Il governo non può contare sui risultati sperati e deve fronteggiare la crisi della rappresentanza nel Paese Con i tanti provvedimenti comunicati direttamente il leader vuole creare una bolla di impressioni favorevoli
Stop di Parisi alla scissione “Dividersi per tornare all’Ulivo sarebbe solo una resa”
L’ex braccio destro di Prodi Franco Monaco: “Capisco certi disagi ma il Pd è costato molto” L’Italicum? Senza il premio alla lista si torna al centrosinistra con il trattino”intervista di Giuseppe Alberto Falci Repubblica 28.10.15
ROMA. «Può avere voglia di scherzarci sopra solo chi non ha vissuto o ha dimenticato tutta la fatica fatta per arrivare al Pd». Arturo Parisi, che dell’Ulivo è stato il co-fondatore, non vuole credere che all’interno del Pd si arrivi alla scissione. E quindi al fallimento di quel progetto iniziato con Romano Prodi.
Professore, Franco Monaco, storico esponente dell’Ulivo, la vede in maniera diversa.
Pensa invece che bisogna “amichevolmente” separarsi.
«Una contraddizione in termini. Perché separarci se si è ancora amici? Già da sola l’idea di una “scissione amichevole” dà l’idea del disagio profondo che attraversa le minoranze del Pd. Un disagio che sul piano personale comprendo e comunque rispetto, ma che sul piano politico sento al momento impotente e purtroppo infecondo. Conoscendo Monaco l’ho letta come una provocazione affettuosa, come la nostalgia di una stagione».
Però Fassina, Civati e D’Attore hanno lasciato la casa madre. L’ultimo a resistere è l’ex segretario Pier Luigi Bersani.
È la resistenza di chi non si arrende al nuovo corso?
«Da una parte sta la resa solitaria alla divisione, dall’altra la resistenza di chi non vuole arrendersi ad essa. In tutti tuttavia il rifiuto di fare i conti con la nuova stagione aperta dalla fondazione del Pd come partito nuovo non riducibile alla somma di partiti passati.».
In una cena si sono già gettate le basi per un nuovo soggetto politico su proposta del politologo e deputato dem Carlo Galli. Si riconosce in queste posizioni?
«Se mette capo ad un confronto aperto, un confronto politico magari teso ma tuttavia democratico, non può che essere d’aiuto a tutti. Fin dalla sua nascita il Pd è purtroppo segnato da un grave deficit di pensiero politico. Il giusto rifiuto di un pensiero comune non può impedire di pensare in comune».
Si fa un gran parlare di “nuovo Ulivo”. Chi dovrebbe essere il nuovo federatore?
«Nuovo Ulivo? Federatore? Prima di pensare a come dividersi per poi federarsi penso sia il caso di ragionare su come stare assieme».
Quale potrebbe essere il ruolo di Romano Prodi?
«Per principio non rispondo su Prodi».
Si profilano una raffica di ricorsi contro l’Italicum. Felice Besostri, intervistato da Repubblica, paragona l’Italicum al Porcellum. Condivide?
«Nell’Italicum ci sono cose che non condivido e altre che invece apprezzo, come, ad esempio, il premio alla prima lista e il doppio turno. Del Porcellum invece non condividevo quasi niente. Sono ancora arrabbiato, sì, scriva arrabbiato, per il modo in cui sono finite al macero un milione e mezzo di firme che ci avrebbero fatto tornare ai collegi uninominali del primo maggioritario».
Secondo lei cosa andrebbe ritoccato in questa nuova legge elettorale?
«La riproposizione dei parlamentari nominati e le candidature multiple. Un vero scandalo. Era su questo che si sarebbe dovuta concentrare l’opposizione alla riforma.
Renzi avrebbe in mente di modificare il premio di maggioranza, assegnandolo alla coalizione.
«Non riesco a crederci».
Con il premio alla coalizione si potrebbe ritornare a parlare di centrosinistra con il trattino, e dunque del nuovo Ulivo?
«Ci farebbe tornare esattamente a venti anni fa. All’Ulivo che il Mattarellum ci costrinse a fondare come una somma di divisioni, ma senza più quel sogno di unità degli Ulivisti che ha fondato il Pd».
di Sandro Medici il manifesto 28.10.15
Sarà solo un equivoco, un’incomprensione? O nasconde un riflesso conservativo, un istinto rinunciatario?
