domenica 27 settembre 2015

Eliot, la terra desolata e la guerra


Renzo S. Crivelli: Eliot, Salerno

Risvolto
In libreria dall'8 ottobre. A cinquant’anni dalla scomparsa, T.S. Eliot si conferma tra i massimi poeti del XX secolo, uno dei grandi innovatori del Modernismo. Il suo poemetto The Waste Land resta l’emblema della decadenza dell'Europa dopo la prima guerra mondiale, quando l'umanità perde ogni punto di riferimento spirituale e cade nella barbarie. Un insegnamento, il suo, ancor oggi attuale. Questo libro conferma la modernità di molte sue teorie, alla cui base sta la convinzione di un’Europa divisa anziché unita. L’autore rilegge la sua poetica, ma anche la sua drammaturgia, sotto una nuova luce. Tra le novità vi è una reinterpretazione del suo capolavoro proprio in riferimento alla Grande Guerra, di cui ricorre il centenario.


La guerra desolata
La «Waste Land» può essere considerata lo spartiacque tra i detrattori della «bellezza dei conflitti» e gli «indifferenti»

Renzo S. Crivelli Domenicale 27 9 2015
Una specifica chiave di lettura della Waste Land, non particolarmente esaminata dalla critica del Novecento, riguarda il suo collegamento diretto con la tragedia della prima guerra mondiale. In primo luogo perché questo poemetto viene scritto quasi due anni dopo la sua fine ed è pubblicato quattro anni dopo. In secondo luogo perché si è andata sempre più consolidando l’idea di una sostanziale “estraneità” del poeta ai fatti diretti della carneficina. Certo, non partecipò di persona né fu sulle trincee, come invece avevano fatto tanti poeti inglesi, semplicemente perché cittadino americano fino al 1927. I cosiddetti War Poets – da Rupert Brooke a Siegfried Sassoon, da Isaac Rosenberg a Wilfred Owen – ci hanno lasciato memorabili opere dal forte realismo descrittivo, così come altri americani – da Ernest Hemingway a Edward Eastlin Cummings – hanno consegnato alla letteratura pagine toccanti, spesso denunciando l’assurdità della morte nelle trincee (basti pensare a A Farewell to Arms e The Enormous Room). 
Più recentemente è emersa una nuova percezione dello stretto rapporto intercorso fra Eliot e la grande guerra. Innanzi tutto va detto che la parte finale della poesia in francese Dans le Restaurant, collocabile intorno al 1914, contiene un’allusione alla figura di Phlebas che verrà recuperata nella IV sezione della Waste Land. Da qui il collegamento tra “durante” e “dopo”, nel quadro immaginifico ed emotivo del poeta, che può indicarci come e perché la Waste Land può essere considerata un poemetto “sulla” guerra. A significare che il “quadro” immaginifico almeno di una sezione (la IV intitolata Death by Water), trae le sue origini da eventi contemporanei al massacro degli eserciti in Europa. Certo, quando la guerra scoppia, Eliot si trova in Inghilterra con una borsa di studio per il Merton College di Oxford, e sta scrivendo la sua tesi di dottorato sulla filosofia di F.H. Bradley. Ma il suo status è quello di «americano non belligerante», e il suo coinvolgimento più diretto si manifesterà solo quando, ultimata la tesi nel 1916, non se la sentirà di oltrepassare l’Oceano su una nave passeggeri per andare a Harvard a discuterla, specie dopo la tragedia del siluramento del Lusitania ad opera di un U-Boote tedesco. Inoltre, se vogliamo cercare un riscontro con i War Poets, va detto che Eliot non ha una particolare considerazione per la poesia delle trincee. La considera dettata essenzialmente da uno stato emotivo immediato e spaventoso. Questa sua opinione – fortemente discutibile – sarà, molti anni dopo, espressa in uno dei suoi Occasional Verses, intitolato A Note on War Poetry. Scritta nel 1942, quando vive – in questo caso sì – la seconda guerra mondiale sulla sua pelle svolgendo la mansione di “avvisatore bellico” sui tetti di una Londra devastata dalle micidiali V1 e V2 tedesche, questa poesia espone molto bene il suo punto di vista sulla testimonianza diretta dei combattimenti: «Sembra proprio possibile che una poesia possa scaturire / da una persona molto giovane: ma una poesia non è poesia – / la poesia è una vita. // La guerra non è una vita: è una situazione, / qualcosa che non può essere né ignorata né accettata, / un problema da affrontare con agguati e stratagemmi, / circoscritti o sparsi»).
Per Eliot un War Poet non è necessariamente un poeta; può scrivere cose intense, legate allo stato di eccezionale tensione nel momento in cui sta rischiando la vita, ma non per questo il risultato è sempre accettabile sul piano qualitativo. Una specie di reazione, questa, al concetto critico-interpretativo per cui «sono i grandi temi a fare grande la letteratura» (da Guerra e pace in poi…).
Stimolato da Miss Storm Jameson, curatrice di un volume sul contributo americano alla seconda guerra mondiale, a fornire il suo parere sulla poesia che “rende” emotivamente l’immediatezza dell’angoscia di morte sotto la pressione bellica, Eliot entra nel dibattito sulla “plausibilità” della poesia militante (erano in molti, infatti, a chiedersi se la war poetry fosse vera poesia e potesse essere fruita con la stessa valenza coinvolgente da persone che non avevano vissuto la tragica esperienza dell’autore). Egli ritiene pertanto che per guerra si intenda solo la guerra, e che essa non possa sostituire la vita. Così come una poesia occasionale non può prendere il posto di uno status poetico permanente («Ciò che è durevole non può sostituirsi al transitorio»). Questa potrebbe essere la ragione per cui nella produzione poetica del primo periodo non figura nessun componimento direttamente collegato alla guerra. La vera poesia risiede per lui in una consapevolezza molto più duratura dei problemi legati allo stato esistenziale; e ciò deve avvenire in una prospettiva ben più vasta di quella di un conflitto, quand’anche “mondiale”.
Ma è un fatto che, come la critica comincia a riconoscergli, Eliot ha voluto “scrivere” nella Waste Land la guerra a posteriori, trasformando i suoi versi da “occasionali” a universali – e permanenti – attraverso gli effetti morali e politici della sua tragedia. Egli, dunque, sceglie di osservare non più il contingente, assoggettato all’effimero, ma la sua lunga proiezione nel tempo. La “terra desolata”, infatti, è quella di un’Europa che ha abdicato alla propria dignità umana, iniziando il suo decadimento.
Eliot, pertanto, sia per certe sue ambiguità iniziali e per l’alta levatura della sua poesia, sia – vieppiù – per il grande affresco che ha saputo darci della rinuncia ai valori dell’Europa bellica e post-bellica, può essere sicuramente considerato come il principale spartiacque tra, da una parte, gli intellettuali detrattori della “bellezza della guerra” e, dall’altra, gli “indifferenti” scarsamente coinvolti dalla retorica della propaganda militarista del tempo. Il suo atteggiamento nei confronti del primo conflitto mondiale, infatti, appare tanto sottotono durante gli anni della carneficina quanto impegnato alla fine delle ostilità; e volto a una riconsiderazione dei colossali guasti morali che la carneficina ha prodotto nelle nuove generazioni (non escludendo la sorte drammatica dei sopravvissuti). © RIPRODUZIONE RISERVATA


