giovedì 4 giugno 2015
L'epistolario Einstein-Born
Albert Einstein, Max e Hedwig Born: Scienza e vita. Lettere 1916-1955, a cura di Mauro Dorato, traduzione di Giuseppe Scattone, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI),pagg. 290, € 28,00
Risvolto
In questo scambio epistolare tra due giganti
della fisica del Novecento sono riassunte le grandi difficoltà
interpretative del formalismo quantistico, ancora oggi oggetto di vivaci
dibattiti. Mentre Einstein riteneva che la meccanica quantistica nella
sua interpretazione standard fosse incompleta, Born, che propose per
primo l'interpretazione probabilistica della funzione d'onda, era in
profondo disaccordo proprio sulla necessità di modificare la teoria
introducendo nuove variabili da essa non descritte. Poiché questo
straordinario dibattito verteva sui fondamenti concettuali della nuova
meccanica quantistica, esso aveva un carattere che si può senz'altro
definire filosofico. In più, l'epistolario chiamava in causa anche
problemi umani, politici e sociali profondamente radicati nel periodo
storico che va dal 1916 al 1955. Il titolo "Scienza e vita" è quindi
quanto mai appropriato per dar conto dell'inestricabilità dei problemi
scientifici con quelli filosofici in senso lato. Presentazione di
Bertrand Russel. Introduzione di Werner Heisenberg.
Born e Einstein Uomini e «quanti»
L’epistolario tra i due amici scienziati è uno dei documenti storici più importanti del XX secolo. Copre quaranta anni cruciali fino al ’55
di Vincenzo Barone Il Sole Domenica 31.5.15
«Dio non gioca a dadi col mondo»: è la celebre espressione con cui Albert Einstein era solito criticare il carattere probabilistico della meccanica quantistica. La frase ricorre per la prima volta in una lettera indirizzata nel dicembre 1926 all’amico e collega Max Born (che la pensava in maniera opposta): «La meccanica quantistica è degna di ogni rispetto – scriveva Einstein –, ma una voce interiore mi dice che non è ancora la soluzione giusta. È una teoria che ci dice molte cose, ma non ci fa penetrare più a fondo il segreto del gran Vecchio. In ogni caso, sono convinto che questi non gioca a dadi col mondo». Einstein avrebbe in seguito usato la stessa metafora in molte altre occasioni (guadagnandosi una volta l’altrettanto famosa replica di Niels Bohr: «Smettila di dire a Dio che cosa deve fare!»). Nel 1944, quando nessuno ormai metteva in dubbio la validità e la coerenza della teoria quantistica, scrisse ancora a Born: «Tu ritieni che Dio giochi a dadi col mondo; io credo invece che tutto ubbidisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive che cerco di cogliere per via furiosamente speculativa…. Nemmeno il grande successo iniziale della teoria dei quanti riesce a convincermi che alla base di tutto vi sia la casualità, anche se so bene che i colleghi più giovani considerano quest’atteggiamento come un effetto di sclerosi».
L’aspetto interessante della faccenda è che il caso e la probabilità avevano fatto la loro comparsa in fisica atomica proprio con i lavori di Einstein sull’emissione e l’assorbimento della luce. Nelle sue intenzioni, l’apparizione di questi sgraditi ospiti doveva essere temporanea, in attesa di una teoria più avanzata che li eliminasse. «L’idea che un elettrone esposto a una radiazione possa scegliere liberamente l’istante e la direzione in cui spiccare il salto è per me intollerabile», confessò nell’aprile 1924 al solito Born, aggiungendo che se le cose fossero state davvero così, avrebbe preferito fare il “biscazziere” invece che il fisico. Born lo deluse profondamente, perché fu proprio grazie a lui (e al suo giovane collaboratore Werner Heisenberg) che la probabilità si insediò stabilmente nella fisica. Fu Born a suggerire che la funzione d’onda quantistica avesse un significato probabilistico, cioè fornisse solo la probabilità di trovare una particella in un certo punto dello spazio (per questo contributo egli ricevette – piuttosto tardivamente – il premio Nobel nel 1954).
