La cultura postmoderna sembra voler fare di tutto per scatenare una (comunque errata e vana) reazione fondamentalistica di stampo tradizionalista [SGA].
La perdita del centro psichico così l’Io è diventato liquido
di Massimo Recalcati Repubblica 13.10.15
IL NOSTRO tempo sembra vivere, come ha mostrato anche Bauman,
l’esasperazione del carattere liquido dell’identità: cambiamento di
sesso, di pelle, di razza, di religione, di partito, di professione, di
immagine. Anche il New York Times recentemente si pone la domanda: «Chi
crediamo di essere?». L’identità vacilla, barcolla, diventa un concetto
sempre più mobile, borderline.Mentre l’età moderna aveva sempre ricercato una identità (anima,
spirito, cogito, ragione, Io) che avesse, come scrisse Descartes, la
stessa solidità della roccia sotto la sabbia, nel tempo ipermoderno,
quale è il nostro, l’identità si pare dissolversi in un camaleontismo
permanente. Anche il contributo della psicoanalisi, almeno per un verso,
sospinge in questa direzione: la malattia psichica non deriva tanto da
una liquefazione dell’identità, ma da un suo rafforzamento. Non è il
deficit dell’Io a causare la sofferenza mentale, ma una sua
amplificazione ipertrofica. Lacan scherniva la supponenza identitaria
dell’Io quando ci ricordava che se un pazzo che crede di essere
Napoleone è chiaramente un pazzo, ma non lo è affatto di meno un re che
crede di essere un re.
Freud si era una volta paragonato a Copernico e a Darwin come
fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva inferto il primo colpo
mostrando che la terra non è il centro dell’universo; Darwin il secondo
affermando la nostra derivazione dai primati. Ma il passo più scabroso e
decisivo, nel limitare le ambizioni narcisistiche dell’Io, fu quello di
Freud che ha evidenziato come l’Io non sia «padrone nemmeno in casa
propria ». L’identità dell’Io non è un centro statico dal quale si
irradia la personalità; essa assomiglia piuttosto ad un arlecchino
servitore di tre padroni: tirato dall’Es, dal Super-Io e dalla realtà
esterna in direzioni differenti e spesso inconciliabili. Su queste orme
Lacan concepirà l’Io non come il custode del nocciolo duro della nostra
identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di
piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun
cuore solido. Per questa ragione egli riteneva che la «follia più
grande» dell’uomo è quella di «credersi davvero un Io».
Se però l’Io non è più il centro permanente della nostra vita psichica
tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide.
L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari è probabilmente l’elogio
filosoficamente più alto di questa nuova prospettiva: l’identità
concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo
autoritario e disciplinare dell’età moderna e della sua paranoia
costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica,
rizomatica, senza Legge, della vita. Anziché vivere con angoscia la
perdita di centro essa viene salutata come una grande possibilità di
apertura e di liberazione. Nondimeno, come il rovescio di una stessa
medaglia, questa evaporazione dell’Io innesca — come esito di un
movimento reattivo che Bauman non ha colto sufficientemente — l’esigenza
di trovare una identità solida. Il vento del fondamentalismo spira
chiaramente in questa direzione: il dubbio, la scomposizione della
personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il
posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere
incrinature. Noi siamo quello che pensiamo di essere, punto. L’Io torna
ad essere padrone più che mai non solo in casa propria, ma anche in
quella degli altri. Si riabilita così una concezione paranoica
dell’identità fondata sull’esistenza, altrettanto solida, dei suoi
“nemici” più irriducibili. Si tratta di una riabilitazione che può
risultare altamente attrattiva anche per un Occidente che ha perduto il
suo centro identitario. Nietzsche ci aveva ammoniti: verrà un tempo dopo
la morte di Dio — dopo la perdita irreversibile del “centro” — dove gli
uomini adoreranno la sua ombra in lugubri caverne afflitti dalla
nostalgia di un mondo che non esiste più. Anziché vivere le turbolenze
del mare aperto essi cercheranno porti sicuri per le loro barche.
