Un orrore per sole donne. La storia nascosta del lager di Ravensbrück
La
giornalista Sarah Helm racconta il luogo di sterminio nazista dove
furono imprigionate contesse, intellettuali, giornaliste, spie e
oppositrici da tutta EuropaEleonora Barbieri
- il Giornale
Sab, 17/10/2015
C’era una volta a Ravensbrück il lager delle donne
Sarah Helm ricostruisce un capitolo della Shoah rimasto segreto per anniWLODEKGOLDKORN Repubblica 8 10 2015
La prima donna uccisa a Ravensbrück era una zingara (così veniva definita nei documenti ufficiali) costretta in una camicia di forza in un bunker per malati di mente: la donna era impazzita quando le strapparono dal seno il bimbo di sei mesi. “Il cielo sopra l’inferno” di Sarah Helm, in uscita con Newton Compton, racconta, per oltre 700 pagine, una vicenda che finora non ha avuto molta eco nella pur ricchissima storiografia dei campi di concentramento e dello sterminio. Helm, giornalista inglese, ha deciso di narrare la realtà di Ravensbrück, l’unico lager nazista, destinato a sole donne. Una storia dunque di genere, ma anche di persone concrete. A Ravensbrück erano state imprigionate donne importanti per i nazisti: la sorella del sindaco di New York Fiorello La Guardia, una nipote del generale De Gaulle, contesse polacche con legami con l’aristocrazia di mezza Europa, tutte eventuali merci di scambio, ma anche donne fondamentali per la storia del secolo scorso: Milena Jesenská e Margarete Buber- Neumann, per citarne due. Jesenská è nota come “la fidanzata di Kafka”, una definizione riduttiva, visto che si trattava di una delle più importanti intellettuali ceche ed europee, giornalista e scrittrice, militante della sinistra (lasciò il Partito comunista nel 1937) e si legga il suo In cerca della terra di nessuno , pubblicato da Castelvecchi. Buber- Neumann a sua volta è stata anche lei un’intellettuale e scrittrice, a Ravensbrück arrivò, quando nel febbraio 1940 Stalin in un gesto di amicizia che confermava la sua alleanza con Hitler, consegnò ai nazisti un gruppo di comunisti tedeschi rifugiati in Urss e nel frattempo finiti in un Gulag. Buber- Neumann, dalla sua esperienza trasse uno stupendo e istruttivo libro Prigioniera di Stalin e Hitler , edito da il Mulino e un altro, pure quello bellissimo, Milena , uscito con Adelphi, dedicato alla sua amica del lager.
La forza e l’eccezionalità del lavoro di Helm sta nell’aver saputo raccontare la storia di Ravensbrück, partendo dai dettagli della vita quotidiana e ricostruendo le biografie delle prigioniere, delle guardie, dei medici del campo; tutto questo senza omettere il contesto storico della sua narrazione. Ravensbrück dunque è una specie di buco nero della storiografia, sostiene l’autrice (e un po’ esagera), perché è un lager che poco ci può raccontare della Shoah, dello sterminio degli ebrei, oggetto invece di ricerche, commemorazioni, discussioni. Infatti, il campo di concentramento istituito a una ottantina di chilometri a nord da Berlino nel maggio 1939, era destinato all’internamento, in condizioni durissime (la natura del campi di concentramento sta nel loro essere luoghi in cui la legge è sospesa) di donne testimoni di Geova, che consideravano Hitler l’anti-Cristo e delle cosiddette “ asociali”: prostitute, indigenti, rom e sinti. Le ebree rinchiuse erano poche, circa il 10 per cento. All’apice del suo funzionamento, il campo era popolato da 45 mila detenute; in tutto vi sono passate 130 mila donne; il numero delle vittime è difficile da stabilire e viene stimato tra le 30 e le 90 mila persone. Niente in paragone con le fabbriche della morte di Auschwitz- Birkenau o di Treblinka. E poi, dice Helm, la storia delle sole donne, con episodi di lesbismo, cui l’autrice accenna, non interessa. Ecco perché se ne parlava poco.
In questi ultimi settant’anni è stato stabilito un canone estetico della narrazione dei lager; è un modo di raccontare da forti sfumature pedagogiche, di stampo illuminista che evita, per paura di kitsch e pornografia, di parlare dell’ordinario ma al contempo patologico sadismo dei carnefici; come se si volesse evitare l’estrema e perversa attrazione per il Male. Helm rompe anche questo tabù. Lo fa con misura, tatto ma senza risparmiare al lettore i fatti; scrive insomma come una giornalista vera e provetta. Un episodio: una bambina zingara non si sveglia all’ora dell’appello mattutino (alle cin- que cioè); una SS la preleva dalla branda, la tiene per i capelli, come si tiene per la coda un ratto schifoso, e la annega in un laghetto, accanto. Moltissimo spazio è dedicato all’uso dei corpi delle detenute. Le donne sono costrette in continuazione a spogliarsi davanti agli uomini in divisa, che le umiliano, deridono. Ma la parte più dura del libro è il racconto delle prigioniere usate come cavie per gli esperimenti effettuati dai medici del campo. Sono pagine di difficile lettura, ma indispensabili, nell’economia del racconto. E in proposito occorre un’annotazione filologica. Le donne oggetto delle sperimentazioni (si voleva capire come guarire le fratture alle gambe, le cancrene e simili), vengono chiamate dall’autrice “conigli”, così anche nell’originale inglese. In realtà erano cavie, e l’equivoco è dovuto al fatto che in polacco, la dizione “coniglio da laboratorio” sta per cavia; le donne oggetto erano quasi tutte polacche.
