mercoledì 23 settembre 2015

Jefferson, Palladio e la nascita degli Stati Uniti: una mostra


in collaborazione con Fondazione Canova, Stiftung Bibliothek Werner Oechslin, a cura di Guido Beltramini e Fulvio Lenzo
Vicenza, 19 settembre 2015 - 28 marzo 2016; preview stampa 19 sett. ore 11; inaugurazione 23 sett. ore 18

Francesca Amé - il Giornale Sab, 19/09/2015

L’architettura made in Usa è nata nel nome del Palladio
A Vicenza una mostra sulla fortuna Oltreoceano del genio veneto. Osannato dal collega Jefferson, che a lui s’ispirò per la Casa Bianca e Villa Monticello
6 set 2015 Libero TOMMASO LABRANCA
Incurante degli anniversari, delle mode e delle ideologie, Palladio ancora oggi è al centro di una venerazione permanente. Mostre a lui dedicate si tengono in tutto il mondo e si ricorda ancora «Andrea Palladio: His Life and Legacy» organizzata nel 2009 dalla londinese Royal Academy of Arts. Il 19 settembre, questa volta nei luoghi natali dell’architetto, si aprirà presso il vicentino Palladium Museum una nuova esposizione che durerà sino al 28 marzo, organizzata dal Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, in collaborazione con la Fondazione Canova e la Stiftung Bibliothek Werner Oechslin. Il titolo definisce bene il focus della mostra: Thomas Jefferson e Palladio. Come costruire un mondo nuovo.
I busti dell’architetto veneto del XVI secolo e quello del due volte presidente Usa del XIX secolo accoglieranno i visitatori all’ingresso. E faranno subito nascere la domanda: quale legame esiste tra due personaggi così diversi? Duecento anni passano dalla morte di Palladio nel 1580 e la stesura della Dichiarazione d’Indipendenza scritta da Jefferson nel 1776; e sono due secoli pieni di esplorazioni, rivoluzioni, invenzioni che non seppero cancellare la lezione del nostro, trasformata in un vero stile: il palladianesimo.
Fosse attivo oggi, anche Palladio non sarebbe sfuggito all’ormai abusata classificazione tra le «eccellenze italiane». Però a differenza di tanti cuochi, Palladio era diventato davvero uno degli italiani più noti al mondo, quando l’Italia non c’era ancora.
Eppure non tutti lo hanno amato. Tra i suoi più feroci avversari vi fu John Ruskin, oggi considerato un raffinato esteta vittoriano, in realtà uomo senza nobiltà né preparazione culturale, ma solo molto furbo. Ruskin aveva capito che, finiti i tempi del Grand Tour settecentesco, a fine Ottocento a muoversi per l’Europa erano i rampolli di commercianti arricchiti e svenevoli signore. A loro erano rivolti i suoi testi che non parlano di storia dell’arte, ma raccontano le sue impressioni davanti a un quadro, un monumento. Nel suo bestseller Le pietre di Venezia, per fare l’originale, Ruskin attacca la palladiana basilica di San Giorgio Maggiore (la cui facciata comunque fu completata da Vincenzo Scamozzi) scrivendo: «Mi è impossibile concepire un disegno più volgare, più barbaro, più infantile nella sua concezione, più servile nel plagio, più insipido nei risultati, più disprezzabile sotto ogni razionale punto di vista».
Ancora oggi certi critici inglesi deridono il Palladio, colpevole di aver inspirato l’architettura pomposa usata da dittatori e stelle del calcio quando si fanno costruire le loro ville. Odiano Palladio quando sanno che è l’architetto preferito del poco amato principe Carlo. Che instaurino la Repubblica, allora, e si dedichino alle loro cupe casette dickensiane.
Le cose sono andate molto meglio Oltreoceano. Il 6 dicembre 2010 il Congresso americano ha persino emesso una risoluzione in cui si riconosceva Palladio «padre dell’architettura americana». Una decisione figlia dell’amore che Jefferson, architetto lui stesso, aveva per il palladianesimo e di cui si trovano molte tracce negli Usa. Dan Brown, nel suo romanzo Il simbolo perduto ambientato a Washington, ricorda come le geometrie della Casa Bianca fossero derivate dall’ispirazione classica mutuata dal Palladio, nel tentativo di fare della capitale statunitense una nuova Roma. Tanto che in origine Washington si sarebbe dovuta addirittura chiamare Rome.
L’influenza del presidente-architetto si estese anche sulle piante di tante città americane, basate sulla griglia regolare preferita dai Romani e che da noi ha lasciato tracce evidenti nell’urbanistica di Torino.
L’amore di Jefferson per il classicismo lo portò a contattare Antonio Canova affinché scolpisse la statua di George Washington, lavoro di cui nella mostra vicentina sono visibili tre bozzetti originali. Si potrà poi conoscere meglio il presidente attraverso la sua collezione d’arte, i progetti architettonici diseganti da lui e ispirati da tutto ciò che vide nella lunga permanenza in Europa, quando era ambasciatore a Parigi. Ma Palladio e i suoi Quattro Libri sull’Architettura, che aveva letto in taliano, furono l’unica vera Bibbia per Jefferson. Il presidente morì con il cruccio di non aver potuto ricreare in patria la Rotonda di Vicenza. Si ricordò però che nei Quattro Libri si diceva che la Rotonda sorgeva su un «monticello». Per consolarsi, quando da solo Jefferson si costruì la villa in stile palladiano cui avrebbe trascorso la vecchiaia la chiamò Villa Monticello. Tutto intorno nacque una pletora di costruzioni simili. Doveva essere stato molto chic avere una casa simile a quella di un Presidente degli Stati Uniti, architetto, colto e in grado di parlare più lingue. Anche perché in seguito non sarebbe più accaduto.