Siamo tutti “trans” o “bi” o “poli-ambi-omni” in una fusione di ruoli o somma di parti Chi crediamo di essere, ha domandato il premio Pulitzer Wesley Morris sul “New York Times”
Sull’orlo di una crisi d’identità
Dall’ex
campione Bruce Jenner oggi Caitlyn alla bianca che si finge nera, nel
2015 le linee di confine in materia di genere, sesso e razza sono state
messe in discussione
Ma la confusione spesso si è rivelata un vantaggio
di Enrico Franceschini Repubblica 13.10.15
LONDRA “PENSO, dunque sono” è il manifesto dell’Homo Sapiens. Ma quando
l’uomo e la donna d’oggi si chiedono “chi sono” esattamente, o meglio
“cosa sono”, la risposta è più complicata. Caitlyn Jenner è una donna,
una delle più popolari del web, con milioni di follower su Twitter, ma
era un uomo, il campione olimpionico Bruce Jenner, fino a quando non ha
annunciato di avere cambiato sesso. Rachel Dolezal era un’attivista dei
diritti dei neri, una fra le loro più note e determinante rappresentanti
in America, fino a quando i suoi genitori non hanno mostrato al mondo
il proprio volto di bianchi, smascherandola come una truffatrice o una
mitomane: sebbene non manchino sostenitori secondo cui Rachel è
semplicemente transracial , transrazziale, qualunque sia il significato
del termine. Un personaggio immaginario, Atticus Finch, era l’avvocato
bianco protagonista del romanzo di Harper Lee Il buio oltre la siepe ,
un classico del ‘900 e uno dei più forti simboli della lotta contro il
razzismo negli Stati Uniti: «In questo paese nelle aule dei tribunali
gli uomini sono tutti uguali», la sua arringa per difendere un nero
ingiustamente accusato di avere stuprato una donna bianca, è stata una
fonte d’ispirazione per generazioni di giovani che hanno scelto di
studiare giurisprudenza nella speranza di contribuire a creare un mondo
migliore; ma nel sequel della Lee uscito pochi mesi fa, Va’, metti una
sentinella , si scopre che Finch è diventato, o forse era sempre stato,
un po’ razzista anche lui. Il crollo di un mito? O la riprova che tutti
sono più contraddittori e complessi di quanto sembri? E che la
confusione, invece di spaventarci, deve farci sentire più umani, se non
anche più forti?
Il 2015 è stato l’anno della crisi di identità: l’anno in cui titoli dei
giornali e avvenimenti culturali ci hanno messi a confronto con la
flessibilità delle linee di confine in materia di genere, sesso, razza e
perfino reputazione. Naturalmente le frontiere dell’identità, sessuale,
razziale o personale, non sono mai state perfette neanche prima, ma
negli ultimi tempi la questione è emersa con prepotenza in diverse
circostanze e a differenti latitudini, portandola all’attenzione delle
cronache e alle riflessioni di commentatori, sociologi, psicologi. «Chi
crediamo di essere? », domanda provocatoriamente Wesley Morris,
vincitore del premio Pulitzer, sul New York Times , per rispondersi che
oggi non sempre corrispondiamo all’immagine che vediamo riflessa nello
specchio delle nostre aspettative: siamo tutti, o quasi, un po’ “trans”
qualcosa, un po’ “bi” qualcosa, “poli-ambi- omni”, in una fusione di
ruoli, somma di parti, cocktail di ragioni ed emozioni.
Gli esempi vanno ben oltre i casi eclatanti di Caitlyn Jenner, Rachel
Dolezal o del nuovo romanzo di Harper Lee. L’identità più fluida e
malleabile affiora ovunque, dagli sketch di Amy Schumer alla tivù
americana, che riconsiderano la confusione dei generi e dei
comportamenti (la promiscuità ti rende macho o puttana?); a Robert De
Niro che interpretando uno stagista 70enne nell’ultimo film di Nancy
Meyers, The intern , incoraggia la sua giovane boss Anne Hattaway a non
sacrificare la carriera per la famiglia, con una logica femminista degna
di Lena Dunham, l’attrice-sceneggiatrice del serial cult Girls ; a Ryan
Adams che fa il remake di un album di Taylor Swift, voce maschile per
una prospettiva femminile, seguendo il trend di cantanti androgini come
Le1f, Stromae e Shamir, per tacere di Conchita Wurst, la drag queen con
la barba, vincitrice dell’Eurovi- sion Song dell’anno scorso.