Una biografia europeista 

Ricorrenze. T. S. Eliot continua a essere percepito come poeta elitario, nonostante il musical «Cats», tratto dalla sua opera, conquisti il pubblico da decenni. Ma ora due libri ne ripercorrono la figura letteraria e privata: la monografia di Renzo Crivelli e il volume, ancora non tradotto, «Young Eliot: From St Louis to The Waste Land» di Robert Crawford 
Enrico Terrinoni Manifesto 8.12.2015, 0:06 
I cinquant’anni dalla morte di Eliot, avvenuta il 4 gennaio del 1965, hanno suscitato non troppo clamore, nel nostro paese. Forse perché quest’anno molte energie sono state spese nel ricordo di un altro appuntamento, quello col settecentocinquantesimo di Dante; o forse per ragioni ancora tutte da sondare, quali magari la presunta oscurità dello scrittore, il fatto che la sua opera poetica subisca, nell’arco della lunga parabola, più di una rivoluzione, inversione, involuzione, ed evoluzione.
Sta di fatto che T.S. Eliot continua a essere percepito come un autore troppo elitario per un pubblico di non esperti e, raramente, la sua opera oltrepassa la soglia delle mura universitarie. Questo stona, e non poco, con le ambizioni di tanta parte della sua produzione, soprattutto quella critica, per non parlare dell’infaticabile attività editoriale: tutte missioni che miravano a parlare, sempre da una prospettiva futurologicamente conservatrice, a un pubblico più ampio della cerchia degli appassionati delle rarefatte poetiche del modernismo. E stona anche col grande successo internazionale, ad esempio, del musical Cats, basato proprio su testi poetici di Thomas Stearns Eliot. L’opera è presente da decenni, sui più frequentati palcoscenici internazionali; il che la dice lunga anche sulle capacità della poesia — e soprattutto della «poesia drammatica», come è stata definita quella di Eliot — di superare le barriere, queste sì conservatrici, di specialismi ed elitismi di sorta.
Al successo ancora palpabile della traduzione teatrale dell’Old Possum’s Book of Practical Cats di Eliot, si affianca quello di un altro play in versi, assai più austero, L’assassinio nella cattedrale, anch’esso regolarmente messo in scena, sebbene con meno frequenza.
Quest’incrocio di Eliot con pubblici non solitari viene poi confermato dal riconoscimento transnazionale da parte delle grandi accademie, concretizzatosi nel Premio Nobel per la letteratura e in premi meno ricordati, ma altrettanto prestigiosi, come la Dante Gold Medal o il Goethe prize.
L’anno del cinquantenario dalla morte vede la pubblicazione di una nuova interessante biografia di Eliot, a firma di un giovane poeta e accademico, Robert Crawford, dal titolo, Young Eliot: From St Louis to The Waste Land (Jonathan Cape, pp. 512, £25). Seguirà, sempre dello stesso autore, un secondo volume che avrà a che fare con gli anni della maturità. Una novità di questo lavoro è il fatto che riesce nella sfida di gettare luce su anni fino ad ora non troppo sondati della vita del poeta. Ciò era dovuto, va detto, alla scarsezza di documentazione, soprattutto in relazione alla fine dell’adolescenza, periodo estremamente importante alla luce degli sviluppi futuri della sua opera. 

