martedì 22 settembre 2015

La famiglia di Walter Benjamin

I Benjamin. Una famiglia tedescaUwe-Karsten Heye: I Benjamin. Una famiglia tedesca, traduzione dal tedesco di Margherita Carbonaro,  Sellerio

Risvolto

Walter Benjamin, uno dei «profeti» culturali del Novecento, morì in una piccola località sulla frontiera spagnola; fuggiva dalla Francia occupata e si suicidò per timore di essere riconsegnato alla Gestapo. Era ebreo oltre che antinazista. La sua fine è abbastanza nota.
È invece per lo più ignota la vicenda delle personalità con cui più vivamente e drammaticamente si intrecciò la sua storia e, in parte, la sua attività: Georg, il fratello minore, medico, dirigente comunista, soppresso a Mauthausen nel 1942, la sorellina Dora, sociologa e attivista, esule a Parigi con Walter dal 1933 e morta in Svizzera dov’era in esilio, la cognata Hilde, militante clandestina antinazista e madre di un bambino «meticcio» da sottrarre allo sterminio, poi giudice supremo nella DDR e ministro della Giustizia, distintasi nella prosecuzione giudiziaria dei criminali nazisti.
L’autore di questa inchiesta storica, basata su documenti sconosciuti e su conversazioni con i protagonisti, li definisce «una famiglia tedesca». E infatti la loro vicenda collettiva di disperazione di morte e di coraggio, è aggrovigliata in modo indistinguibile con la stessa storia della Germania. E il racconto di essa si staglia sullo sfondo della vita in Germania, prima e dopo il 1933. A partire dal primo miracolo tedesco, la grande crescita dopo la nascita dell’impero del 1871, in cui fiorì la famiglia di agiati e colti ebrei Benjamin; fino agli anni Sessanta del Novecento quando, mentre i caporioni ex nazisti completavano le loro carriere indisturbati ad Ovest, l’ultima dei Benjamin si guadagnava l’epiteto di «Ghigliottina rossa» per il suo lavoro di giudice ad Est, contro i criminali di guerra.
Una ricostruzione dal respiro del Ventesimo secolo europeo, quella condotta dallo storico e giornalista Heye che riesce a coniugare con passione l’empatia esistenziale di una storia privata degli affetti, con l’interesse documentaristico della grande storia. 
Uwe-Karsten Heye (1940), giornalista, è stato autore di discorsi per Willy Brandt, portavoce del governo di Gerhard Schroeder e autore di testi per le reti televisive ARD e ZDF.

Una storia novecentesca consegnata all’oblio 

Saggi. «I Benjamin» dello studioso Uwe-Karsten Heye per Sellerio. Un intellettuale eclettico, un' avvocata, un medico e una pedagoga stimati. Travolti dal nazismo. Le loro scelte di vita radicali sono usate per denunciare la mancata «denazificazione» nel dopoguerra tedesco