È un fenomeno che viene da lontano, cresciuto gradualmente nel corso di
un decennio in cui le nuove tecnologie, digitali e non, ci hanno aiutati
a costruire identità ausiliarie: una “second life”, un altro-io, un
avatar di noi stessi, talvolta simile all’originale, altrimenti diverso o
addirittura opposto. La chirurgia estetica altera forme e lineamenti.
Photoshop cambia i nostri profili online facendoci più belli, più alti,
più snelli. Facebook e Twitter generano identità fasulle, posticce,
inesistenti, fanno rivivere Albert Einstein, Elvis Presley, Marylin
Monroe, che cinguettano i propri pensieri sui social network come se non
ci avessero mai lasciati. Gli hacker rubano identità reali per entrare
nelle “vite degli altri”. Su Amazon ci sono scrittori che acquistano
recensioni ipocrite, fabbricate su misura, per scalare le classifiche
delle vendite.
I reality show televisivi danno fama agli anonimi, trasformano il banale
in eccezionale. Oppure rivoluzionano opinioni di massa, come nel
recente caso di The Great British Bake Off, gara di pasticceria, vinta
da una giovane musulmana con il velo: il cui successo ha fatto di più
per allargare il significato di “identità britannica”, hanno commentato i
giornali, di quanto erano riuscite a ottenere finora le iniziative e le
leggi governative. A colpi di torte, Nadya Hussain ha sdoganato l’Islam
nel Regno Unito: nessuno dubita che possa giurare contemporaneamente
fedeltà al Corano e alla regina. E come giudicare l’assalto di un gruppo
di anarchici a un caffè yuppie (anzi “hipster” come si dice ora) su
Brick Lane, strada una volta disagiata dell’East End di Londra, ora
imborghesita da commercio e turismo, quando salta fuori che i
dimostranti erano ricercatori e studenti della middle-class mentre i due
barbuti proprietari del caffè sono self-made men che hanno investito
tutti i propri pochi risparmi nell’iniziativa? Chi è yuppie e chi è
hippie in questo scontro?
Ma la confusione identitaria può anzi deve essere percepita come un
vantaggio, non come problema. Quale soluzione per i curdi iracheni,
siriani e turchi, il quotidiano Guardian suggerisce «la crisi di
identità del Sud Tirolo », dove la gente «vive in Italia ma si sente
austriaca», parafrasando la vecchia battuta di un ambasciatore argentino
secondo cui gli abitanti di Buenos Aires in fondo sono «italiani che
parlano spagnolo e pensano di essere inglesi».
Mentre la sociologa Francesca Conti dell’Università del Sussex studia
l’atteggiamento mentale degli espatriati italiani in Inghilterra, che
ormai si sentono stranieri quando tornano in Italia, italiani quando
sono a Londra e non appartengono più del tutto né all’una né all’altra,
figli di una cultura globale che ricicla valori e caratteristiche nel
melting pot , il pentolone razziale delle grandi metropoli invase dai
nuovi immigrati. «Da ragazzo mi chiedevo chi ero, quale era la mia
identità nazionale, culturale, privata, e non sapevo rispondere alle
domande di compagni di scuola, insegnanti, parenti », dice lo scrittore
Tom Rachman, autore del bestseller Gli imperfezionisti , nato a Londra
da madre ebraica, cresciuto a Vancouver, vissuto a Roma, tornato a
Londra, in attesa di un figlio da un’italiana. «Adesso mi sento
arricchito da ogni tassello della mia esperienza, mi considero un po’
ebreo, un po’ inglese, un po’ canadese, un po’ italiano, e mi va bene
così».
