giovedì 8 ottobre 2015

Il Lager femminile di Ravensbrück

Sarah Helm: Il cielo sopra l’inferno, Newton Compton pagg. 720 euro 12,90

Risvolto
Maggio 1939. Centinaia di donne – casalinghe, dottoresse, cantanti d’opera, politiche, prostitute –, provenienti da un carcere comune, raggiunsero prima in treno e poi su camion un luogo nascosto nei boschi a nord di Berlino. Attraversarono, poi, gli enormi cancelli di ferro tra gli insulti, le urla, i latrati dei cani e le percosse delle guardie. Erano le prime prigioniere di Ravensbrück, il nuovo campo di concentramento femminile “modello” ideato da Heinrich Himmler. In sei anni vi furono rinchiuse 130.000 donne, provenienti da più di venti Paesi in tutta Europa. Erano di diversa estrazione, nazionalità, credo politico; solo poche tra loro erano ebree: Ravensbrück serviva ai nazisti per eliminare tutti “gli esseri inferiori”. Zingare, esponenti della Resistenza, nemiche politiche vere o presunte, disabili, “pazze” dovettero sopportare privazioni, sevizie, malattie, lavori forzati, esperimenti “medici” ed esecuzioni sommarie. Negli ultimi mesi di guerra il lager divenne un campo di sterminio, perché era necessario far sparire in fretta “le prove” della sua reale funzione ed entro l’aprile del 1945 vi vennero trucidate tra le 30.000 e le 90.000 donne, molte con i loro bambini. Per anni, fino alla fine della Guerra Fredda, la verità su Ravensbrück è rimasta nascosta. Grazie a interviste esclusive e documenti inediti, Sarah Helm ci offre una vivida ricostruzione e una testimonianza indimenticabile di uno dei capitoli più tristi della nostra Storia.

Un orrore per sole donne. La storia nascosta del lager di Ravensbrück
La giornalista Sarah Helm racconta il luogo di sterminio nazista dove furono imprigionate contesse, intellettuali, giornaliste, spie e oppositrici da tutta EuropaEleonora Barbieri - il Giornale Sab, 17/10/2015

