosca e delle Chiese ad esso collegate perché venga ribadita la comune radice cristiana, al fine di rafforzare l’azione di pace e di riconciliazione in terre ricche di contrapposizioni. Ciò vale soprattutto per l’Ucraina, dove la confessione maggioritaria (la chiesa ortodossa cattolica) è chiamata dal Pontefice a svolgere un ruolo di maggior mediazione politica grazie alla sua duplice identità «ortodossa» e «cattolica».
Come sempre dunque in questo pontificato, un gesto religioso (come appunto la proposta di una data fissa per la Pasqua per tutti i cristiani) ha anche una forte valenza geo-politica. 



Due chiese verso l’unità. Gli scogli lungo la strada
risponde Sergio Romano Corriere 14.6.15
In occasione della visita di Putin in Vaticano viene riproposto l’annoso problema del riavvicinamento delle due Chiese, quella ortodossa di Mosca e quella di Roma, cui sia Putin che il Papa terrebbero molto. In un breve intervento su Rai 3, l’esperto di questioni moscovite Fabrizio Dragosei ha accennato che fra gli ostacoli che si frapporrebbero al detto riavvicinamento, quelli dottrinari non sarebbero forse i più rilevanti. Di non minore portata sarebbero diversi contenziosi di natura economica. Potrebbe trattarne brevemente?
Giorgio Coccagna

Caro Coccagna,
Qualche anno fa un nunzio apostolico mi disse che il problema maggiore, nei rapporti della Chiesa cattolica con l’Ortodossia, fu sempre quello del primato del vescovo di Roma, vale a dire della posizione che il Papa avrebbe avuto nell’ambito di una Chiesa riunificata. Ma aggiunse che vi erano state alcune proposte e che la questione sembrava essere meno spinosa di quanto fosse stata in passato. Credo, tuttavia, che esista un altro problema, forse più delicato.
La storia della Chiesa cattolica è stata alquanto diversa da quella della Ortodossia. Mentre il papato romano voleva essere universale e cercò di non legare mai la propria esistenza a un rapporto fiduciario ed esclusivo con gli Stati in cui esercitava il suo apostolato, le Chiese ortodosse si proclamarono autocefale, e ciascuna di esse divenne l’autorità religiosa di una particolare comunità territoriale. Il mondo ne ebbe una dimostrazione quando Pietro il Grande, imitando alcune caratteristiche della Chiesa Anglicana, soppresse il Patriarcato di Mosca e creò un Santo Sinodo composto di ecclesiastici nominati dallo zar (fra cui il Metropolita di Mosca). Alla testa del Sinodo vi sarebbe stato, in rappresentanza dell’imperatore, un laico con la carica di Procuratore superiore. La rivoluzione del 1917 abolì il Sinodo e permise il ritorno al Patriarcato, ma le autorità sovietiche imposero alla Chiesa, per più di due decenni, misure fortemente restrittive e la rinchiusero in una sorta di sostanziale clandestinità. La situazione accennò a cambiare nel 1941, quando Stalin capì che la Chiesa russa poteva assicurare allo Stato, durante la Grande guerra patriottica, una maggiore partecipazione popolare. Pagò il debito, dopo la fine del conflitto, permettendo alla Chiesa ortodossa d’impadronirsi dei beni degli uniati (i greco-cattolici) in quei territori dell’Ucraina occidentale che erano stati per molto tempo polacchi o austriaci.
Qualcosa del genere accadde anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Boris Eltsin cercò di lusingare Roma restituendo agli uniati i beni perduti cinquant’anni prima; ma fu largo di concessioni, anche economiche, al Patriarcato e alla Chiesa ortodossa. La Chiesa moscovita gliene fu grata ristabilendo con lo Stato russo un rapporto simile, per molti aspetti, a quello instaurato da Pietro il Grande. I nuovi esponenti dello Stato russo, spesso usciti dai ranghi del partito comunista, divennero quasi tutti ferventi ortodossi dando prova di zelo religioso nelle pubbliche funzioni. Le ricordo, caro Coccagna, che i solenni funerali di Eltsin, nell’aprile del 2007, ebbero luogo a Mosca nella Chiesa di Cristo Salvatore, l’enorme edificio sulle rive della Moscova che era stato costruito agli inizi del Novecento in memoria della vittoria su Napoleone e che Stalin aveva fatto distruggere negli anni Trenta con una spropositata dose di dinamite.
Fra Chiesa e Stato in Russia vi sono quindi rapporti di reciproca convenienza non troppo diversi da quelli che nell’Impero bizantino andavano sotto il nome di «sinfonia». La Chiesa benedice lo Stato ogniqualvolta il regime ne ha bisogno, e lo Stato asseconda volentieri la Chiesa quando le permette di esercitare una sorta di monopolio religioso e di vigilare affinché la Russia non ceda ai costumi «immorali» diffusi ormai nel peccaminoso Occidente. Se il dialogo fra il Patriarcato di Mosca e la Santa Sede romana continuerà, sarà interessante scoprire quali siano i punti su cui le due Chiese possono accordarsi e quelli su cui continueranno a dissentire.  

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