Riccardo Rao:
I paesaggi dell’Italia medievale, Carocci
Risvolto
Castelli e chiese, città e villaggi, boschi e campi, foreste dei re e
beni comuni: il filo rosso che consente di orientarsi nei mille volti
del Medioevo è costituito dalla capacità dell'uomo di popolare lo spazio
e di costruire paesaggi pensati su misura per le collettività, rurali e
cittadine, che abitano nei territori locali. I molteplici paesaggi
dell'Italia medievale nei differenti contesti regionali, dal Nord al Sud
della Penisola - sono oggetto di una continua trasformazione. Dalla
caduta dell'Impero romano d'Occidente, quando l'eredità di Roma e
dell'Antichità risulta ancora ben visibile, passando per l'età dei
comuni urbani, che modellano non solo la città, ma anche le campagne,
imprimendovi l'immagine del governo collettivo, fino agli ultimi
complessi secoli del Medioevo, segnati dal calo demografico dovuto alla
peste nera (1348), in cui si affermano nuove gerarchie insediative e
nuove colture: lungo un percorso millenario di cambiamento si disegna un
volto inedito per le città e le campagne della Penisola. Nei paesaggi
che il Medioevo consegna ai secoli successivi già si possono leggere
molti degli elementi che ancora oggi caratterizzano il mondo in cui
viviamo.
Nel medioevo le foreste diventarono una risorsa di primaria importanza
L’editto di Rotari, la diffusione degli alberi di castagno, il fattore demografico
di Paolo Mieli Corriere 13.10.15
Nell’antichità, salvo qualche eccezione, i boschi erano visti come
luoghi selvatici dai quali non potevano venire che insidie, sotto forma
di belve o di uomini crudeli. E fu prevalentemente dai boschi che
giunsero i barbari affossatori dell’impero romano. Poi però quei barbari
insegnarono agli sconfitti ad apprezzare quegli insiemi fino ad allora
incontaminati di alberi e cespugli. Fu da quel momento che iniziò quella
civilizzazione del bosco di cui si occupa magistralmente Riccardo Rao
in I paesaggi dell’Italia medievale (peraltro dedicato anche a chiese,
monasteri, castelli, villaggi e città) che sta per essere pubblicato da
Carocci. «Il mondo classico», scrive Rao, «destinava al bosco, che pure
forniva risorse fondamentali per il sostentamento delle popolazioni,
spazi marginali, attribuendogli una connotazione negativa: per la
cultura dominante esso era il luogo della natura selvatica che si
contrapponeva alla civiltà». Con la fine del mondo antico, prosegue
l’autore, e con i primi secoli del Medioevo, «i boschi assumono una
centralità nuova, che non è solo economica ma anche culturale: essi
iniziano a essere pensati come uno spazio positivo, capace di creare
luoghi dove la natura può convivere in equilibrio con l’uomo». In
principio l’interesse umano era stato di tipo alimentare: i Romani si
erano distinti per l’introduzione del castagno. E paradossalmente i
primi secoli del Medioevo si segnalano per il «forte regresso» proprio
di quel genere di albero «non più incrementato da una popolazione ormai
meno bisognosa, per il calo demografico, di tale integrazione
alimentare». Stesso discorso vale per il noce. Piante che però
sopravvivono, sia pure in un diverso equilibrio con il resto degli
alberi. E che, come vedremo, torneranno.
Poi arriva la novità. Nei primi secoli del Medioevo «i boschi assumono
un’inedita centralità rispetto all’epoca classica, legata al rilievo
economico delle attività silvo pastorali e alla gestione dei patrimoni
regi». L’avanzata dei boschi nei primi secoli del Medioevo «coincide con
la loro valorizzazione, non solo economica, ma anche culturale»: essi
vengono percepiti con una «valenza positiva» come non accadeva nel mondo
romano. Nell’Alto Medioevo si diffonde una parola nuova per designare i
vasti spazi boschivi di pertinenza regia: foresta. È la pertinenza
regia che fa la differenza. Durante il regno longobardo in Italia
(569-774) i sovrani «sviluppano una notevole attenzione per la gestione
degli incolti». Il «gaggio» (così viene definito il bosco ai tempi dei
Longobardi) si presenta come uno spazio economico complesso, per il
quale gli ufficiali del sovrano dispongono una severa regolazione. Non
sono soltanto «vaste superfici boschive dove i re si recano a caccia a
loro piacimento e i contadini raccolgono liberamente la legna», bensì
«risorse che la monarchia gestisce, disponendone la valorizzazione
economica o la concessione ad aristocratici, chiese e comunità di uomini
liberi per intessere relazioni politiche e devozionali». È in questa
fase storica che il bosco diventa davvero importante. Il termine
foresta, però, si diffonderà in maniera più massiccia nei secoli IX e X,
dopo la conquista da parte di Carlo Magno del regno dei Longobardi.
