Guerra di Spagna, tra due fronti
domenica 7 giugno 2015
Un pioniere spagnolo della teoria del totalitarismo
Manuel Chaves Nogales: A ferro e fuoco, edizioni laNuovafrontiera, pp. 336, e 16
Risvolto
"A ferro e fuoco" è il titolo che Manuel Chaves Nogales ha dato a una
raccolta di nove racconti sulla guerra civile spagnola. Nelle pagine del
libro l'autore ritrae con maestria un Paese che, dopo il crollo della
Repubblica, è attraversato da bande di avventurieri che in nome
dell'ideologia sono pronte a compiere le più nefande efferatezze. Nelle
sue parole però non c'è nessuna traccia di un'ipocrita equidistanza, ma
solo la tensione caratteristica del buon giornalismo che si batte per la
ricerca della verità. "A ferro e fuoco" è un'opera fondamentale, che
s'inserisce nella tradizione di "Omaggio alla Catalogna" di George
Orwell, necessaria ora più che mai per rileggere, sotto una nuova luce,
la recente storia d'Europa.
Guerra di Spagna, tra due fronti
Il cronista Chaves Nogales: chiunque vincerà, ridurrà il mio popolo in schiavitù
di Sergio Romano Corriere 6.6.15
Dopo un lungo letargo, brevemente interrotto dalla guerra cubana contro
gli Stati Uniti nel 1898, la Spagna domina la vita politica europea
degli anni Trenta del Novecento e diventa un’affollata arena dove vanno
in scena, come in una gigantesca corrida, tutte le passioni e le
ideologie del secolo; socialismo, comunismo, fascismo, anarchismo,
tradizionale devozione alla Chiesa cattolica e spietato
anticlericalismo. Non è sorprendente che esistano da allora parecchie
storie della Guerra civile spagnola, una sterminata memorialistica,
testimonianze letterarie (Hemingway, Malraux, Bernanos, Orwell,
Koestler), raccolte di corrispondenze pubblicate dalla stampa
internazionale e, più recentemente, romanzi dell’ultima generazione di
scrittori spagnoli in cui la trama evoca le vicende del Paese fra
l’«Alzamiento» dei quattro generali nel luglio 1936 e la caduta di
Barcellona nel gennaio 1939.
Pochi conoscevano, tuttavia l’opera di un autore, Manuel Chaves Nogales,
che aveva descritto la Guerra civile in nove racconti apparsi in Cile
nel 1937 con il titolo A sangre y fuego. Héroes, bestias y mártires de
España , tradotti ora in italiano da Elisa Tramontin ( A ferro e fuoco ,
edizioni laNuovafrontiera, pp. 336, e 16).
Chaves Nogales era nato a Siviglia nel 1898, aveva studiato lettere e
filosofia e fatto le prime esperienze giornalistiche nella sua città.
Quando giunse a Madrid, nel 1922, non tardò ad affermarsi come uno degli
scrittori più promettenti di quegli anni: molti reportage all’estero
fra cui un viaggio in aereo nella Russia dei soviet, una visita
all’Italia fascista e una a Berlino per una intervista con Joseph
Goebbels, ministro della propaganda nazista, che gli parve «ridicolo e
impresentabile». Ma scrisse anche racconti, novelle, un romanzo e la
biografia di un grande torero del suo tempo ( Juan Belmonte, matador de
toros ) che è stata pubblicata in Italia da Neri Pozza nel 2014. Quando
scoppiò la Guerra civile era direttore di un giornale repubblicano,
«Ahora», e il suo punto di riferimento politico era Manuel Azaña,
fondatore del Partito repubblicano, capo del governo in due momenti (tra
il 1931 e il 1933, poi per un breve periodo nel 1936), ma anche capo
dello Stato dal 1936 al 1939, quando la Spagna era ormai soltanto un
campo di battaglia.
Mentre Azaña fuggiva in Francia, Chaves Nogales vi era ormai da due
anni. Spiegò la ragioni della partenza nella prefazione alla raccolta
dei suoi racconti. Disgustato dal terrore rosso e da quello che gli
aerei franchisti seminavano bombardando Madrid assediata, dichiarò di
non essere più interessato alle sorti del conflitto: «L’uomo forte, il
caudillo, il trionfatore che alla fine poggerà il deretano sul lago di
sangue del mio Paese e che con il coltello fra i denti — secondo
l’immagine classica — ridurrà in schiavitù gli spagnoli sopravvissuti,
può provenire indifferentemente dall’una o dall’altra parte».
I racconti sono il risultato di questa sconsolata constatazione. Lo
stile è quello della grande letteratura picaresca, il tono è quello
dello scrittore che non cede al vezzo della indignazione e della
deplorazione. Vi è il marchese andaluso che va a caccia dei rossi con
una nidiata di viziati e crudeli señoritos (come si chiamavano in
spagnolo i figli di papà) e con il parroco del castello armato di
fucile. Vi sono gli ufficiali franchisti, catturati dalle milizie
repubblicane, che rifiutano di aderire alla Repubblica e vengono
falciati da una scarica di proiettili contro il muro di un carcere. Vi è
un altro parroco che spara ai repubblicani dal campanile della sua
chiesa. Vi è il giovane commissario comunista che non alza un dito per
evitare che il padre, un ufficiale, finisca di fronte a un plotone di
esecuzione. Vi è una «colonna di ferro», composta da disertori che si
proclamano anarchici, ma vanno per villaggi ammazzando e rapinando. Vi è
un «ometto», il compagno Arnal, che cerca testardamente di salvare
quadri e oggetti liturgici dalla furia dei ribelli franchisti in un
paese della Mancia, ma muore in uno scontro portando con sé la memoria
del luogo in cui era riuscito a nascondere un Greco e altre opere
d’arte. Vi è il vecchio caid di una formazione marocchina catturata dai
miliziani alle porte di Madrid. Dovrà morire con i suoi uomini e al solo
miliziano che aveva cercato di salvargli la vita dice: «Anche un moro
ammazzerebbe. Sono cose di guerra e di uomini. Allah è grande».
Vi è la storia di Tiron, il notabile falangista che i repubblicani
stanno per fucilare a Valladolid e che può fuggire soltanto grazie alla
pietà di una giovane repubblicana. Ma non farà nulla per salvarla quando
i franchisti, dopo avere riconquistato la città, la uccideranno con le
sue compagne. Vi è Bicornia, un fabbro grosso, forte, padre di una
dozzina di figli, assegnato alla guida di un moderno carro armato
sovietico, che combatte testardamente con il suo compagno russo sino a
quando un bidone di benzina, lanciato da un tetto, trasforma il suo tank
in una enorme torcia. Vi è il sindacalista anarchico che odia i
comunisti e viceversa. E vi è infine l’autore, spettatore disperato di
un dramma in cui tutti sono tragicamente colpevoli.
Chavez Nogales rimase a Parigi fino al 1940. Sapeva di essere nel libro
nero dei servizi segreti tedeschi e riuscì a fuggire in Inghilterra dove
continuò a scrivere per giornali inglesi e latino-americani. Morì nel
1944 di una peritonite mal curata: una fine non meno assurda di quella
toccata in sorte a tanti suoi connazionali.
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