C’era una volta a Ravensbrück il lager delle donne
Sarah Helm ricostruisce un capitolo della Shoah rimasto segreto per anniWLODEKGOLDKORN Repubblica 8 10 2015
La prima donna uccisa a Ravensbrück era una zingara (così veniva definita nei documenti ufficiali) costretta in una camicia di forza in un bunker per malati di mente: la donna era impazzita quando le strapparono dal seno il bimbo di sei mesi. “Il cielo sopra l’inferno” di Sarah Helm, in uscita con Newton Compton, racconta, per oltre 700 pagine, una vicenda che finora non ha avuto molta eco nella pur ricchissima storiografia dei campi di concentramento e dello sterminio. Helm, giornalista inglese, ha deciso di narrare la realtà di Ravensbrück, l’unico lager nazista, destinato a sole donne. Una storia dunque di genere, ma anche di persone concrete. A Ravensbrück erano state imprigionate donne importanti per i nazisti: la sorella del sindaco di New York Fiorello La Guardia, una nipote del generale De Gaulle, contesse polacche con legami con l’aristocrazia di mezza Europa, tutte eventuali merci di scambio, ma anche donne fondamentali per la storia del secolo scorso: Milena Jesenská e Margarete Buber- Neumann, per citarne due. Jesenská è nota come “la fidanzata di Kafka”, una definizione riduttiva, visto che si trattava di una delle più importanti intellettuali ceche ed europee, giornalista e scrittrice, militante della sinistra (lasciò il Partito comunista nel 1937) e si legga il suo In cerca della terra di nessuno , pubblicato da Castelvecchi. Buber- Neumann a sua volta è stata anche lei un’intellettuale e scrittrice, a Ravensbrück arrivò, quando nel febbraio 1940 Stalin in un gesto di amicizia che confermava la sua alleanza con Hitler, consegnò ai nazisti un gruppo di comunisti tedeschi rifugiati in Urss e nel frattempo finiti in un Gulag. Buber- Neumann, dalla sua esperienza trasse uno stupendo e istruttivo libro Prigioniera di Stalin e Hitler , edito da il Mulino e un altro, pure quello bellissimo, Milena , uscito con Adelphi, dedicato alla sua amica del lager.
La forza e l’eccezionalità del lavoro di Helm sta nell’aver saputo raccontare la storia di Ravensbrück, partendo dai dettagli della vita quotidiana e ricostruendo le biografie delle prigioniere, delle guardie, dei medici del campo; tutto questo senza omettere il contesto storico della sua narrazione. Ravensbrück dunque è una specie di buco nero della storiografia, sostiene l’autrice (e un po’ esagera), perché è un lager che poco ci può raccontare della Shoah, dello sterminio degli ebrei, oggetto invece di ricerche, commemorazioni, discussioni. Infatti, il campo di concentramento istituito a una ottantina di chilometri a nord da Berlino nel maggio 1939, era destinato all’internamento, in condizioni durissime (la natura del campi di concentramento sta nel loro essere luoghi in cui la legge è sospesa) di donne testimoni di Geova, che consideravano Hitler l’anti-Cristo e delle cosiddette “ asociali”: prostitute, indigenti, rom e sinti. Le ebree rinchiuse erano poche, circa il 10 per cento. All’apice del suo funzionamento, il campo era popolato da 45 mila detenute; in tutto vi sono passate 130 mila donne; il numero delle vittime è difficile da stabilire e viene stimato tra le 30 e le 90 mila persone. Niente in paragone con le fabbriche della morte di Auschwitz- Birkenau o di Treblinka. E poi, dice Helm, la storia delle sole donne, con episodi di lesbismo, cui l’autrice accenna, non interessa. Ecco perché se ne parlava poco.
In questi ultimi settant’anni è stato stabilito un canone estetico della narrazione dei lager; è un modo di raccontare da forti sfumature pedagogiche, di stampo illuminista che evita, per paura di kitsch e pornografia, di parlare dell’ordinario ma al contempo patologico sadismo dei carnefici; come se si volesse evitare l’estrema e perversa attrazione per il Male. Helm rompe anche questo tabù. Lo fa con misura, tatto ma senza risparmiare al lettore i fatti; scrive insomma come una giornalista vera e provetta. Un episodio: una bambina zingara non si sveglia all’ora dell’appello mattutino (alle cin- que cioè); una SS la preleva dalla branda, la tiene per i capelli, come si tiene per la coda un ratto schifoso, e la annega in