giovedì 4 giugno 2015

Lutero tra medioevo e Riforma: "L'autorità secolare"


Martin Lutero: L’autorità secolare, fino a che punto le si debba ubbidienza (1523), a cura di Paolo Ricca, traduzione di Saverio Merlo (con testo tedesco a fronte), Torino, Claudiana, pagg. 205, € 19,00


Risvolto
Il Lutero moderno accanto al Lutero ancora parzialmente medievale La concezione della libertà I primi passi verso ciò che oggi chiamiamo "laicità"
Pubblicata nel 1523, L'autorità secolare esprime l'etica politica di Lutero aiutandoci a comprendere il rapporto tra la dura posizione presa due anni dopo nella guerra dei contadini, quella precedentemente illustrata nella Libertà del cristiano, vero "manifesto" della Riforma, e le più tarde riflessioni critiche.
"L'autorità secolare è un frutto maturo e rappresenta un punto fermo nella visione luterana della natura del potere politico, della posizione e della funzione della comunità cristiana nella società, del comportamento cristiano nei confronti dell'autorità costituita e della sua responsabilità nella gestione della cosa pubblica". 

Contraddizioni di Lutero Il rovesciamento della coscienza
di Massimo Firpo Il Sole Domenica 31.5.15

Fu il successo stesso della Riforma a imporre a Lutero l’esigenza di misurarsi con la politica, di definirne la natura, i compiti, i limiti. E nel farlo, tutto immerso com’era nel mondo monastico e scolastico dal quale proveniva, il riformatore sassone guardò al passato, servendosi di concetti ormai inadeguati alle nuove realtà politiche e istituzionali e, ancor più, alle dirompenti lacerazioni religiose innescate dalla sua stessa protesta: la società cetuale intesa come corpus christianum, la netta separazione tra potere temporale e potere spirituale, l’origine divina di entrambi, il fondamento teocratico dell’ordine sociale.
Il 31 ottobre del 1517 aveva affisso le 95 tesi a Wittenberg, nel ’20 aveva pubblicato i suoi scritti più celebri, La libertà del cristiano, Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa, nel ’21 era stato condannato da papa Leone X con la bolla Exsurge Domine, che aveva dato pubblicamente alle fiamme con un gesto che ne sanciva la definitiva rottura con Roma. Convocato da Carlo V alla dieta imperiale di Worms, alla richiesta di ritrattare le sue dottrine aveva risposto che, se non si gli fosse dimostrato Bibbia alla mano che sbagliava, non avrebbe potuto negare ciò che la coscienza gli imponeva di credere. Quando scriveva quel libro, insomma, Lutero era al tempo stesso un eresiarca e un ribelle messo al bando sia dalla Chiesa sia dal sacro romano impero, e solo la protezione dell’elettore di Sassonia Federico il Saggio lo metteva al riparo dal patibolo.
Chiarire quali fossero i poteri e i limiti dell’autorità secolare, insomma, era in quel momento una questione cruciale. Come spiega assai bene Paolo Ricca nell’introduzione, due erano i principi enunciati in quelle pagine, in piena coerenza con l’assoluta distinzione tra spirituale e carnale, divino e terreno, che Lutero aveva teorizzato nella Libertà del cristiano: «Un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa, e non è sottoposto a nessuno; un cristiano è un servo volonteroso in ogni cosa, e sottoposto ad ognuno». Ne scaturiva una concezione politica in base alla quale il potere secolare era stato istituito da Dio per porre un freno ai malvagi e tutelare il vivere civile; tutti dovevano quindi ad esso un’assoluta obbedienza gerarchica, il cui unico limite consisteva in quella inviolabilità della libertà spirituale di ciascuno che aveva consentito, anzi imposto a Lutero stesso di non obbedire a Carlo V, suprema autorità politica della cristianità.
Non stupisce che questa limpida e astratta costruzione dovesse misurarsi in breve tempo con profonde contraddizioni di fronte alle urgenze della concreta e mutevole realtà politica. Se infatti nel ’23 Lutero si preoccupava di garantire libertà d’azione e possibilità di espansione a una Riforma ancora minoritaria, di lì a poco si sarebbero presentati sulla scena anche altri protagonisti della grande crisi religiosa del secolo, come gli anabattisti per esempio, che traevano spunto dal suo messaggio per estenderne le istanze di rinnovamento anche sul terreno sociale e politico, fino all’esplosione rivoluzionaria della grande rivolta contadina scatenatasi in Germania nel 1524­25. Durissima fu la risposta di Lutero, che esortò i principi a non avere pietà nel reprimere e scannare quei sediziosi che ardivano servirsi della parola di Dio per istanze tutte terrene, dimentichi del fatto che il cristianesimo autentico è e deve essere solo croce e sofferenza.
Non solo, ma pochi anni dopo il consolidamento della Riforma gli fece mutar parere – sia pure controvoglia – anche sull’inviolabilità della coscienza e il fido Melantone poté teorizzare il cosiddetto «diritto a riformare», in base al quale un principe cristiano non doveva tollerare che nei suoi dominii si praticassero «culti empi», e cioè la fede cattolica; e se l’imperatore organizzava una Lega per debellare la Riforma, ai principi luterani era lecito fare un’eccezione al dovere di obbedienza e scendere in guerra contro il loro legittimo sovrano in quanto alleato dell’Anticristo papale. Erano stati loro del resto, in barba al principio della non ingerenza del potere secolare nelle cose di fede, a guidare il processo di riforma ingoiando enormi proprietà ecclesistiche e impadronendosi dei poteri della Chiesa laddove essa era crollata. La rigorosa teoria politica luterana, insomma, non avrebbe tardato ad attenuare le distinzioni nette tra buoni e malvagi, tra spirituale e terreno su cui si basava. Il discorso tutto teologico che traeva dalla Bibbia i principi con cui il mondo e gli uomini dovevano essere governati non poteva esimersi nella realtà – come sempre – dall’adattarsi ai tempi, all’immane dislocamento di poteri in corso, alle contingenti opportunità politiche. E, com’è noto, pressoché illimitata è la capacità dei teologi di piegare la parola di Dio a ciò che di volta in volta conviene, tanto più in un universo culturale in cui teologia e politica erano sempre due inscindibili facce della stessa medaglia.
Lo dimostra il totale capovolgimento dell’intangibilità della coscienza individuale rivendicata dal primo Lutero nel dovere di adeguarsi alla religione del principe che verrà ufficialmente sancito alla pace di Augusta del 1555. Dieci anni prima, nel 1513, Niccolò Machiavelli aveva teorizzato con spregiudicata lucidità una politica tutta diversa, anzi antitetica a quella di Lutero, totalmente esente da ogni fondamento religioso, in cui diventava addirittura lecito «per mantenere lo stato operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione». Principi poco edificanti, non c’è dubbio, ben più carichi di modernità però rispetto al pensiero tutto medievale e tutto teologico di Lutero, volto alla costruzione e preservazione di un ordine immobile. I fondamenti delle moderne democrazie, infatti, non scaturirono dal principio della libertà del cristiano, ma piuttosto dagli aspri e tortuosi percorsi – segnati da conflitti, rivolte e rivoluzioni, da re decapitati e “troni vuoti” – che segnarono le origini del contrattualismo politico, di un potere cioè le cui base poggiavano in terra anziché in cielo. 

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