Ma facciamo un passo indietro. Per rendersi conto del ruolo assunto dai
boschi in Occidente durante i primi secoli del Medioevo, scrive Rao, si
deve guardare alle raccolte di leggi prodotte dai regni
romano-barbarici, che dedicano ampio spazio allo sfruttamento delle
specie arboree. Le codificazioni del resto d’Europa, come quella dei
Burgundi (il cui regno si estendeva dalla Svizzera alla Borgogna)
prevedono per lo più poche regole di tutela, limitate alle essenze
nobili quali pini e abeti; quella longobarda — voluta dal re Rotari con
l’editto del 643 — «rivela tutta la specificità del paesaggio nella
Penisola che ancora è percepito come l’orto del Mediterraneo». L’editto
di Rotari è spesso interpretato come un testo conservativo, volto a
riportare in maniera fedele le leggi orali che i Longobardi si erano
dati nel corso del loro stanziamento nelle pianure dell’Europa centrale,
prima di migrare nel 568-569 al di qua delle Alpi. Un’interpretazione
respinta da Rao. Per il quale invece l’editto di Rotari ha un «carattere
innovativo» che «tiene conto dell’avvenuto processo di integrazione tra
la popolazione barbarica e quella romana». La severa regolamentazione
dell’uso delle risorse boschive, che tutela soprattutto gli alberi
fruttiferi come olivi e castagni e la sensibilità di alcune disposizioni
per le specie, come la vite, più caratteristiche del suolo italico,
confermano che questa legislazione «ha ben presente le specificità del
paesaggio peninsulare». Paesaggio che — ha scritto Paola Galetti in
Civiltà del legno. Per una storia del legno come materia per costruire
dall’antichità a oggi (Clueb) — è caratterizzato da una varietà molto
maggiore di spazi agrari rispetto al resto dell’Occidente medievale.
Vengono considerati sempre più «centrali» i maiali e i cavalli. Ai
maiali allevati allo stato brado nei querceti e nei faggeti, nell’editto
di Rotari, sono dedicati ben sette articoli. Ai cavalli addirittura
dodici. È l’inizio della creazione di «peculiari boschi pascolivi».
A dispetto delle apparenze, i prati a faggeta di quell’epoca sono
tutt’altro che naturali. Sul prato che fa da pascolo vengono fatti
crescere alberi di faggio e querce, funzionali alla produzione di
ghiande per i maiali e di foglie usate come foraggio durante l’inverno. I
prodotti dell’incolto, dei boschi e dei pascoli — come ha documentato
Massimo Montanari in Alimentazione e cultura nel Medioevo (Laterza) —
arrivano sulle tavole dei ricchi e dei poveri, a partire dalle carni il
cui consumo è promosso dalle nuove abitudini alimentari introdotte dai
barbari rispetto alla dieta romana. Potremmo dire, sottolinea Rao, che i
contadini di quest’epoca stessero molto meglio rispetto ai loro
colleghi di età classica e a quelli dei secoli XII e XIII per la varietà
di alimenti che erano in grado di portare sulle loro tavole.