Le lettere citate fanno parte dell’epistolario Born-Einstein, uno dei documenti più importanti della storia culturale del XX secolo. Pubblicato originariamente nel 1969 con i commenti dello stesso Born, il carteggio è ora riproposto al lettore italiano, dopo molti anni di assenza dalle librerie, dalla casa editrice Mimesis, con una nuova prefazione di Mauro Dorato. I Born che dialogano con Einstein sono in realtà due, perché, oltre a Max, c’è la moglie Hedwig, donna di grande tempra e notevole spessore intellettuale, protagonista di alcuni degli scambi più gustosi (e più profondi) con Einstein. Come indica il titolo del libro, Scienza e vita, nelle lettere non troviamo solo il dibattito scientifico-epistemologico, ma anche – pienamente dispiegata – la ricca personalità dei tre corrispondenti e, in trasparenza, le vicende storiche di un quarantennio cruciale (il primo dopoguerra, Weimar, l’antisemitismo, il nazismo, la seconda guerra mondiale, la questione della Palestina, l’inizio dell’era atomica).
Sebbene l’epistolario rappresenti anche un’occasione per scoprire la straordinaria - ma poco nota al pubblico - figura scientifica e umana di Max Born, è inevitabile che l’attenzione di chi ne scorre le pagine sia attratta soprattutto da Einstein. Dal dialogo a distanza con i coniugi Born emergono con chiarezza le sue opinioni politiche – l’iniziale simpatia per la rivoluzione bolscevica, l’antinazionalismo, il pacifismo, la repulsione maturata nei confronti della Germania e del popolo tedesco, la critica alla politica estera americana –, e gli aspetti fondamentali del suo carattere – l’indole solitaria e il desiderio di non lasciarsi dominare dagli affetti e dai sentimenti personali. Si veda, a questo proposito, il modo in cui all’inizio del 1937 comunica di sfuggita, all’interno di una lunga lettera dedicata prevalentemente a questioni di politica accademica, la notizia della scomparsa della seconda moglie Elsa: «Me ne sto come un orso nella tana, e durante la mia vita movimentata non mi sono mai sentito tanto a casa mia. Questa orsaggine si è accentuata dopo la morte della mia compagna, che era più di me legata agli altri esseri umani». Nel suo commento, Born rimarca il “singolare” atteggiamento di Einstein. «Nonostante la sua gentilezza e socievolezza e il suo amore per l’umanità», osserva, «egli era completamente distaccato dal suo ambiente e dalle persone che ne facevano parte». Non mancano neanche gli esempi della leggendaria irriverenza del creatore della relatività: nel 1944, all’amico Max, che in una conferenza ha assunto posizioni empiristiche distaccandosi dalla fisica più speculativa coltivata in passato, ricorda il proverbio «Giovani mignotte, vecchie bigotte», e aggiunge: «Non posso credere sul serio che tu sia arrivato a far parte con pieno diritto di questa seconda categoria».
Le ultime lettere del carteggio, scritte tra la fine del 1954 e l’inizio del 1955, accennano alla polemica che si era scatenata attorno a un’altra famosa affermazione di Einstein («Se tornassi giovane, non cercherei di diventare uno scienziato; sceglierei piuttosto di fare l’idraulico o l’ambulante»). «Gli scrivani al soldo di una stampa addomesticata – scrive Einstein a Born – hanno cercato di attenuare la mia dichiarazione… Ciò che volevo dire era solo questo: nelle condizioni attuali, sceglierei un mestiere in cui il guadagnarsi il pane non avesse niente a che vedere con la ricerca della conoscenza». Il suo pensiero non era rivolto alla bomba atomica, come alcuni pensarono, ma alla persecuzione maccartista degli intellettuali. Qualche giorno dopo, un’associazione di idraulici gli inviò la tessera di membro onorario.
Einstein e Bohr Il problema non è l’indeterminismo
di Vincenzo Fano Il Sole Domenica 31.5.15
Nel ventennio dal 1905 al 1925, Albert Einstein ha dato almeno dieci
contributi alla fisica, ognuno dei quali avrebbe meritato il premio
Nobel. Dopo questi notevoli risultati, è opinione comune che egli non
abbia accettato la nuova teoria dei quanti, sviluppatasi nella seconda
metà degli anni Venti, per una mancanza di comprensione: in altre
parole, egli sarebbe stato accecato da vecchi pregiudizi, che gli
avrebbero impedito di comprendere la nuova fisica. Molti conoscono il
famoso articolo che un Einstein ormai “anziano” dal punto di vista
scientifico pubblicò nel 1935 assieme a Podolsky e Rosen (e chiamato
dunque per brevità EPR), dove provò a dimostrare che la meccanica
quantistica è una teoria incompleta. Non incompleta nel senso in cui
ogni teoria umana è incompleta, cioè che non è la teoria ultima e
definitiva, ma nel senso di non essere in grado di spiegare parte di
quegli stessi enti che essa postulava. Anche nei confronti di tale
ulteriore contributo dello scienziato tedesco c’è stato un generale
atteggiamento di sufficienza.