Quella «sessualità liquida» che oraminaccia l’EuropaIl «New York Times» evoca il trionfo del
gender in ogni campo Ilmeticciato abbatte le barriere rischia di fare lo
stesso coi popoli
14 ott 2015 Libero FRANCESCOBORGONOVO
Zygmunt Bauman, nel tentativo didenunciare una deriva, ha creato un
brand: la liquidità. La sua definizione dimodernità fluida, mutevole e
incerta si è trasformata nel corso degli anni in una rivendicazione:
ilmondo di oggi è fiero della sua liquidità, la vive come un diritto, la
difende e ha persino cominciato a imporla. Nell’immaginarioma anche
nell’agone politico: dalla serie tv aldibattitoparlamentare, ilpasso è
sempre più breve. Ecco perché possiamodire concertezzaquasiassoluta
quale sia la figura simbolica degli anni che stiamo vivendo: si tratta
del trans. Inteso, attenzione, non solo in senso sessuale, ma anche e
soprattutto culturale.
Lo ha certificato un articolo pubblicato nei giorni scorsi dal New York
Times a firma delpremio PulitzerWesley Morris. Si intitola
«TheYearWeObsessed Over Identity» e sostiene (a ragione) che «gli eventi
culturali del 2015 ci hanno messo di fronte alla malleabilità delle
linee di confine in materia di razza, genere, sesso». La riflessione di
Morris è stata ripresa ieri da Repubblica, con grande entusiasmo. Il
giornale di EzioMauro ha riassunto l’articolo americano e neha
trattounaconclusionepiuttostoprevedibile, ovvero che «la confusione
spesso si èrivelataunvantaggio». Ovvio, lacultura progressista è
divenuta la paladina della fluidità, è in prima linea non tanto nella
difesa quanto piuttosto nella creazione di nuovi diritti delle più
svariate minoranze, in particolare quelle «liquide».
Ma andiamo con ordine, e cerchiamo di spiegare come il trans sia
diventato ilmodello dominante. Come scriveMorris, il2015 cihamostrato
«quanto siamo trans e bi e poli-ambi-omni». Come spesso abbiamo scritto
su questepagine, nonsi contanopiùi film e le serie tv con transessuali
protagonisti. Dal folle reality sui bambini transgender alla serie
Transparent (non a caso pluripremiata negli Usa) su un uomo di mezza età
che diventa donna. Dai due film vistiallaMostradelCinema di Venezia (
TheDanishGirl diTomHooper e Arianna di Carlo Lavagna) alla trans
delGrande Fratello, fino a quella della serie Orange Is The New Black.
Questaè, diciamo, l’avanguardiaculturale. Il prodotto d’élite che
prepara il terreno allamassificazione.
Poi c’è la nuova moda della «sessualità fluida». Quella di cui fa
vanto la topmodel e attrice Cara Delevingne, una che sembra
l’incarnazione dell’Androgino: altissima, magra, con poco seno e
ancormeno curve. In lei il maschioe la femminasi confondonoa livello
estetico, prima ancora che sessuale. Cara non è lesbica, semplicemente
non vuole definirsi, rivendica la sua liquidità. La scimmiottano le
varie Kristen Stewart, Miley Cyrus e compagnia patinata.
Ma, più di tutti, il simbolo della fluidità nelmondomusicale è
senz’altro Stromae, visto anche sul palco del Sanremo di Fabio Fazio. Ha
scalato le classifiche con un brano bello quanto inquietante. Si
intitolava Tous les mêmes e possiamo considerarlo un manifesto. Tradotto
suona come «Tutti uguali», perché in fondo l’uguaglianza livellatrice è
il vero obiettivo di questa trans-modernità. Stromae è il trans per
eccellenza: nel videoclip della canzone alternava panni maschili e
femminili. La sua magrezza, i suoi lineamenti dolci e la sua
acconciatura rendono davvero difficile la distinzione: potrebbe essere
una top model o un indossatore. Non solo. Stromae è anche un prodotto
della transculturalità. È un meticcio: nazionalità belga, lingua
francese, padre ruandese nero e madre bianca fiamminga. È un figlio del
cosmopolitismo, il prodotto perfetto della classe creativa teorizzata
anni fa da Richard Florida, cioè lo studioso che invitava le élite
intellettuali ed economiche a essere nomadi, globalizzate, meticce
appunto.