un laghetto, accanto. Moltissimo spazio è dedicato all’uso dei corpi delle detenute. Le donne sono costrette in continuazione a spogliarsi davanti agli uomini in divisa, che le umiliano, deridono. Ma la parte più dura del libro è il racconto delle prigioniere usate come cavie per gli esperimenti effettuati dai medici del campo. Sono pagine di difficile lettura, ma indispensabili, nell’economia del racconto. E in proposito occorre un’annotazione filologica. Le donne oggetto delle sperimentazioni (si voleva capire come guarire le fratture alle gambe, le cancrene e simili), vengono chiamate dall’autrice “conigli”, così anche nell’originale inglese. In realtà erano cavie, e l’equivoco è dovuto al fatto che in polacco, la dizione “coniglio da laboratorio” sta per cavia; le donne oggetto erano quasi tutte polacche.
Si diceva che il campo fosse istituito per le “asociali”. E anche questo era un problema nella commemorazione delle vittime a guerra conclusa. Come si fa a parlare bene delle prostitute? Come si fa a raccontare il loro eroismo quotidiano, in una società che contempla solo l’eroismo maschile, e per lo più asessuato, oppure un sacrificio femminile, ma da donne verginali, simili all’icona di una Madonna? L’autrice del libro invece cita esempi di ragazze di vita, reduci di bordelli ed esperte in pratiche sessuali strane, che seppero essere solidali, talvolta eroiche, nonostante fossero guardate male dalle prigioniere politiche, per lo più comuniste. E, parlando delle comuniste, Helm racconta quanto Buber- Neumann e Jesenská venivano ostracizzate, perché eretiche e nemiche di Stalin, ma anche che fine fecero le donne dell’Armata Rossa. Ce n’erano molte, di soldatesse russe, prigioniere a Ravensbrück; alcune con funzioni di sorveglianza che venivano assegnate alle detenute ( la zona grigia è un altro aspetto narrato bene nel libro). Nel lager hanno tenuto un comportamento più che dignitoso; un giorno inscenarono addirittura una specie di parata militare. Tornate in Urss, vennero spedite nei gulag, in quanto collaboratrici dei fascisti. La loro guida morale e politica, Yevgeniya Klemm, si impiccò. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Ravensbruck, il campo delle reiette 
Intervista. Un incontro con la scrittrice e giornalista inglese Sarah Helm, ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento. Il suo libro sul lager nazista per sole donne, «Il cielo sopra l’inferno», è uscito per Newton Compton 
Linda Chiaramonte Manifesto 22.10.2015, 0:04 
È stato l’orrore nazi­sta decli­nato al fem­mi­nile, Raven­sbruck, il campo di con­cen­tra­mento per sole donne, aperto nel mag­gio 1939 a nord di Ber­lino. Vi veni­vano rin­chiuse e tor­tu­rate donne defi­nite aso­ciali: senza fissa dimora, malate di mente, disa­bili, testi­moni di Geova, oppo­si­trici poli­ti­che, atti­vi­ste della resi­stenza, comu­ni­ste, zin­gare, lesbi­che, vaga­bonde, pro­sti­tute, men­di­canti, ladre, e, solo in minima parte, ebree. Donne con­si­de­rate di razza infe­riore e reiette che anda­vano cor­rette, punite ed estir­pate dalla società per evi­tare che con­ta­gias­sero gli ariani. Una strut­tura voluta da Himm­ler e da cui in sei anni tran­si­ta­rono circa 130mila pri­gio­niere, pro­ve­nienti da più di venti paesi euro­pei. Si stima che le vit­time furono fra le trenta e le novan­ta­mila donne, un dato incerto per la scarsa docu­men­ta­zione rima­sta dopo che le carte furono distrutte per insab­biare i cri­mini com­piuti alla vigi­lia della libe­ra­zione. Nel campo le donne subi­rono sevi­zie, espe­ri­menti medici, tor­ture, ste­ri­liz­za­zioni e aborti, ese­cu­zioni som­ma­rie oltre a ritmi este­nuanti di lavori for­zati. Dal campo di Mal­chow, un sot­to­campo di Raven­sbruck, fu libe­rata nel ’45 l’italiana Liliana Segre. 
La sto­ria dell’unico campo di con­cen­tra­mento fem­mi­nile, rima­sta per molti anni nell’ombra, è al cen­tro del libro Il cielo sopra l’inferno (titolo ori­gi­nale If this is a Woman, para­fra­sando Primo Levi) della gior­na­li­sta inglese Sarah Helm, da poco uscito in Ita­lia, edito da New­ton Comp­ton. L’autrice è stata ospite a Forlì del 900 Fest, festi­val euro­peo di sto­ria del Nove­cento, sul tema delle donne nei totalitarismi. 