Stiamo parlando dell’ultimo inciampo che sta frenando il cammino verso la ricostruzione di una sinistra in Italia: intendiamoci, l’ultimo in linea cronologica, ma non il solo, purtroppo. Riguarda la persistente riserva di riesumare alleanze elettorali con il partito democratico, sebbene soltanto a scala locale. Nonostante la deriva ormai incontrovertibile di quel partito, tuttora sopravvive un’ingannevole speranza d’incontro e collaborazione con quei segmenti, quelle soggettività che si segnalano per il loro disagio, dichiarato o solo potenziale, verso la leadership di Matteo Renzi.
A conforto di tale eventualità si sostiene che non si possono abbandonare esperienze amministrative dove in coalizione con il Pd si è riusciti a far qualcosa di buono, connotando positivamente la politica locale. È un’argomentazione che in sé non sembra particolarmente dannosa, né si possono escludere casi che fondatamente si segnalino come eccezioni pur sempre dignitose.
Ma in generale è del tutto illusorio, se non impossibile, gestire città e territori sottraendosi al rigido involucro in cui le politiche economiche governative li hanno imprigionati. Gli esempi sono innumerevoli e non riguardano solo le autonomie locali, ma anche le prerogative parlamentari, sempre più sottomesse alle decisioni di ministri, tecnocrati e vincoli commerciali. Grida ancora vendetta la conferma dell’acquisto dell’intera commessa degli F35, nonostante la Camera abbia «eroicamente» votato il loro dimezzamento: a conferma che neanche le mezze misure possono essere accolte.
E cosa dire della contrarietà della Regione Puglia alla realizzazione del metanodotto in Salento, completamente ignorata dal governo Renzi? O delle trivellazioni petrolifere autorizzate dai decreti di Palazzo Chigi malgrado il dissenso delle amministrazioni regionali, a cui non è rimasto altro che ricorrere a referendum abrogativi?
Per le città è la stessa cosa, anzi ancor peggio. Si tagliano ferocemente i bilanci con la conseguenza di ridurre allo stremo il sostegno sociale, chiudere i servizi, indebolire il trasporto pubblico e la raccolta dei rifiuti, rinunciare alle manutenzioni urbane, azzerare l’offerta culturale. E per compensare i mancati trasferimenti si costringono le amministrazioni a intensificare la pressione fiscale, a rilasciare generosissime concessioni edilizie, a svendere il patrimonio e le aziende comunali, a ridurre gli stipendi dei propri dipendenti, a organizzare collette per salvare dal degrado i beni culturali, anzi a concederli in uso come un qualsiasi affittacamere.
Si può aderire con zelo e trasporto a questo sgraziato modello amministrativo, o al contrario lamentarsene e protestare. Ma non è consentito discostarsene. Se non ribellandosi, disobbedendo cioè all’indirizzo sovraordinato e, laddove possibile, modulando diversamente le proprie risorse e così cercando di corrispondere a necessità, bisogni, diritti sociali. E tranne qualche sparuta eccezione, non sembra proprio che le giunte di centrosinistra, anche quelle meglio connotate, si siano distinte per combattività o anche soltanto rivendicando maggiore autonomia.
Ebbene, nonostante ciò, si è tentati dal riproporre in primavera un ormai consumato centrosinistra, immaginando vanamente di allearsi con un Pd derenzizzato.
Come sembra di capire si voglia fare a Roma, contando sul contrasto tra il sindaco dimissionario (?) e il suo partito.
Non è con il politicismo che si può porre rimedio ai guasti amministrativi e rilanciare una nuova stagione per questa città martoriata e delusa. Né saranno i volenterosi sostenitori di Marino che si radunano in Campidoglio a determinare la prossima geografia elettorale. Ma sarà al contrario la critica all’ex (?) sindaco che animerà la prossima campagna elettorale e che, con tutta probabilità, stabilirà i nuovi assetti politici.
Cercando di difendere gli ultimi brandelli di credibilità del centrosinistra, a Roma si esprime forse il desiderio di avere una sinistra migliore, di salvare il salvabile, ma in realtà ci si accontenta di un male minore, ma che minore non è, e si rinuncia a costruire una nuova prospettiva politica.