Benedetto Vecchi il Manifesto 29.8.2015, 0:13 

Cosa c’è ancora da scri­vere sulla vita di Wal­ter Ben­ja­min? Ben poco. È stato un teo­rico ete­ro­dosso che ha rigo­ro­sa­mente igno­rato gli stec­cati disci­pli­nari, una «colpa» che l’accademia non gli ha mai per­do­nato quando era in vita, vol­tan­do­gli le spalle quando pre­sentò la richie­sta di acce­dere alla docenza, con­dan­nan­dolo così a vivere per il resto della sua vita nel regno della neces­sità, nono­stante le ori­gini bor­ghesi della sua famiglia. 
Ben­ja­min non è stato tut­ta­via un «mar­gi­nale» risco­perto solo dopo la sua morte. È stato molto altro ancora. Sicu­ra­mente è da con­si­de­rare uno degli intel­let­tuali più impor­tanti del lungo Nove­cento. Ogni volta, infatti, che si legge un suo sag­gio è come aprire uno scri­gno che riserva sem­pre delle sor­prese, nono­stante il fatto che gli scritti pub­bli­cati dopo la sua morte sono di fatto fram­menti di mano­scritti che per com­ple­tarli non gli sareb­bero bastato il dop­pio degli anni della sua esi­stenza, inter­rotta uni­la­te­ral­mente in terra spa­gnola per paura che la poli­zia ibe­rica lo rispe­disse indie­tro in quella Fran­cia che lo aveva prima accolto e poi costretto a fug­gire con l’entrata dei nazi­sti in quella capi­tale del XX secolo che aveva amato, stu­diato e descritto in una mon­ta­gna di appunti che ancora adesso susci­tano stu­pore e mera­vi­glia per la loro luci­dità ana­li­tica. Il suo sui­ci­dio fu uno shock per i suoi pochi amici. Han­nah Arendt, alla quale si deve una delle ora­zioni fune­bri più appas­sio­nate, ne fu addo­lo­rata e chiese rispetto per quella scelta radi­cale. Ber­tolt Bre­cht gli dedicò una poe­sia che tra­suda sen­ti­menti di fra­tel­lanza, così rari nella sua pro­du­zione poe­tica. Scho­lem, che lo sol­le­citò più volte ad abban­do­nare la vec­chia Europa per tro­vare rifu­gio in Pale­stina, la terra dei suoi avi ebrei, cercò sin da subito di sal­va­guar­dare la sua memo­ria e la sua ere­dità intel­let­tuale. Adorno e Hor­khei­mer rima­sero, dicono le cro­na­che, atto­niti alla noti­zia della sua morte. 

Una pla­tea nota 
Sono que­sti alcuni dei nomi che ricor­rono nel libro I Ben­ja­min, da poco pub­bli­cato da Sel­le­rio (pp. 333, euro 18) e scritto dallo stu­dioso tede­sco Uwe-Karsten Heye, a suo tempo gho­st­w­ri­ter di Willy Brandt e poi por­ta­voce del governo social­de­mo­cra­tico di Gerhard Schroe­der. Un sag­gio roman­zato che ha più chiavi di let­tura. Non si pro­pone di for­nire una let­tura cri­tica di Ben­ja­min, bensì di rac­con­tare attra­verso le vicende dei suoi fra­telli e della cognata la sto­ria tor­men­tata del Nove­cento tede­sco e del trauma della divi­sione in due della Ger­ma­nia dopo la scon­fitta del nazi­smo. E non è un caso che a Wal­ter Ben­ja­min viene dedi­cata solo una parte esi­gua del libro. La mag­gior parte delle pagine sono infatti dedi­cate al fra­tello Georg, medico comu­ni­sta morto in campo di con­cen­tra­mento; alla sorella Dora, apprez­zata peda­gogo, comu­ni­sta anche lei, morta per un can­cro men­tre era in esi­lio in Sviz­zera. Nono­stante le pri­va­zioni, il dolore e il rela­tivo iso­la­mento dalla sem­pre più nume­rosa dia­spora tede­sca, Dora Ben­ja­min ha scritto dei testi sulla con­di­zione dei bam­bini poveri che riman­gono ancora adesso un esem­pio di rigo­rosa e mili­tante atti­vità intel­let­tuale. E poi c’è Hilde, la moglie del fra­tello Georg, che tenne duro, sal­vando se stessa e il figlio Michael senza mai rin­ne­gare l’adesione al par­tito comunista. 
A guerra finita, i sovie­tici la chia­ma­rono, in quanto giu­ri­sta e apprez­zata avvo­cato, a rimet­tere in piedi il sistema penale. Aderì alla Rdt e fu infles­si­bile verso i tede­schi nazi­sti por­tati a pro­cesso. Un rigore che fu stig­ma­tiz­zato nella nascente repub­blica fede­rale tede­sca. Tra gli anni Cin­quanta e Ses­santa, gli insulti sui demo­cra­tici media fede­rali oscil­la­vano dal tri­viale al feroce. Riletti adesso, annota l’autore del libro, i suoi inter­venti sul sistema giu­ri­dico sono un esem­pio di pon­de­ra­zione, senza che venga mai meno la denun­cia del carat­tere clas­si­sta della magi­stra­tura tede­sca prima, durante e dopo il nazi­smo. Una carat­te­ri­stica che a Ovest dell’Elba doveva essere rimossa, con­tra­stata, facendo rife­ri­mento al carat­tere auto­ri­ta­rio del sistema poli­tico tede­sco orien­tale, can­cel­lando così il fatto che nella Repub­blica fede­rale tede­sca gran parte del per­so­nale sta­tale nazi­sta rimase in carica. Ed è sem­pre l’autore del libro, che d’altronde non nasconde le sue cri­ti­che alla Rdt, a rico­no­scere che l’analisi di Hilde sul carat­tere clas­si­sta dell’amministrazione penale e car­ce­ra­ria era ed è da con­di­vi­dere ancora oggi. 