Per­ché ha deciso di rac­con­tare la sto­ria di Raven­sbruck?

Avevo già scritto di Vera Atkins, straor­di­na­ria ebrea tede­sca che lavo­rava per l’intelligence bri­tan­nica a un’operazione segreta voluta da Chur­chill, reclu­tando e adde­strando donne a para­ca­du­tarsi in Fran­cia per aiu­tare la resi­stenza. Dopo la cat­tura, le agenti non tor­na­rono più e non furono mai cer­cate. Atkins seguì le loro tracce, que­ste la por­ta­rono a Raven­sbruck, dove molte erano state rin­chiuse. Rac­colse molte testi­mo­nianze e il pro­cesso per cri­mini di guerra per­pe­trati nel campo fu istruito dalle auto­rità bri­tan­ni­che gra­zie alle sue ricerche. 

Che attua­lità assume oggi que­sto rac­conto a distanza di settant’anni?

Le testi­mo­nianze, le sof­fe­renze e il corag­gio di quelle donne sono cen­trali. È una sto­ria rima­sta ai mar­gini dei mar­gini. Si è trat­tato di un cri­mine con­tro l’umanità. Le donne furono tor­tu­rate, fatte sof­frire in maniera inau­dita, sepa­rate dai bam­bini che videro morire sotto ai loro occhi. Fu com­piuta una ste­ri­liz­za­zione di massa, oltre ad aborti atroci. A Raven­sbruck i nazi­sti pra­ti­ca­rono il con­trollo della ripro­du­zione, fu un labo­ra­to­rio per appli­care sui loro corpi vari metodi e stu­diare come rea­gi­vano ai trat­ta­menti. Le vit­time pra­ti­ca­rono sistemi di soprav­vi­venza estremi e uno straor­di­na­rio corag­gio. Si rea­liz­za­rono forme di soli­da­rietà da parte delle dot­to­resse del campo e di pic­coli gruppi di soste­gno a chi aveva perso i fami­liari. Si creò un’anomala forma di società. Le guar­die erano donne, altro aspetto non tra­scu­ra­bile, i cri­mini quindi erano com­messi da donne sulle donne. Aver mar­gi­na­liz­zato la sto­ria di Raven­sbruck ha signi­fi­cato accan­to­nare que­sta cru­deltà. La più ter­ri­bile sto­ria di orrore fu appli­cata nella stanza dei bam­bini. Le Ss cer­ca­rono di pre­ve­nire ed evi­tarne la nascita: vole­vano far estin­guere le razze con­si­de­rate infe­riori, ma verso la fine della guerra, nel 1944, le pri­gio­niere in stato di gra­vi­danza rag­giun­sero numeri tali che la situa­zione sfuggì al con­trollo e non si riu­scì più a pra­ti­care in tempo la ste­ri­liz­za­zione né l’aborto. Si per­mise di far nascere i bam­bini nella con­sa­pe­vo­lezza che sareb­bero morti. Dif­fi­cile imma­gi­nare qual­cosa di più cru­dele: per­met­tere alle donne di dare alla luce i loro pic­coli per vederli morire di stenti. A Raven­sbruck que­sta è forse stata una delle più orri­bili azioni di cru­deltà nazi­sta che era asso­lu­ta­mente neces­sa­rio ricordare. 

Cosa rende atro­ce­mente spe­ciale e diverso dagli altri il campo nazi­sta di Raven­sbruck?