Crawford entra nel vivo di quegli anni dedicando molto spazio, ad esempio, ai rapporti coi genitori, e anche al fatto che entrambi nel tempo libero si dedicassero alla poesia. I rapporti con la consorte ricevono grande attenzione, come pure l’esaurimento nervoso che colpisce entrambi a più riprese, la separazione nel 1933, e il ruolo che tali traumi hanno poi avuto nella produzione di colui che non si fatica a chiamare il maggior poeta inglese del Novecento.
È lo stesso biografo ad ammettere d’aver lavorato a partire da un punto di vista vantaggioso rispetto ai colleghi del passato, potendo citare sia dagli scritti pubblicati che da quelli inediti; il che «facilita la comprensione di quanto strettamente e dolorosamente connesse fossero la sua vulnerabile vita e la magnifica produzione poetica». 
In Italia esce poi, in questi mesi, una preziosa monografia su Eliot per la firma di Renzo Crivelli, una delle voci storiche negli studi dell’altro grande esponente del modernismo novecentesco, James Joyce (T.S. Eliot, Salerno editrice, pp. 312, euro 16). Il libro di Crivelli si propone sin dalle prime pagine di presentare un Eliot a tutto tondo, a partire dal dato biografico, per poi affrontare singolarmente le opere principali. Emerge nella rilettura di Crivelli, come per lo studio di Crawford, la consapevolezza che arte e biografia siano inseparabili (dello stesso autore opere anche sulla vita e sul soggiorno triestino di Joyce, con un particolare accento su quanto questo abbia influito sulla genesi ideazionale delle sue opere). Le presunte contraddizioni dell’atteggiamento di Eliot nei confronti della religione vengono viste come intense peregrinazioni personali ed esistenziali, più che come sovrastrutture da imporre sull’interpretazione dell’opera.
Quasi il poeta, sentendo gradualmente, e sempre più il bisogno di un sistema valoriale messo a dura prova dagli eventi, della vita e della storia, finisca poi per produrre opere che da quel sistema dipendono, ma solo per parzialmente emanciparsene nell’atto della lettura. 
A bilanciare l’ibridismo ambivalente delle origini nazionali di Eliot – «un americano che si forgiò all’inglese» è stato detto – Crivelli propone una lettura europeista della sua opera: «scorgiamo, al centro delle sue teorizzazioni, una consapevolezza che lo rende ulteriormente attuale: l’idea di una letteratura europea, in cui, trasversalmente, possa circolare e affermarsi lo stesso concetto di ’classicità’ (basato sulle comuni origini greco-latine). Se l’Europa è un tutt’uno, allora la letteratura europea è una sola». È una lente critica, questa, che consente di riflettere, più in generale, su questioni, extra-letterarie ma non troppo, relative al modellarsi, ancora in itinere – e lo dimostrano gli eventi perturbanti degli ultimi tempi – di un’identità europea che forse, dall’insegnamento della grande poesia può trarre più d’uno spunto. 
A ridosso dell’Expo milanese, il poeta e presidente irlandese Michael D. Higgins ebbe a suggerire che «a volte il lavoro dei poeti può correggere quello degli economisti». Le riflessioni di Eliot hanno poco a che fare con un’ottica economica di larga scala (certamente fu a contatto con dinamiche commerciali in quanto editore), ma possono ancora offrire qualche consiglio al determinarsi delle condizioni, politiche e sociali, per una ridefinizione – declinata al futuro, ma radicata nel passato – di un sentire europeo che piacerebbe chiamare «più o meno» comune.

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