Trans-sessuale e trans-culturale: due facce della stessamedaglia.
Il progressismo occidentale teorizza la mescolanza a tutti i livelli. La
cancellazione delle tradizioni e delle comunità. L’identità - è il
mantra - è una costruzione culturale e, soprattutto, individuale. Si può
scegliere se essere uomini o donne (questo è, sintetizzando, la teoria
del gender). Si può scegliere se essere italiani o francesi o ruandesi.
In questi giorni il nostro governo sta approvando lo ius soli e si
prepara a creare «nuovi italiani». Comesebastasse importare persone
dall’estero per sopperire alla natalità sottozero. Come se la terra in
cui si nasce, la lingua che siparla in casa, le favole che si ascoltano
da bambini non contassero nulla. Lospiegava intempinonsospettiCécile
Kyenge: l’Italia è terra dimeticciato. L’Europa stessa è meticcia.
L’identità è, appunto, una costruzione del singolo che basta a se
stesso, e che può diventare italiano per legge, così come basta una
firma perché un uomo diventidonnae viceversa. ComehascrittoWesleyMorris,
iconfinicedono. Dopo tutto, non è questo il grande sogno dell’Ue?
Abbattere le frontiere, siaquelle territoriali che quelle sessuali,
spirituali, culturali. Tutto èmescolato, tutto è fluido. Tutto è trans.
«Tutto è uguale», come cantaStromae. Ilcaos, sostiene Repubblica, alla
fine si rivela una risorsa. Maper chi, esattamente? Di sicuro non per le
culture e i popoli che scompaiono, inghiottiti dalmagma.
Gender l’inganno perfetto Così una parola neutra diventa simbolo delle nostre paure:il saggio di Michela MarzanoMELANIA MAZZUCCO Repubblica 20 10 2015
La parola gender divide. Ci sono parole che a forza di essere brandite come manganelli, innalzate come bandiere, finiscono per diventare esse stesse strumenti di aggressione, contundenti, perfino urticanti. Come molte parole straniere, fagocitate da una lingua altra che le assimila senza comprenderle e le utilizza senza spiegarle, esalano un’aura di autorevolezza e insieme di mistero, che ne giustifica l’uso improprio. Oggi può capitare che durante una pubblica discussione sulla scuola un genitore zittisca un docente agitando un foglio su cui c’è scritto “no gender”. Come alle manifestazioni in cui nobilmente si protesta contro le piaghe che minacciano l’umanità: no alla guerra, alla pena di morte, al razzismo. La perentorietà del rifiuto di qualcosa che non si saprebbe (né si intende) definire impedisce l’avvio di qualunque dialogo. Ma di che cosa stiamo parlando?
Lo scontro che negli ultimi tre anni è divampato intorno al gender in Italia (ma anche, in forme simili, in Francia) diventerà oggetto di studi di sociologia della comunicazione e psicologia delle masse. Ci si è riflettuto poco, finora, forse per sottovalutazione — o perché non si è stati capaci di comprendere quale fosse l’oggetto del contendere, né che riguardasse tutti, e non solo gli omosessuali. Chiunque si interessi della circolazione e della manipolazione delle idee non può non restare stregato e insieme spaventato dalla mistificazione perfetta che si è irretita intorno a questa parola, fino ad avvolgerla di una nebbia mefitica. E a occultare il vero bersaglio: la battaglia culturale, ma anche politica e legislativa, per «combattere contro le discriminazioni che subisce chi, donna, omosessuale, trans, viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».
