martedì 22 settembre 2015

Tradotto "La carte postale" di Jacques Derrida

Jacques Derrida: La carte postale. Da Socrate a Freud e al di là, Mimesis 

Risvolto
"La Carte postale", testo inedito finora nella sua completa edizione italiana, propone una bizzarra trattazione dell'intreccio tra filosofia e psicoanalisi. Essa stessa consiste in un invio postale e tale motivo postale ripercorre, attraverso l'espediente di una miniatura che ritrae Platone intento a dettare a Socrate che paradossalmente scrive, la storia della filosofia da Socrate a Freud, proseguendo da un lato verso l'ontologia heideggeriana, mentre dall'altro verso la psicoanalisi lacaniana. Così Derrida concepisce una serie di retro di cartolina senza destinatario dal titolo Invii. A seguire due saggi, il primo Speculare - su Freud, è una riflessione su "Al di là del principio di piacere" di Freud; il secondo, "Il fattore della verità", dialoga con il seminario lacaniano sulla "Lettera rubata" di E. A. Poe. Infine un'intervista di René Major a Derrida dal titolo "Del tutto", che ripercorre il dialogo di Derrida con la scuola psicoanalitica francese.


Luca Romano huffington post

Cartoline erotiche da Derrida
Filosofi. Un libro in tre movimenti: il primo, straziato da una traduzione piena di errori, ricorda un romanzo epistolare che incorpori l’antica tradizione della lettere filosofiche 

Andrea Calzolari il manifesto 9.8.2015
Quando La Carte postale di Jac­ques Der­rida, ora edito da Mime­sis man­te­nendo, non si capi­sce per­ché, il titolo ori­gi­nale fran­cese (pp. 513, euro 28,00), uscì in Fran­cia nel 1980 destò non poche sor­prese: il filo­sofo rigo­roso e schivo che, nei volumi pre­ce­denti, aveva voluto non com­pa­ris­sero nem­meno le abi­tuali note bio­gra­fi­che in quarta di coper­tina – del resto erano gli anni in cui su «Tel quel», la rivi­sta della neo-avanguardia fran­cese a cui Der­rida col­la­borò tra il 1965 e 1971, si teo­riz­zava che è l’opera a fir­mare l’autore e non vice­versa – nella prima parte di que­sto libro, inti­to­lata Invii, pub­bli­cava un lungo epi­sto­la­rio ero­tico in cui, insieme a ser­rate e asi­ste­ma­ti­che anno­ta­zioni filo­so­fi­che, met­teva in piazza – o sem­brava met­tere in piazza – con nar­ci­si­stica impu­denza, sen­ti­menti, det­ta­gli bio­gra­fici, risvolti pri­vati della sua vita pub­blica, tic, risen­ti­menti e così via. 