Arriva poi il momento dei primi disboscamenti. Vito Fumagalli in Coloni e
signori nell’Italia settentrionale (Pàtron editore) ha ben descritto
quello voluto dagli abati del monastero di Nonantola nella selva di
Ostiglia (un’area paludosa ombreggiata in prevalenza da pioppi, ontani,
salici, tigli e olmi). Nella prima metà del IX secolo il monastero
stipula con i coloni contratti che prevedono in maniera specifica la
bonifica dell’area. Attraverso il parziale abbattimento della «boscaglia
infruttuosa», la costruzione di case recintate e dotate di orti,
l’impianto della vite e lo scavo di canali di drenaggio. Cosa era
successo? «I vasti spazi boschivi, che durante i primi secoli del
Medioevo avevano occupato buona parte dell’Italia e dell’Europa, si sono
via via popolati e devono essere messi a coltura attraverso il
disboscamento». I dissodamenti e la «trasformazione degli incolti in
campi vanno di pari passo con la creazione di nuovi insediamenti: le
abitazioni degli uomini si distendono sulle terre precedentemente
ricoperte dalle foreste». I «disboscamenti virtuosi» (virtuosi in quanto
rispettosi del complesso naturale) avviati tra il IX e il XIII secolo —
circa cinquecento anni! — «non sono soltanto un momento di
trasformazione del manto vegetale, ma soprattutto uno degli snodi
decisivi del popolamento dell’Occidente medievale, che dà un volto nuovo
alla trama insediativa nel suo complesso, ancora ben leggibile nel
paesaggio contemporaneo». Poi, tra il XII e il XIII, secolo inizia un
periodo di temperature miti che favorisse «l’antropizzazione dei
territori ubicati alle quote più elevate». Il consistente afflusso di
popolazioni sveve e bavare favorisce la costituzione di aree
plurietniche, con insediamenti di contadini di origine germanica a
fianco di altri abitati da popolazioni latine. È in quest’epoca che
sulle Alpi, tra Piemonte e Lombardia, i Walser, un popolo di lingua
tedesca, fondano nuovi villaggi ed estendono le loro coltivazioni sui
suoli boscosi. Tra il XII e il XIII secolo, i disboscamenti si spingono
in quota, «senza stravolgere tuttavia le caratteristiche di tali aree,
dove boschi e incolti continuano a essere dominanti». Lo stesso manto
forestale «viene riqualificato con l’espansione o la salvaguardia di
specie utili all’economia montana, quali gli abeti, che danno un legno
pregiato venduto nei cantieri navali, o l’acero montano, coltivato nei
pressi dei punti di stazionamento dei pastori perché con le sue fronde
ombrose favorisce la conservazione dei prodotti caseari e offre un
valido nutrimento per gli animali».
Durante il periodo di crescita demografica torna ad essere piantato il
castagno, l’albero che avevamo visto già valorizzato dai Romani e poi
alquanto trascurato. La pressante richiesta di derrate alimentari da
parte di una popolazione sempre più numerosa produce quella che può
essere definita la «rivoluzione del castagno». In Italia esistono almeno
una quarantina di comuni — a partire da Castagneto, di cui c’è una
prima traccia nel 754 — che testimoniano fin nella toponomastica il
successo di quell’albero che garantisce ottime rese alimentari. Nel XII
secolo questa «rivoluzione» sarà ancora più evidente. Al culmine della
pressione demografica e dei dissodamenti, la coltivazione del castagno
si estende alla collina e alla montagna, in presenza di suoli scoscesi
che non consentono i disboscamenti e la creazione di campi. In pianura
le superfici disponibili vengono coltivate a cereali, mentre sui rilievi
la conversione del bosco a castagno si fa più intensa. Fra il XII e il
XIII secolo, in tutta la Penisola, foreste di abeti, frassini, faggi,
betulle, sambuchi e querce si trasformano in castagneti.
Il castagno protegge dalla carestia, «fornendo un’importante
diversificazione alimentare rispetto ai cereali»: le cattive annate del
grano, che viene raccolto in estate, non coincidono con quelle delle
castagne, che maturano soltanto in autunno. La «rivoluzione del
castagno» ha due fasi. Nella prima (750-1100) «si diffonde quasi
ovunque, anche sui suoli di pianura, senza tuttavia assumere un ruolo
determinante nell’organizzazione paesaggistica ed economica delle
società locali». Nella seconda fase (1100-1300) l’avanzata del castagno è
più mirata, dal momento che si concentra nelle zone collinari e
montane, ma avviene in maniera così consistente da determinare in tali
aree una vera e propria civiltà del castagno». E dal frutto di
quell’«albero dei poveri» si comincia a trarre una farina da cui si
ottiene un pane scuro che consente di affrontare l’inverno in uno stato
di relativo ottimismo. Ha osservato Samuel K. Cohn che molti ritengono
che le popolazioni di montagna di quel periodo storico siano
estremamente povere. Errore: in realtà nel Basso Medioevo la loro
maggiore complessità paesaggistica e i benefici che ne derivano le
rendono più solide.
Più solide al punto, ed ecco la seconda rivoluzione, che possono
permettersi di dar vita a prime forme di cultura ecologista, volte a
preservare alcune specie arboree messe a rischio dalle trasformazioni.