Jefferson, inventore del campus
Una mostra dedicata all’architetto presidente, che costruì l’Università della Virginia come fosse una villa veneta
Guido Beltramini Domenicale 20 9 2015

Per tre azioni Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809, volle essere ricordato. Fece incidere sulla propria tomba: «autore della Dichiarazione d’Indipendenza, promotore della legge sulla libertà di religione e padre dell’Università della Virginia». 
Le prime due hanno cambiato il mondo, ma la terza - del Jefferson architetto, oltre che politico - non è stata da meno. Essa segna la nascita del “campus” universitario, una discontinuità radicale nel mondo dell’istruzione. Jefferson disegna l’Università della Virginia come una grande villa veneta dove aule, residenze e la monumentale biblioteca si affacciano su un prato verde e alberato. L’idea manda in soffitta l’edificio scolastico come tetro palazzone e proietta una idea di comunità e insieme la visione che la cultura sia la base su cui costruire il futuro di una nazione. La centralità dell’istruzione era nella mente di Jefferson sin dagli inizi della sua carriera politica, dopo aver passato anni a studiare il greco e il latino che gli permisero di leggere i classici in lingua originale per tutta la vita. Appena trentenne, nel 1784 Jefferson era stato a capo della commissione del Congresso per il National Survey, chiamata a rilevare il territorio degli Stati Uniti. La vittoria sugli inglesi aveva fatto gli americani, ma l’America mancava ancora: i territori a ovest delle tredici colonie erano inesplorati e non esistevano le mappe che permettessero la partizione dei terreni. Anziché parcellizzare il territorio seguendo fiumi e montagne, Jefferson concepì una griglia regolare, basata sui meridiani e paralleli e ispirata alla centuriazione romana. Un reticolo astratto, ancora ben leggibile nelle campagne e città americane, suddiviso in unità amministrative quadrate (township) al centro delle quali, per legge, un lotto era sempre destinato alla scuola pubblica. 
Per chi vive in Italia, e in particolare nel Veneto, l’architettura della Università della Virginia emana una sorprendente aria di famiglia. Una ragione c’è: i padiglioni e la biblioteca in forma di Pantheon furono disegnati da Jefferson seguendo i Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio, un testo che definiva la propria Bibbia. 
Ma perché un architetto italiano diventa la fonte di ispirazione nella costruzione della nuova nazione americana, dall’università agli edifici del potere sino alle case di Via col vento? Più in generale, come viaggiano e si trasmettono le idee in architettura, e quale il rapporto fra originale e copia nella più cerebrale delle arti? A queste domande ho tentato di dare una risposta insieme a Fulvio Lenzo e Alessandro Scandurra (che ha realizzato anche l’allestimento) con la mostra aperta ieri fino al 28 marzo 2016 al Palladio Museum di Vicenza Jefferson e Palladio. Come costruire un mondo nuovo. 
Jefferson non visitò mai di persona le architetture di Palladio, e conobbe l’opera del suo ispiratore solo attraverso i Quattro Libri di cui possedeva tre esemplari, in edizioni francese e inglese. Sebbene queste offrissero una lettura per certi versi distorta, fu proprio l’accesso a Palladio esclusivamente attraverso il suo trattato a consentire a Jefferson di coglierne le strategie di trasformazione dell’esistente. Palladio, come Leon Battista Alberti e Le Corbusier, è infatti quel tipo di architetto che vuole cambiare il mondo e scrive in un libro le istruzioni per farlo. Egli concepì e comunicò la visione sistematica di una nuova architettura organizzata come una lingua, costituita da vocaboli che sono blocchi costruttivi (sale, colonnati, scale, portali, finestre) legati da una sintassi data da tipologie e rapporti proporzionali. Si trattava di una lingua moderna, con cui Palladio costruiva edifici del proprio tempo, ma che traduceva il latino architettonico della tradizione classica. Con sagacia i Quattro libri pubblicavano le ricostruzioni dei principali edifici della Roma antica accanto alle realizzazione palladiane, che da esse avevano tratto i propri algoritmi compositivi. E’ proprio questo nesso ad essere cruciale per Jefferson che riconosceva in Palladio colui che aveva reso disponibile l’architettura classica agli usi del proprio tempo. Nel caso delle architetture di Jefferson, questi ultimi contaminano a loro volta il modello palladiano con le novità dell’architettura francese o la ricerca del “comfort” tipicamente americana, dando vita ad edifici propriamente americani. Come raccontano le fotografie di Filippo Romano, realizzate per la mostra ed esposte accanto a disegni, busti, modelli, libri antichi e ai bozzetti in gesso di Antonio Canova per il monumento a George Washington, il Virginia Capitol di Jefferson a Richmond definisce quello che sarà il prototipo dell’edificio del potere civile nel Nuovo Mondo: un tempio antico, la Maison Carrée di Nîmes, riproposto come spazio della nuova democrazia. Lo stesso è vero per la casa privata di Jefferson, che egli chiama Monticello in omaggio alla Rotonda che Palladio scrive sorgere su un “monticello di ascesa facilissima”: diventata una icona dell’architettura, è finita nelle tasche di ogni americano, incisa nella moneta da 5 cents. E vale anche per la Casa Bianca. Alla ricerca di una architettura repubblicana per la casa non di un re, ma di “Mr. President”, Jefferson sceglie una villa: partecipa al concorso del 1792 proponendo una copia della Rotonda di Palladio. È sconfitto, ma quando diventa presidente, interviene sull'edificio vincitore aggiungendogli i due pronai su colonne che ancora oggi fanno assomigliare la Casa Bianca a una villa della Serenissima repubblica di Venezia.
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1 commento:

@Spartacus71117 ha detto...

ma.......jefferson era proprietario di schiavi, ma volle essere ricordato......