Ma come appare fin dal titolo, le cose sono più com­pli­cate: que­ste let­tere, che si dicono scritte sul rove­scio di car­to­line postali, come tutte le car­to­line pos­sono infatti essere lette da chiun­que e pos­sono sem­pre non arri­vare a desti­na­zione; è una pos­si­bi­lità strut­tu­rale pro­pria a qua­lun­que let­tera, e in sostanza a qua­lun­que comu­ni­ca­zione. Alla tesi soste­nuta da Lacan nel cele­bre Semi­na­rio sulla «Let­tera rubata», secondo la quale una let­tera giunge sem­pre a desti­na­zione, Der­rida oppone l’eventualità che que­sto non suc­ceda: in altri ter­mini, la devia­zione non è neces­sa­ria, ma la pos­si­bi­lità di deviare è neces­sa­ria­mente iscritta in ogni invio. 
La tesi (i cui fon­da­menti teo­rici sono espo­sti secondo modi più con­ven­zio­nali nel volume in pole­mica con Searle, Limi­ted inc., 1988, tra­dotto da Cor­tina nel 1997) nella Carte postale è non solo enun­ciata, ma pra­ti­cata, per­for­mata: per que­sto Invii, ben­ché for­mi­coli di rife­ri­menti a per­sone e eventi reali, più che un epi­sto­la­rio vero e pro­prio, è qual­cosa di simile a un romanzo epi­sto­lare che incor­pori l’antichissima tra­di­zione della let­tere filo­so­fi­che; o anche, scrive lo stesso Der­rida richia­man­dosi a Nor­th­rop Frye, rimanda a una sorta di «ana­to­mia della car­to­lina» del genere esem­plar­mente rap­pre­sen­tato dall’Anatomy of Melan­choly: com­po­si­zioni che dalla satira menip­pea pren­dono l’amore per le com­pi­la­zioni enci­clo­pe­di­che, gli intenti paro­di­stici e le diva­ga­zioni incon­trol­late. A que­ste com­po­si­zioni, che ebbero un loro momento par­ti­co­lar­mente felice nell’età barocca, il libro di Der­rida si appa­renta anche per l’importanza attri­buita all’immagine del fron­te­spi­zio, che nel XVII secolo si diceva emble­ma­tica (ne ha scritto di recente Agam­ben), una carat­te­ri­stica ripresa da altri con­tem­po­ra­nei lavori fran­cesi e su cui biso­gne­rebbe riflet­tere: penso a Le parole e le cose che si apre con le pagine dedi­cate a Las Meni­nas, all’Anti-Edipo che si pre­senta con l’immagine del Boy with Machine di Lind­ner, o alle coper­tine dei Semi­nari di Lacan (di Ber­nini, Hol­bein e altri, tutte com­men­tate nel testo). 
Allo stesso modo, Der­rida, o meglio l’autore delle let­tere rac­colte in Invii, rac­conta di aver visto a Oxford la ripro­du­zione di una minia­tura di Mat­thew Paris (XIII sec.) sin­go­lare per­ché rap­pre­senta Socrate e Pla­tone in atteg­gia­mento oppo­sto rispetto alla tra­di­zione con­sa­crata: il primo è infatti intento a scri­vere, men­tre l’allievo, die­tro di lui, sem­bra sug­ge­rir­gli, se non impor­gli, quanto va scri­vendo. Que­sta imma­gine (la cui ripro­du­zione è poi la car­to­lina, acqui­stata a stock, su cui Der­rida scrive le sue let­tere d’amore) è a lungo com­men­tata e si pre­sta a diva­ga­zioni non solo su Socrate e Pla­tone (com­presa una discus­sione sull’autenticità delle let­tere pla­to­ni­che e sulle dot­trine non scritte), ma anche, più in gene­rale, sulla que­stione dell’eredità intel­let­tuale dei grandi pen­sa­tori, in par­ti­co­lare di Freud, e sulla pre­tesa di essere il suo unico auten­tico erede da parte di Lacan. La severa cri­tica di quest’ultimo (sfo­ciata in un vero e pro­prio scon­tro tra i due), era stata già svi­lup­pata nel Fat­tore della verità (pub­bli­cato su Poé­ti­que nel 1975), minu­ziosa disa­mina del Semi­na­rio sulla «Let­tera rubata» ripro­po­sta come terza parte di que­sto volume, che pre­senta, nella seconda parte (Spe­cu­lare – su Freud), un semi­na­rio sull’opera del 1920, Al di là per prin­ci­pio di pia­cere, mirato a evi­den­ziare le radici filo­so­fi­che delle dot­trine freu­diane (e quindi a deco­struirne l’impianto meta­fi­sico). In que­sto senso il libro, con cui Der­rida cerca di met­tere a fuoco il suo com­plesso rap­porto con Freud, è la pro­se­cu­zione di un’opera intra­presa dal filo­sofo fin dagli esordi, dove da una parte cri­tica la meta­fi­sica (che intende sostan­zial­mente in senso hei­deg­ge­riano), dall’altra denun­cia i fon­da­menti meta­fi­sici dello strut­tu­ra­li­smo allora impe­rante (attac­cando senza esi­ta­zione mostri sacri come Lévi-Strauss, Fou­cault, Ben­ve­ni­ste e, appunto, Lacan), per riven­di­care, se non il pri­mato, l’ineliminabile por­tata dell’istanza filo­so­fica, di cui troppo spesso si pre­ten­dono indenni le cosid­dette scienze umane. 