Chi è in definitiva il presidente del Consiglio e segretario del maggiore partito di centrosinistra? Un intelligente riformatore che vuole emancipare certa sinistra italiana dai suoi vizi storici e da una vecchia pigrizia conservatrice? Ovvero un avventuriero che sta snaturando il Pd per trasformarlo in un partito di centro, quando non addirittura di centrodestra, a costo di rispolverare i cavalli di battaglia elettorali di Berlusconi, compreso il “no” alla tassa sulla prima casa?
In apparenza il quesito è stato già risolto a favore del premier. La filosofia pratica di Renzi è semplice: con me si vince, con Bersani o chi per lui si perde; con me si fanno le riforme, con i miei avversari si fanno solo chiacchiere. Ma tale metodo sbrigativo è in controtendenza con sentimenti e frustrazioni ben diffusi. Non si tratta solo di regolare i conti all’interno del Pd. Se si alza lo sguardo, si vede che i Cinque Stelle sono saldamente il secondo partito e potrebbero giocarsela in caso di ballottaggio, quando Renzi sconterà le rigidità del modello elettorale. E dove non arrivano i grillini, ecco la Lega di Salvini, ecco un pezzo della vecchia galassia berlusconiana in via di disfacimento.
Tutti insieme questi segmenti della realtà italiana si collocano ben al di sopra del 40 per cento. Per cui di sicuro il risultato elettorale al secondo turno non è scontato. Del resto, nulla lo è, se si pensa che in Polonia ha appena trionfato una forma di populismo nazionalista euro-scettico, nonostante anni di ottima crescita economica. E qui Renzi tocca il punto quando dice dall’America Latina: «Attenti che dopo di me non c’è un’altra sinistra, ma solo il ripiegamento populista come a Varsavia». Vero o no, è un argomento da non sottovalutare. Che prefigura il cammino del Pd verso l’appuntamento con le urne, nel 2017 o ‘18: il “partito di Renzi” come unico antemurale rispetto alle forze anti-sistema. E chi pensa di indebolire il fronte, inseguendo il sogno di una sinistra diversa dal “renzismo”, si assume una grave responsabilità. Questo è il messaggio che arriva da Palazzo Chigi, ma non è detto che sia l’ultima parola.
Nella recente intervista di Franco Monaco a Repubblica si affaccia un’idea diversa che mette nel conto la spaccatura («consensuale») del Pd, la creazione di un nuovo gruppo e il successivo accordo di coalizione con il partito renziano. Una formula che piace anche ad altri e richiama il centrosinistra classico, con la Dc (Renzi) e i suoi alleati ( Alfano sulla destra, gli scissionisti Pd sulla sinistra). Ovvio che l’ipotesi è vaga e richiede come premessa un correttivo all’Italicum con il premio assegnato alla coalizione e non alla singola lista. Ci sono peraltro numerosi aspetti da chiarire prima di immaginare, anche solo immaginare, un simile sbocco.
IN primo luogo, l’operazione non può essere una chiamata a raccolta del ceto politico. Occorre fondarla su un colpo d’ala, su una visione dinamica del centrosinistra: i piccoli compromessi e le polemiche di corto respiro servono a poco. In secondo luogo, serve un serio “casus belli” per rompere l’unità del partito. La legge di stabilità, proprio perché tenta di essere espansiva, non può essere un convincente terreno di scontro. Inoltre il nuovo gruppo avrebbe bisogno di credibilità e di un leader. Franco Monaco è molto vicino a Romano Prodi, ma è prematuro e forse anche arbitrario supporre che l’ex premier abbia voglia di tornare nell’arena. Oltretutto il raggruppamento avrebbe bisogno di una percentuale importante per far da contraltare a Renzi: il 12-15 per cento. Prima delle elezioni amministrative non si deciderà nulla. E comunque si dovrà considerare il peso effettivo dei Cinque Stelle nelle grandi città, a cominciare da Roma.