Si diceva che il campo fosse istituito per le “asociali”. E anche questo era un problema nella commemorazione delle vittime a guerra conclusa. Come si fa a parlare bene delle prostitute? Come si fa a raccontare il loro eroismo quotidiano, in una società che contempla solo l’eroismo maschile, e per lo più asessuato, oppure un sacrificio femminile, ma da donne verginali, simili all’icona di una Madonna? L’autrice del libro invece cita esempi di ragazze di vita, reduci di bordelli ed esperte in pratiche sessuali strane, che seppero essere solidali, talvolta eroiche, nonostante fossero guardate male dalle prigioniere politiche, per lo più comuniste. E, parlando delle comuniste, Helm racconta quanto Buber- Neumann e Jesenská venivano ostracizzate, perché eretiche e nemiche di Stalin, ma anche che fine fecero le donne dell’Armata Rossa. Ce n’erano molte, di soldatesse russe, prigioniere a Ravensbrück; alcune con funzioni di sorveglianza che venivano assegnate alle detenute ( la zona grigia è un altro aspetto narrato bene nel libro). Nel lager hanno tenuto un comportamento più che dignitoso; un giorno inscenarono addirittura una specie di parata militare. Tornate in Urss, vennero spedite nei gulag, in quanto collaboratrici dei fascisti. La loro guida morale e politica, Yevgeniya Klemm, si impiccò. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Ravensbruck, il campo delle reiette
Intervista. Un incontro con la scrittrice e giornalista inglese Sarah Helm, ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento. Il suo libro sul lager nazista per sole donne, «Il cielo sopra l’inferno», è uscito per Newton Compton
Linda Chiaramonte Manifesto 22.10.2015, 0:04
È stato l’orrore nazista declinato al femminile, Ravensbruck, il campo di concentramento per sole donne, aperto nel maggio 1939 a nord di Berlino. Vi venivano rinchiuse e torturate donne definite asociali: senza fissa dimora, malate di mente, disabili, testimoni di Geova, oppositrici politiche, attiviste della resistenza, comuniste, zingare, lesbiche, vagabonde, prostitute, mendicanti, ladre, e, solo in minima parte, ebree. Donne considerate di razza inferiore e reiette che andavano corrette, punite ed estirpate dalla società per evitare che contagiassero gli ariani. Una struttura voluta da Himmler e da cui in sei anni transitarono circa 130mila prigioniere, provenienti da più di venti paesi europei. Si stima che le vittime furono fra le trenta e le novantamila donne, un dato incerto per la scarsa documentazione rimasta dopo che le carte furono distrutte per insabbiare i crimini compiuti alla vigilia della liberazione. Nel campo le donne subirono sevizie, esperimenti medici, torture, sterilizzazioni e aborti, esecuzioni sommarie oltre a ritmi estenuanti di lavori forzati. Dal campo di Malchow, un sottocampo di Ravensbruck, fu liberata nel ’45 l’italiana Liliana Segre.
La storia dell’unico campo di concentramento femminile, rimasta per molti anni nell’ombra, è al centro del libro Il cielo sopra l’inferno (titolo originale If this is a Woman, parafrasando Primo Levi) della giornalista inglese Sarah Helm, da poco uscito in Italia, edito da Newton Compton. L’autrice è stata ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento, sul tema delle donne nei totalitarismi.
Perché ha deciso di raccontare la storia di Ravensbruck?
Avevo già scritto di Vera Atkins, straordinaria ebrea tedesca che lavorava per l’intelligence britannica a un’operazione segreta voluta da Churchill, reclutando e addestrando donne a paracadutarsi in Francia per aiutare la resistenza. Dopo la cattura, le agenti non tornarono più e non furono mai cercate. Atkins seguì le loro tracce, queste la portarono a Ravensbruck, dove molte erano state rinchiuse. Raccolse molte testimonianze e il processo per crimini di guerra perpetrati nel campo fu istruito dalle autorità britanniche grazie alle sue ricerche.
Che attualità assume oggi questo racconto a distanza di settant’anni?