I ter­ri­bili anni Trenta 
Gli anni Trenta del Nove­cento sono gli anni della pri­gione e dell’esilio per la fami­glia Ben­ja­min. Georg fu arre­stato a man­dato nel lager una prima volta. Usci per pochi mesi, prima di venire stri­to­lato negli ingra­naggi della mac­china di ster­mi­nio nazista. 
Hilde spese tutta la sua influenza per sal­va­guar­dare la memo­ria di quelle vite spez­zate, anche quando divenne mini­stro della Giu­sti­zia nella Rdt, dove Wal­ter Ben­ja­min non godeva certo di buona stampa presso i diri­genti del par­tito comu­ni­sta al potere. 
È però la parte cen­trale del libro che riserva una sor­presa. Sono pagine dedi­cate alla dena­zi­fi­ca­zione man­cata nella Rft. Emerge il col­pe­vole silen­zio di Ade­nauer sulla pre­senza di molti nazi­sti non pen­titi — magi­strati, fun­zio­nari, uffi­ciali di poli­zia e dell’esercito -; e quello altret­tanto nume­roso dei gior­na­li­sti e edi­tori che lan­cia­vano cam­pa­gna per dimen­ti­care il pas­sato, men­tre si stam­pa­vano e recen­si­vano posi­ti­va­mente memo­rie di nazi­sti in pen­sione. La Guerra fredda legit­ti­mava, si domanda l’autore, tutto ciò? La rispo­sta arriva dalla Rdt. Fare i conti con il nazi­smo era pos­si­bile, allon­ta­nando da posti di respon­sa­bi­lità gli iscritti al par­tito di Hitler. La man­cata dena­zi­fi­ca­zione della Rft ha signi­fi­cato l’esistenza, per tutto il secondo dopo­guerra, di una demo­cra­zia «zoppa». Que­sto non signi­fica omet­tere il fatto che nella Rdt la vita non era rose e fiori. 
La Ger­ma­nia che emerge da que­sto libro è lon­tana anni luce dall’immagine pati­nata della cro­naca cor­rente. Un paese ancora in bilico tra ade­sione al regime della «demo­cra­zia sociale» e voglia di revan­che patriot­tica. L’unico inciampo alla con­ti­nuità sta­tale con il nazi­smo, al quale però l’autore dedica pur­troppo solo poche pagina infar­cite della malin­co­nia delle occa­sioni man­cate, è il Ses­san­totto tede­sco, dove il pas­sato è tor­nato al cen­tro della scena pub­blica come leva per una cri­tica radi­cale sia della Rft che della Rdt. È con Ses­san­totto infatti che il pas­sato può essere affron­tato. È con la riu­ni­fi­ca­zione delle due Ger­ma­nie che per l’autore si chiude il lungo Nove­cento tede­sco. Uwe-Karsten Heye chiede quindi di pren­dere con­gedo da quella tra­gica sto­ria. Pro­spet­tiva tut­ta­via viziata dal fatto che accanto al neces­sa­rio supe­ra­mento del pas­sato, nelle ultime pagine si afferma la neces­sità di pren­dere altret­tanto con­gedo anche da quella società di liberi e eguali che I Ben­ja­min ave­vano intra­vi­sto sui volti di donne e uomini costretti a ven­dere le loro brac­cia e menti per vivere. E che per que­sto fecero una scelta di vita.

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