L’ultimo libro di Michela Marzano, Papà, mamma e gender , che esce per Utet, ci spiega come, quando e perché sia potuto accadere che una concezione antropologica sulla formazione dell’identità (sessuale, psichica, sociale) delle persone abbia aperto una “crepa”, una “frattura profondissima” nel nostro paese, e scatenato campagne di propaganda, informazione e disinformazione mai più viste da decenni. Fino a trasformare il gender in uno spauracchio, un fantasma cui chiunque può attribuire — in buona, ma anche in cattiva fede — il negativo delle proprie idee, della propria concezione dell’esistenza, e riversare su di esso pregiudizi, fobie e paure che si agitano nel profondo di ognuno di noi.
Ricordando con Camus che «nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo», Marzano assegna al libro innanzitutto questo scopo “didattico” (il volume è corredato di un glossario). Dunque gender è un termine inglese, la cui traduzione italiana è semplicemente genere. È entrato in lingua originale nel sistema della cultura universitaria perché delineava un campo di studi nuovo (gender studies) e perciò bisognoso di un proprio nome. Ma poi ha finito per riassumere l’insieme delle teorie sul genere — estinguendo ogni differenza e sfumatura, anche significativa.
Papà, mamma e gender è un libro smilzo, di agevole lettura, una bussola utile per orientarsi nel magma burrascoso di interventi, argomentazioni, polemiche, molte delle quali vanno alla deriva sulle onde del web. Alla confusione semantica e concettuale del dibattito — che mescola sesso, identità di genere e orientamento sessuale — Marzano oppone spiegazioni essenziali (“l’ABC”) che si potevano ritenere acquisite, e invece si sono scoperte necessarie. Si memorizzi ad esempio questa: «Quando si parla di sesso ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche fisiche, biologiche, cromosomiche e genetiche che distinguono i maschi dalle femmine. Quando si parla di “genere” invece si fa riferimento al processo di costruzione sociale e culturale sulla base di caratteristiche e di comportamenti, impliciti o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono troppo spesso con il definire ciò che è appropriato o meno per un maschio o per una femmina ».
È insieme un libro di storia culturale e di cronaca contemporanea, in cui le riflessioni sulla distinzione tra identità e uguaglianza, tra differenza e differenzialismo, si affiancano all’analisi del lessico di una petizione presentata in Senato per sostenere «una sana educazione che rispetti il ruolo della famiglia », le parole di Aristotele, Bobbio e Calvino vengono valutate come quelle di uno spot contro la perniciosa “ideologia gender”. È un libro di filosofia e auto-filosofia (se posso mutuare questo termine dalla narrativa): perché l’autrice non nasconde i propri dubbi (e la critica contro la corrente radicale del pensiero gender) e rivendica l’onestà intellettuale di dire come e perché è giunta a credere a certe cose piuttosto che ad altre. L’esperienza personale — chi siamo, come siamo diventati ciò che siamo — influenza e sempre indirizza il nostro modo di stare nel mondo. «Il pensiero non può che venire dall’evento, da ciò che ci attraversa e ci sconvolge, da ciò che ci interroga e ci costringe a rimettere tutto in discussione».
Gli essenzialisti affibbiano a chi non riconosce il dualismo tra Bene e Male l’etichetta di relativista etico. Ma l’etica non è relativa. Dovrebbe solo essere transitiva. Come Marzano, mi sono chiesta spesso come mai si possa temere che riconoscere ad altri i diritti di cui godono i più (alle coppie omosessuali di sposarsi o di avere e crescere figli) sia lesivo di questi. In che modo il matrimonio tra due persone dello stesso sesso possa sminuire quello di un uomo e di una donna, come una famiglia differente possa indebolire le famiglie cosiddette uguali. Non so rispondermi. Però mi viene in mente il finale visionario de
La via della Fame , il romanzo che lo scrittore nigeriano Ben Okri ha dedicato alla propria giovane nazione, tormentata dall’odio, divisa dai conflitti, e incapace di nascere. «Non è della morte che gli uomini hanno paura, ma dell’amore... Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel sogno. Un sogno può essere il punto più alto di tutta una vita». Ma ci occorre «un nuovo linguaggio per parlarci ». Ecco, forse abbiamo bisogno di una nuova parola. Lasciamo gender alle rivoluzioni antropologiche del XX secolo: il riscatto dei lavoratori, delle donne, dei neri, degli omosessuali. Le rivoluzioni sono irreversibili, nel senso che possono essere sconfitte, ma non revocate, e i principi che le accendono non tramontano. Troviamo un’altra parola per «sognare il mondo da capo».