Il primo documento «verde» è del 1033, contenuto in un atto con il quale
il vescovo di Modena concede in affitto terre boscate, mettendo per
iscritto una clausola che prescrive ai contadini di adoprarsi affinché
«le querce più grandi siano custodite e le più piccole lasciate
crescere». Una preoccupazione simile emerge da un documento del 1113
(ottant’anni dopo il primo) con cui Matilde di Canossa ordina ai monaci
di San Benedetto di Polirone, vicino al fiume Po, di «tagliare ogni anno
non più di dodici esemplari tra roveri e cerri in un bosco poco
distante dal monastero». Certo, avverte Riccardo Rao, «tali disposizioni
non rispondono a una sensibilità ecologica in senso moderno; non si può
dire che esistesse una vera e propria consapevolezza ambientale… Si
tratta piuttosto di una forma di ecologia volta alla salvaguardia di
risorse paesaggistiche che hanno un ruolo centrale nel sistema economico
locale». Comunque non è poca cosa. Anche perché questa sensibilità
tenderà a crescere. Le normative prodotte nel Duecento e nei primi
decenni del Trecento, quando i coltivi raggiungono le superfici più
ampie, «accordano una speciale protezione al bosco», proibendo o
limitando fortemente l’abbattimento degli alberi e — come ha ben
documentato Rinaldo Comba in Metamorfosi di un paesaggio rurale (Celid) —
vietando esplicitamente i disboscamenti in alcune aree dei territori
comunali. Dopodiché dalla fine del Medioevo e dall’inizio dell’età
moderna verrà un’epoca di disboscamenti selvaggi. Sempre di più. Su
tutto il pianeta. E quest’epoca durerà seicento anni. Con qualche
ripensamento (peraltro ancora insufficiente) verso la fine del
millennio.
Il recente dossier Global Forest della Fao (ne ha riferito qualche
giorno fa su queste pagine Sara Gandolfi) denuncia che le foreste del
mondo continuano a ridursi, tant’è che nel complesso sono andati perduti
129 milioni di ettari boschivi, un’area grande come il Sudafrica. Ma
negli ultimi venticinque anni il tasso di deforestazione globale netto
si è ridotto di oltre il 50% e sono aumentate le aree protette. Un dato
di grande rilievo, dal momento che le foreste contribuiscono con circa
600 miliardi di dollari l’anno al Pil mondiale, offrendo lavoro a oltre
cinquanta milioni di persone. Ma a noi piace pensare che il freno posto
alla deforestazione senza freni sia dovuto, almeno in parte, a un
recupero di sensibilità medievale.
La genesi sociale per il paesaggio italiano Ultravista. Alcuni saggi studiano come per gestire il nostro patrimonio paesaggistico sia opportuno individuare le radici dell'attuale fisionomia per capire per quali ragioni storiche si è formata Alessandro Barile Manifesto Alias 30.1.2016, 1:41
Generalmente inteso come risorsa da preservare, il «paesaggio», quello italiano in particolare, si è trasformato nel principale asset nazionale volto ad intercettare i flussi del turismo globale. Nel tempo però è avvenuto uno slittamento interpretativo del concetto di paesaggio, che ha finito per indicare con tale termine esclusivamente una serie di forme e un’estetica caratterizzante. In realtà il paesaggio è il frutto di una relazione sociale, il prodotto sempre mutevole dello scambio costante tra necessità dell’uomo e il proprio territorio di sopravvivenza. Non esiste allora un paesaggio «incontaminato», e soprattutto, laddove questo si è presentato storicamente, non tende al «bello» ma piuttosto all’incuria e al disordine. È allora oggi opportuno individuare le radici dell’attuale fisionomia paesaggistica italiana, per capire come si è formata e per quali ragioni storiche, così da trovare risposta a una delle domande ricorrenti di questi anni: come si gestisce un patrimonio paesaggistico? Secondo Riccardo Rao, professore di storia medievale all’università di Bergamo e autore del saggio «I paesaggi dell’Italia medievale», l’origine dell’attuale paesaggio italiano va indicata nel Medioevo, perché è proprio in questa straordinaria epoca di trasformazione che le popolazioni danno vita ad un contesto territoriale al tempo stesso collettivo e locale, capace di fare fronte al disgregamento politico ed economico successivo alla fine dell’unità imperiale. È una storia sociale del paesaggio quella che propone l’autore, raccogliendo sapientemente la lezione delle Annales. Negli anni Ottanta Denis Cosgrove, padre della New Cultural Geography, individuò un cambio di paradigma dimostrando che alla base dell’idea di paesaggio, fin dalle sue origini rinascimentali, vi è «un atteggiamento ideologico basato sulla distinzione tra insider e outsider, ossia fra chi produce e vive quotidianamente il paesaggio senza riconoscerlo come tale (per esempio il contadino) e chi invece lo guarda da lontano, dall’esterno con un apprezzamento estetico (il bel paesaggio) che è tuttavia funzionale a determinate scelte economiche. Il paesaggio