Qual­che parola sul rap­porto con Hei­deg­ger, al quale pro­prio in que­sto libro Der­rida dichiara di sen­tirsi con­tem­po­ra­nea­mente il più vicino e il più lon­tano pos­si­bile, sarebbe oppor­tuna se non si sosti­tuisse a que­sta prio­rità l’obbligo di fer­marsi sulla tra­du­zione. Non a caso si sono aspet­tati tren­ta­cin­que anni prima di tra­durre il libro: lo spes­sore let­te­ra­rio della prima parte pre­senta senz’altro seri pro­blemi di inter­pre­ta­zione, men­tre sono rela­ti­va­mente più piani gli altri due testi com­presi nel volume, non a caso già tra­dotti (Spe­cu­lare su Freud, Cor­tina 2000; Il fat­tore della verità, Adel­phi 1978). Ben­ché già esi­stano la ver­sione tede­sca, inglese, spa­gnola, resta il fatto che, se tra­durre Der­rida non è mai facile, tra­durre que­sto Der­rida è dif­fi­ci­lis­simo: ciò pre­messo, non tutti i curatori-traduttori (Luana Astore, Fede­rico Mas­sari Luceri e Fede­rico Viri, dot­to­randi di ricerca in filo­so­fia) sono stati all’altezza del compito. 
Men­tre la ver­sione del Fat­tore della verità a cura di Mas­sari Luceri è più che digni­tosa, la tra­du­zione delle altre parti, in par­ti­co­lare della prima (dovuta ad Astore e Viri), lascia alli­biti: per esem­pio: plume (ter­mine che ricorre spes­sis­simo nel libro e che, come si sa, cor­ri­sponde all’italiano «penna») è reso senza ecce­zioni con «piuma»; arrêt de mort rego­lar­mente con «arre­sto di morte»; souf­fler con «sof­fiare» anche quando signi­fica «sug­ge­rire» e «respi­rare», adresse con «indi­rizzo» anche quando signi­fica «abi­lità»; càpita che col­lec­tion­neurs (di car­to­line postali) sia reso con «col­le­zio­na­tori» (più avanti hanno sco­perto che in ita­liano si dice «col­le­zio­ni­sti», ma non sono tor­nati a correggersi).Talvolta si sfiora invo­lon­ta­ria­mente il comico, come quando m’envoyer pro­me­ner (cioè «man­darmi a girare»), viene tra­dotto con «inviarmi a pas­seg­giare»; oppure quando si parla di un qua­dro appeso al muro «poco sopra il segre­ta­rio» (che è ovvia­mente un secré­taire); o ancora quando si dice che Ester, nel libro omo­nimo della Bib­bia, ha fatto «pen­dere» («impic­care», natu­ral­mente) il mal­va­gio Haman. 
Forse i tra­dut­tori, che in una nota dichia­rano, con invi­dia­bile sicu­rezza circa il signi­fi­cato dell’espressione, di aver cer­cato d’esser fedeli «alla let­tera» dell’originale, sono stati indotti a pre­stare un’attenzione esa­ge­rata a gio­chi di parole, omo­fo­nie, costel­la­zioni eti­mo­lo­gi­che a sca­pito della leg­gi­bi­lità dell’italiano; ma que­sta aspi­ra­zione si accom­pa­gna pur­troppo anche a una disin­vol­tura nei con­fronti della mor­fo­lo­gia e della sin­tassi fran­cesi che non sem­bra affatto pre­oc­cu­pata della fedeltà, tant’è vero che si con­fon­dono futuro e con­di­zio­nale, pre­sente e pas­sato remoto, addi­rit­tura il sopra e il sotto (almeno tre volte), il comme com­pa­ra­tivo e il comme cau­sale, il si con­giun­zione e il si avver­bio e così via, con risul­tati ora di nuovo comici (eredi zelanti di Joyce avreb­bero fatto eri­gere una sua sta­tua in gran­dezza natu­rale «al di sotto» della sua tomba a Zurigo), ora del tutto assurdi: tout ce qui s’envoie bon gré mal gré fait la loi…, per esem­pio, diventa «tutto ciò che s’invia di buon grado mal­grado la legge…»; Aucune théo­rie rigou­reuse de la “récep­tion”, si néces­saire soit-elle cepen­dant, ne vien­dra à bout de cette littérature-là, diventa «nes­suna teo­ria rigo­rosa della ‘rice­zione’, se neces­sa­ria che sia tut­ta­via, non arri­verà a capo di que­sta let­te­ra­tura»; per non dire dei casi in cui sem­bra non ci si renda nem­meno conto di cos’è ciò di cui si sta par­lando, come quando per ben due volte nella stessa pagina il comi­tato segreto che avrebbe dovuto vigi­lare sull’ortodossia psi­coa­na­li­tica, cosid­detto dei sette anelli (in fran­cese anneaux: i sette mem­bri por­ta­vano tutti anelli simili), diventa il «comi­tato dei sette anni»; o ancora quando si fa dire a Der­rida che il «nostro amico» (cioè Nie­tzsche) ha spie­gato effi­ca­ce­mente «per­ché Ari­sto­fane era per Socrate il più grande dei sofisti». 
Sarebbe pos­si­bile ma inge­ne­roso mol­ti­pli­care gli esempi di una tra­du­zione che fa torto non solo a Der­rida, ma anche ai suoi autori: per­ché sor­prende, soprat­tutto, che nes­suno abbia dato un’occhiata al lavoro prima che andasse in stampa. Così, è fran­ca­mente illeg­gi­bile. Una seconda edi­zione radi­cal­mente rive­duta e cor­retta sarebbe assai utile per­ché La Carte postale resta un libro impor­tante per capire lo svi­luppo della filo­so­fia occi­den­tale nella seconda metà del XX secolo.

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