Le testimonianze, le sofferenze e il coraggio di quelle donne sono centrali. È una storia rimasta ai margini dei margini. Si è trattato di un crimine contro l’umanità. Le donne furono torturate, fatte soffrire in maniera inaudita, separate dai bambini che videro morire sotto ai loro occhi. Fu compiuta una sterilizzazione di massa, oltre ad aborti atroci. A Ravensbruck i nazisti praticarono il controllo della riproduzione, fu un laboratorio per applicare sui loro corpi vari metodi e studiare come reagivano ai trattamenti. Le vittime praticarono sistemi di sopravvivenza estremi e uno straordinario coraggio. Si realizzarono forme di solidarietà da parte delle dottoresse del campo e di piccoli gruppi di sostegno a chi aveva perso i familiari. Si creò un’anomala forma di società. Le guardie erano donne, altro aspetto non trascurabile, i crimini quindi erano commessi da donne sulle donne. Aver marginalizzato la storia di Ravensbruck ha significato accantonare questa crudeltà. La più terribile storia di orrore fu applicata nella stanza dei bambini. Le Ss cercarono di prevenire ed evitarne la nascita: volevano far estinguere le razze considerate inferiori, ma verso la fine della guerra, nel 1944, le prigioniere in stato di gravidanza raggiunsero numeri tali che la situazione sfuggì al controllo e non si riuscì più a praticare in tempo la sterilizzazione né l’aborto. Si permise di far nascere i bambini nella consapevolezza che sarebbero morti. Difficile immaginare qualcosa di più crudele: permettere alle donne di dare alla luce i loro piccoli per vederli morire di stenti. A Ravensbruck questa è forse stata una delle più orribili azioni di crudeltà nazista che era assolutamente necessario ricordare.
Cosa rende atrocemente speciale e diverso dagli altri il campo nazista di Ravensbruck?
La capacità delle donne di resistere e combattere contro quello che stava accadendo. Sopravvivere. È una storia di coraggio, determinazione e volontà. Le giovani studentesse polacche di Lublino, ad esempio, arrivate nel 1941, e scelte per gli esperimenti medici. I conigli, come furono soprannominate per la loro andatura zoppicante, subirono atroci esperimenti alle gambe. Himmler chiese ai dottori di ricreare le condizioni dei campi di battaglia, le ragazze furono mutilate e infettate con la gangrena gassosa per testare i farmaci che potevano essere efficaci per i soldati. Le testimonianze degli esperimenti sono dettagliate. Una giovane polacca volle far sapere al mondo quello che stava accadendo grazie alla scrittura con un inchiostro invisibile usato a margine delle lettere indirizzate alla famiglia. Le missive raggiunsero i parenti, in particolare una madre a capo di un gruppo di resistenza a Lublino che mandò le informazioni alla Svezia che le girò a Londra che, a sua volta, le inviò al comitato internazionale della croce rossa svizzera, che tuttavia le ignorò. Questo ebbe conseguenze terribili. Dopo la fuga di notizie però nel campo fu deciso di ridurre gli esperimenti.
Il racconto delle efferatezze compiute ai Ravensbruck ha insegnato qualcosa alle generazioni future?
Vorrei rispondere di sì, ma non posso. Molte delle donne intervistate non avevano mai parlato prima. Pensarono che la loro testimonianza fosse necessaria per impedire che la barbarie si ripetessero, ma non è stato così. Le convenzioni di Ginevra per la protezione dei civili sono continuamente ignorate. Basti guardare a cosa accade in Siria, nessuno si sta impegnando per proteggere la popolazione, lo stesso è avvenuto con i bombardamenti a Gaza l’estate scorsa. La mia impressione è che si stia regredendo e non si sia imparato nulla da ciò che è successo in passato.
Nel campo finirono donne considerate arbitrariamente pericolose, deboli, reiette. Questo fa pensare che nessuna possa dirsi mai al sicuro…
È vero, chiunque potrebbe finire in un campo come quello. Il regime nazista arrestava donne di ogni estrazione, origine, nazionalità e colore. C’erano contesse francesi, senza fissa dimora, prostitute, esponenti della resistenza, donne dell’armata rossa, infermiere. Molte scrittrici, giornaliste, artiste, come Milena Jesenskà, intellettuale ceca che fu amante di Kafka. Oggi non viviamo sotto la minaccia nazista, ma bisogna mantenere alta l’attenzione. Vivere in una democrazia, avere libertà di espressione, non mette al riparo da derive pericolose, come non si può ignorare ciò che ci accade intorno. La realizzazione del libro è stato un processo lungo e lento, come mettere insieme diversi tasselli di un puzzle. Convivere con una storia così terribile per tanto tempo è stato possibile grazie agli incontri con persone che mi sono state di grande ispirazione. Come le donne dell’Armata rossa, impegnate per difendere la Crimea poi tradite da Stalin, catturate, portate a Ravensbruck e dimenticate. Sono rimaste unite, guidate da Eugenia Klemm, un’insegnante di storia di Odessa, che le ha aiutate a sopravvivere. Tornate in Urss sono state di nuovo rinchiuse perché accusate di collaborazionismo con il regime nazista, mandate in Siberia o uccise e perseguitate. La loro storia è rimasta sepolta finché non ne ho rintracciate alcune, felici di raccontarmi quello che avevano vissuto. Per il prossimo libro, fra i vari progetti, vorrei invece occuparmi di Gaza.
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