La capa­cità delle donne di resi­stere e com­bat­tere con­tro quello che stava acca­dendo. Soprav­vi­vere. È una sto­ria di corag­gio, deter­mi­na­zione e volontà. Le gio­vani stu­den­tesse polac­che di Lublino, ad esem­pio, arri­vate nel 1941, e scelte per gli espe­ri­menti medici. I coni­gli, come furono sopran­no­mi­nate per la loro anda­tura zop­pi­cante, subi­rono atroci espe­ri­menti alle gambe. Himm­ler chiese ai dot­tori di ricreare le con­di­zioni dei campi di bat­ta­glia, le ragazze furono muti­late e infet­tate con la gan­grena gas­sosa per testare i far­maci che pote­vano essere effi­caci per i sol­dati. Le testi­mo­nianze degli espe­ri­menti sono det­ta­gliate. Una gio­vane polacca volle far sapere al mondo quello che stava acca­dendo gra­zie alla scrit­tura con un inchio­stro invi­si­bile usato a mar­gine delle let­tere indi­riz­zate alla fami­glia. Le mis­sive rag­giun­sero i parenti, in par­ti­co­lare una madre a capo di un gruppo di resi­stenza a Lublino che mandò le infor­ma­zioni alla Sve­zia che le girò a Lon­dra che, a sua volta, le inviò al comi­tato inter­na­zio­nale della croce rossa sviz­zera, che tut­ta­via le ignorò. Que­sto ebbe con­se­guenze ter­ri­bili. Dopo la fuga di noti­zie però nel campo fu deciso di ridurre gli esperimenti. 
Il rac­conto delle effe­ra­tezze com­piute ai Raven­sbruck ha inse­gnato qual­cosa alle gene­ra­zioni future?
Vor­rei rispon­dere di sì, ma non posso. Molte delle donne inter­vi­state non ave­vano mai par­lato prima. Pen­sa­rono che la loro testi­mo­nianza fosse neces­sa­ria per impe­dire che la bar­ba­rie si ripe­tes­sero, ma non è stato così. Le con­ven­zioni di Gine­vra per la pro­te­zione dei civili sono con­ti­nua­mente igno­rate. Basti guar­dare a cosa accade in Siria, nes­suno si sta impe­gnando per pro­teg­gere la popo­la­zione, lo stesso è avve­nuto con i bom­bar­da­menti a Gaza l’estate scorsa. La mia impres­sione è che si stia regre­dendo e non si sia impa­rato nulla da ciò che è suc­cesso in passato. 

Nel campo fini­rono donne con­si­de­rate arbi­tra­ria­mente peri­co­lose, deboli, reiette. Que­sto fa pen­sare che nes­suna possa dirsi mai al sicuro…

È vero, chiun­que potrebbe finire in un campo come quello. Il regime nazi­sta arre­stava donne di ogni estra­zione, ori­gine, nazio­na­lità e colore. C’erano con­tesse fran­cesi, senza fissa dimora, pro­sti­tute, espo­nenti della resi­stenza, donne dell’armata rossa, infer­miere. Molte scrit­trici, gior­na­li­ste, arti­ste, come Milena Jesen­skà, intel­let­tuale ceca che fu amante di Kafka. Oggi non viviamo sotto la minac­cia nazi­sta, ma biso­gna man­te­nere alta l’attenzione. Vivere in una demo­cra­zia, avere libertà di espres­sione, non mette al riparo da derive peri­co­lose, come non si può igno­rare ciò che ci accade intorno. La rea­liz­za­zione del libro è stato un pro­cesso lungo e lento, come met­tere insieme diversi tas­selli di un puzzle. Con­vi­vere con una sto­ria così ter­ri­bile per tanto tempo è stato pos­si­bile gra­zie agli incon­tri con per­sone che mi sono state di grande ispi­ra­zione. Come le donne dell’Armata rossa, impe­gnate per difen­dere la Cri­mea poi tra­dite da Sta­lin, cat­tu­rate, por­tate a Raven­sbruck e dimen­ti­cate. Sono rima­ste unite, gui­date da Euge­nia Klemm, un’insegnante di sto­ria di Odessa, che le ha aiu­tate a soprav­vi­vere. Tor­nate in Urss sono state di nuovo rin­chiuse per­ché accu­sate di col­la­bo­ra­zio­ni­smo con il regime nazi­sta, man­date in Sibe­ria o uccise e per­se­gui­tate. La loro sto­ria è rima­sta sepolta fin­ché non ne ho rin­trac­ciate alcune, felici di rac­con­tarmi quello che ave­vano vis­suto. Per il pros­simo libro, fra i vari pro­getti, vor­rei invece occu­parmi di Gaza.

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