Il timore dei promotori è che ci siano le elezioni anticipate, in quel caso tutto slitterebbe. L’ipotesi della consultazione unica è possibile solo se si svolge nella primavera 2017di Goffredo De Marchis Repubblica 28.10.15
ROMA È già partita la campagna referendaria contro l’Italicum e a Palazzo Chigi si studiano le contromisure. Accanto ai ricorsi, i comitati hanno pronti i quesiti per chiamare alle urne gli italiani sulla legge elettorale. E insieme, secondo l’intenzione dei promotori, anche sulla buonascuola e sul Jobs Act. Un modo per allargare il campo di gioco coinvolgere associazioni e sindacati, avere quindi molte più possibilità di arrivare alla metà di 500 mila adesioni. Un’inziativa che punta a indebolire il governo fuori dalle aule parlamentari e che si salderà alla battaglia per il no al referendum confermativo per la riforma costituzionale. La raccolta di firme si terrà tra aprile e settembre del prossimo anno, diventerà l’occasione per combattere il potere di Renzi consolidando un fronte che va dalla sinistra al Movimento 5stelle. Domani ci sarà una prima presentazione dei quesiti.
Matteo Renzi tiene sotto controllo questi movimenti. E fa varie ipotesi per fermare l’onda referendaria. Da tempo il premier è convinto che la consultazione sulla riforma costituzionale si trasformerà in una legittimazione piena della sua stagione e in una sconfitta sonora per gli oppositori. La data più probabile per quel referendum è ottobre 2016. E se i quesiti contro l’-Italicum dovessero marciare l’ideale sarebbe accorpare i due referendum, in modo da avere più possibilità di vittoria. Ma è un’ipotesi realizzabile solo cambiando la legge o varando un decreto ad hoc. Infatti il voto sull’-Italicum avverrà solo nella primavera del 2017,alla fine di una lunga serie di procedure.
L’altra idea è far slittare il referendum confermativo al 2017 in modo da celebrarlo insieme con quelli proposti dal Comitato guidato da Felice Besostri. Una strada che prevede il rinvio dell’approvazione definitiva della legge Boschi e che contrasterebbe con la fretta dimostrata fin qui dal governo, con la sua volontà di chiudere le riforme nel minor tempo possibile. Ma è la terza ipotesi quella che paradossalmente appare la più fattibile, con alcuni precedenti nella prima repubblica: far slittare il referendum al 2018 trasformando il 2017 in un anno elettorale, ovvero portando il Paese alle urne per le politiche nella primavera del 2017 con l’Italicum ormai in vigore e con la riforma costituzionale validata dal referendum confermativo di ottobre 2016. Il progetto è lì, sul tavolo del premier, una possibilità da non scartare a priori.
Insomma, gli oppositori delle riforme renziane, oltre ai passaggi tecnici (la Corte costituzionale e la raccolta di firme) devono guardarsi dalle mosse politiche dell’esecutivo e della maggioranza. Secondo i sostenitori del del segretario Pd, il comitato ha creato un meccanismo di autodistruzione. «L’iniziativa dei ricorsi e del referemdum sbattono una contro l’altra — dice il costituzionalista Stefano Ceccanti —. Non capisco perché alimentino la confusione, finiranno per non farsi comprendere nemmeno dai cittadini». Ma è evidente che la campagna referendaria della prossima estate verrà usata come campagna anche per il no alla riforma costituzionale. E allo stesso tempo s’intreccierà al voto amministrativo nelle grandi città. Per questo una scissione di singoli parlamentari del Pd continuerà nei prossimi mesi, perché sta arrivando il momento delle scelte e diventa impossibile continuare a fare la battaglia nel Pd, almeno a giudicare dalle parole di chi ha già un piede fuori.
Sullo sfondo resta la decisione su alcune modifiche all’Italicum, su iniziativa dello stesso governo. Decisione che non arriverà a breve, ma intorno alla quale cominciano i movimenti delle forze politiche. Alla Camera è già stata depositata una proposta di legge a firma Pino Pisicchio per introdurre la soglia di validazione del ballottaggio. Se non vanno a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto, salta il premio di maggioranza e i seggi vengono assegnati con il proporzionale sulla base dei risultati del primo turno. È una proposta di legge che farebbe venire meno il concetto di stabilità ma che corregge uno degli elementi di possibile intervento della Consulta.
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