diventa così la visione dell’outsider che attraverso questo tipo di rappresentazione, oltre a riconoscere un ordine nel mondo che contempla, esercita un controllo sociale sul territorio, sottraendolo ai produttori e curatori del paesaggio» (Rocca 2013). Questa distinzione viene indicata semanticamente col passaggio dal landshaft (parola tedesca indicante la comunità che plasma un territorio) al landscape (termine inglese con cui si individua lo sguardo distaccato su un luogo). Raccogliendo tale traccia, Riccardo Rao analizza gli elementi che hanno determinato la genesi del paesaggio italiano medievale. L’Europa altomedievale dei secoli V-VIII si presenta come contesto di depressione economica e demografica che impone un territorio in cui il bosco e gli incolti prendono il sopravvento e dove i fiumi lasciati al loro corso rompono gli argini creando ampie zone paludose. Prendono forma quei «paesaggi della paura» indicati dallo storico Vito Fumagalli dominati dalla natura e dagli animali. In tale ambiente la sapienza umana adatta una propria economia di sussistenza che trasforma il bosco in habitat positivo, incolti e paludi in opportunità di pascolo e di caccia, producendo paradossalmente una dieta contadina migliore di quella bassomedievale e rinascimentale. Con la fine del mondo antico il bosco assume una centralità nuova, che non è solo economica ma anche culturale, dove la natura può vivere in equilibro con l’uomo. Si intensificano le attività silvo-pastorali a scapito di quelle agricole. Lentamente si avvia una fase di accentramento insediativo che porta alla nascita dei primi villaggi che caratterizzeranno il panorama abitativo altomedievale, e bosco e incolti prenderanno la forma di beni comuni accessibili a tutti gli abitanti del villaggio. Proprio la gestione collettiva di questi beni comuni porterà alla formazione dei primi comuni cittadini, che non devono dunque essere visti come specifico paesaggio antropizzato, ma anzitutto «come paesaggio che organizza la società: attraverso le forme di condivisione dei boschi e dei pascoli, tramite le regole stabilite per il loro utilizzo, la società di villaggio prende forma», e con essa la modernità (pag. 162). L’espansione demografica dei secoli centrali del Medioevo conduce al progressivo disboscamento delle sterminate distese forestali in favore degli spazi coltivabili determinati dalla costante espansione agraria. Il villaggio, simbolo insediativo altomedievale, lascia il posto alla curtis (o villa), l’azienda agraria che si sviluppa a cavallo tra l’VIII e il X secolo, che estende la pratica della rotazione triennale e del maggese migliorando le rese dei raccolti. La contestuale espansione delle città e la loro eccezionale richiesta di beni alimentari trasforma le campagne che si mettono al servizio delle civitas stabilendo un rapporto di subordinazione delle campagne agli interessi economici urbani. Le attività legate al bosco e al pascolo si riducono drasticamente mentre si amplia la parte di territorio messa a coltura cerealicola. L’accentramento insediativo lascia progressivamente il posto ad una nuova geografia insediativa disgregata e policentrica, diffusa capillarmente sul territorio. Si affermano dal nord al sud della penisola le cascine, i poderi mezzadrili e le masserie, sempre più controllate da proprietari terrieri al servizio dei mercati cittadini. Si avvia quella rottura della dimensione collettiva e locale, in favore di una proprietaria e accentrata, che porterà alla trasformazione del paesaggio medievale generando quei «paesaggi della specializzazione», con l’indirizzo di alcuni territori verso produzioni particolari ed esclusive. Questo rapido excursus ci consente alcune rapide conclusioni. Il paesaggio che prende forma nel Medioevo, sopravvivendo in alcuni tratti ancora oggi, è un paesaggio sostanzialmente rurale, che significa in buona misura un paesaggio alimentare. Sono le necessità umane che plasmano il territorio e ne condizionano la sua forma e la sua funzionalità. Mentre però fino al termine del Medioevo questo paesaggio era al tempo collettivo e locale determinandone un suo equilibrio, con l’affacciarsi dell’età moderna e l’avvio della pratica delle recinzioni dei beni comuni questo paesaggio non viene incrinato solamente dal punto di vista ecologico, ma anche sociale. La privatizzazione del territorio (nota col termine enclosure), impone la scomparsa dei villaggi e la nascita di una massa contadina salariata in costante migrazione verso le città, deteriorando l’equilibrio territoriale complessivo. Riprendendo una fortunata immagine coniata da Thomas More nel Cinquecento per descrivere il processo di recinzione inglese, «le pecore (hanno) mangiato gli uomini». Da qualche tempo ne stiamo pagando le conseguenze.
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