In realtà sappiamo ormai bene che proprio muovendo da EPR John Bell
(1964) formulò la sua famosa disuguaglianza, la cui violazione è stata
sperimentalmente confermata. Da qui negli anni Ottanta sono nate da un
lato le riflessioni filosofiche sulle conseguenze di tale risultato per
la nostra immagine del mondo, dall’altro l’intero campo degli studi
sull’informazione e computazione quantistica.
Perciò anche quest’altro contributo di Einstein, che nel 1935 aveva 56
anni, sarebbe forse stato da premio Nobel. Bisogna però ricostruire il
pensiero del grande fisico tedesco su tale argomento così delicato e
importante. In questo compito ci soccorrono gli splendidi saggi dello
storico e filosofo della fisica americano Don Howard, tradotti in
italiano per la prima volta. Ma andiamo con ordine.
Il primo storico della scienza a occuparsi con profondità della genesi e
del significato dell’EPR è stato Max Jammer, che ha dato il via a tutti
gli studi successivi. Jammer individua due fasi nell’atteggiamento di
Einstein nei confronti della nuova teoria: in un primo tempo, nei
convegni Solvay del 1927 e del 1930, egli avrebbe tentato di dimostrare
che le relazioni di indeterminazione di Heisenberg sono false, quindi in
questa fase egli avrebbe provato a confutare la meccanica quantistica.
In un secondo tempo, invece, dopo il fallimento clamoroso di questi
sforzi, tutti smontati dall’acume di Niels Bohr, egli si sarebbe
dedicato alla prova che la teoria è incompleta, come ad esempio nel
famoso saggio EPR del 1935.
Tuttavia nel frattempo lo scavo delle fonti einsteiniane era andato
avanti, e nel 1986 usciva il fondamentale libro di A. Fine, Il gioco
pericoloso, che metteva in luce il fatto importante che Einstein non era
soddisfatto della versione stampata di EPR, la cui stesura è da
attribuire all’allora giovane fisico russo Boris Podolsky.
L’indagine storica di Howard va molto oltre quella iniziata da Fine.
Egli, infatti nel lungo saggio Nicht sein kann was nicht sein darf:
sulla preistoria dell’EPR, 1909-1935. Le prime preoccupazioni di
Einstein sulla meccanica quantistica dei sistemi composti mostra tra
l’altro che il problema della non-separabilità dei sistemi quantistici
aveva preoccupato Einstein fin dal 1909. Inoltre tutto l’attacco del
fisico tedesco alla meccanica quantistica, inclusi i suoi primi
tentativi di confutazione dal ’27 al ’30, nel dibattito con Bohr, va
letto in questo senso. Così Howard ha completamente reinterpretato la
celebre discussione fra i due grandi della fisica del Novecento,
mostrando che la versione proposta da Jammer, che si basa soprattutto
sulla presentazione di Bohr scritta venti anni dopo, è perlomeno
parziale. Ciò che Einstein non ha mai accettato della nuova teoria è
proprio la non-separabilità, che con il suo fiuto magistrale aveva già
percepito nel 1909. Come abbiamo detto, egli era infatti convinto che la
separabilità è una condizione necessaria per fare fisica.
Negli studi su Einstein e la meccanica quantistica i saggi di Howard
hanno fatto scuola, modificando decisamente l’immagine proposta da
Jammer. Basta prendere in mano il bel libro di Home e Whitaker (2007),
che accoglie pienamente la nuova lettura di quel dibattito.
Ciò malgrado nell’immaginario collettivo il rapporto fra Einstein e la
meccanica quantistica viene spesso ricondotto alla famosa frase che
compare in una lettera a Born del 1926: «La meccanica quantistica esige
molta attenzione. Ma una voce interiore mi suggerisce che non è ancora
la cosa reale. La teoria offre molto, ma difficilmente ci avvicina al
segreto del Vecchio. In ogni caso, io sono convinto che Lui non giochi a
dadi». In realtà abbiamo visto che il vero problema di Einstein non era
tanto l’indeterminismo, come suggerito dalla metafora del gioco dei
dadi, quanto la separabilità. Certamente Einstein avrebbe preferito
un’ontologia determinista a una indeterministica, però era convinto che
la violazione della separabilità avrebbe impedito di fare fisica, ma non
quella del determinismo.
Pubblichiamo qui sopra un estratto dell’introduzione ai saggi di Don
Howard, Anche Einstein gioca a dadi. La lunga lotta con la meccanica
quantistica , Carocci, Roma, pagg.320, € 26,99. In libreria dal 28
maggio e tradotti per la prima volta in italiano.
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