Un saggio di Michela Marzano (Utet) sulle polemiche riguardanti
la differenza sessuale Sparano sul «gender», ma il vero bersaglio è
l’uguaglianza
La tanto criticata «teoria» in realtà non esiste: nessuno vuole far cambiare sesso ai bambini
8 dic 2015 Corriere della Sera Di Elena Tebano © RIPRODUZIONE RISERVATA
Misterioso costrutto dal nome un po’ esotico, nell’ultimo anno la
cosiddetta «teoria del gender» ha fatto irruzione nel dibattito pubblico
italiano. Con una trasversalità senza precedenti: se ne parla in tv,
sui giornali, ma anche nei consigli di classe di molte scuole, perché in
nome del «pericolo» da essa rappresentato si teme per il futuro dei
bambini. Pochi, pochissimi, però, sanno cosa si nasconde dietro questa
espressione. A colmare il vuoto è arrivato l’ultimo libro di Michela
Marzano, filosofa italiana fuoriuscita in Francia e prestata alla
politica di casa nostra con l’elezione alla Camera per il Pd: Papà,
mamma e gender (Utet, pagine 151, 12).
Il testo (la cui missione didattica è resa esplicita dal glossario
finale) ne ripercorre l’origine e lo strano paradosso: il «gender» è
stato inventato da chi vi si oppone. Da circa mezzo secolo, infatti,
esistono gli studi di genere, rimasti quieti sugli scaffali delle
accademie senza che nessuno ne fosse disturbato. Ma essi, spiega
Marzano, c’entrano «molto poco con le rappresentazioni che se ne danno e
con i fantasmi che suscita oggi anche solo la parola “gender”».
L’obiettivo degli oppositori della «teoria del gender» è infatti un
altro, e cioè tutte le posizioni (tra loro molto diverse) che «hanno
come scopo quello di combattere contro le discriminazioni e le violenze
subite da chi, donna, omosessuale o trans, viene considerato inferiore
solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o
della propria identità di genere».
È un documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia del 2000,
ricostruisce Marzano, a connotare per la prima volta queste variegate
posizioni come un’«ideologia che “attacca le fondamenta della famiglia e
delle relazioni interpersonali” e che diffonde l’idea che “l’essere
uomo o donna non sarebbe determinato fondamentalmente dal sesso, bensì
dalla cultura”».
Marzano mostra che ciò che la Chiesa criticava come «l’oscurarsi
della differenza o dualità dei sessi», è stato trasformato nella vulgata
dei gruppi militanti ProVita o Manif pour Tous in presunzione di
«scegliere se essere uomo o donna» e «cambiare sesso se e quando si
vuole», sulla base di un errore che confonde «due concetti molto
diversi, ossia quello di identità e quello di uguaglianza». E quindi
«quando si dice che una persona è uguale all’altra, non si sta dicendo
che sono identiche», ma «che, nonostante le differenze specifiche che le
caratterizzano, hanno la stessa dignità e lo stesso valore».
Analogamente, criticare i ruoli di genere precostituiti non significa
stravolgere l’identità di genere (e meno che mai far cambiare sesso ai
bambini).
Marzano decostruisce così una a una le accuse mosse alla supposta
«teoria del gender». L’esito per molti versi è sconfortante: «Più cerco
di capire che cosa ci sia dietro i video e gli scritti contro il gender —
scrive —, più penso che si tratti di un insieme di argomenti senza
fondamento, buttati lì per aumentare la cortina di fumo che nasconde il
vero problema: l’omosessualità». È questo il reale idolo polemico di chi
condanna il «gender».
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