di Gino Ruozzi Il Sole Domenica 20.12.15
Esiste un modello alimentare che distingue i cristiani dagli altri? La risposta di Massimo Montanari è negativa: la tradizione cristiana non prevede vincoli pregiudiziali in tema di cibo, «negando che gli alimenti siano buoni o cattivi in sé». Il cristianesimo invita alla libertà e alla responsabilità, lasciando ampio margine alle decisioni personali. Ci sono cristiani onnivori e altri vegetariani, cristiani disinteressati ai piaceri della tavola e altri che li coltivano con passione.
Nel saggio Mangiare da cristiani Montanari compie una minuziosa indagine dalle origini evangeliche e apostoliche alle tendenze odierne (data al 2009 la fondazione dell’Associazione cattolici vegetariani, il cui motto programmatico è «Amiamo così tanto il Creato da rispettarlo, amiamo così tanto la vita da non toglierla a nessuno»). A proposito di scelte, nella tradizione cristiana si possono incontrare posizioni sovente opposte da parte di autorità altrettanto prestigiose. È il caso di sant’Agostino e di san Girolamo, il primo a favore di una dieta senza restrizioni, il secondo incline a un’alimentazione vegetariana che rimanda, seppure in modalità diverse, alla celebre dieta di Pitagora.
Nel cristianesimo il cibo ha un rilievo simbolico e sostanziale primario, tanto che al pane e al vino corrisponde il nutrimento divino, fulcro essenziale della professione di fede e della celebrazione eucaristica. Il rinvio costante di Gesù a similitudini e a metafore alimentari è la prova di un linguaggio che attinge alla concretezza della vita ed esalta la bontà del cibo come anticipazione del futuro paradiso. D’altronde anche il paradiso terrestre era stato perso per un cibo, per quel desiderabile frutto della conoscenza che era diretta espressione dell’intelligenza di Dio.
Montanari esamina i principali modelli alimentari dell’antichità (mesopotamici, greci, latini) e delle religioni monoteistiche (cristiani, ebraici, islamici; e, tra i cristiani, quelli di cattolici, ortodossi e protestanti). Ne documenta affinità e differenze, spesso anche sorprendenti familiarità, sfatando parecchi luoghi comuni.
I numerosi esempi riguardano soprattutto il Medioevo, con approfondimenti della rappresentazione degli animali (tra cui spicca il maiale di sant’Antonio abate, che ha dato alla bestia straordinaria fortuna); l’inclinazione penitenziale di tanta precettistica cristiana (nel senso che «una cosa si può fare, ma sarebbe meglio di no»), con indicazioni discrezionali motivate da fattori politici e sociali più che da fondamenti teologici; le oscillazioni di costumi alimentari con ripetuti ribaltamenti di valori, come i rapporti tra carne e pesce, tra giorni di magro e di festa, tra nutrizione e digiuno, tra un’astinenza che mira a discutibili vanti estetici e un’astinenza di severo riscatto morale, tra radicale vita eremitica ed equilibrata fraternità monastica, tra quaresime e carnevali, cibi cotti e crudi.
Per i cristiani il cibo non può assumere importanza assoluta; può essere invece un mezzo per imparare a vivere meglio, specie per apprendere la virtù della condivisione. Lo insegna ancora una volta in modo esemplare Francesco d’Assisi, per il quale «come ci dobbiamo trattenere dal soverchio mangiare, nocivo al corpo e all’anima, così, e anche di più, dobbiamo guardarci dalla eccessiva astinenza, poiché il Signore preferisce la misericordia al sacrificio».
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