Paola Mastrocola> La passione ribelle, Laterza, euro 14
Risvolto
Lo studio non è un'ombra che oscura il
mondo, non è una crepa sul muro che incrina e abbuia la nostra gioia di
vivere. È la leva con cui possiamo rivoluzionare la nostra vita.
Credevamo nell'immortalità. Una volta i grandi ci mettevano
la vita per completare una sola opera, che magari vedeva
la luce solo dopo la loro morte. C'erano progetti lunghi,
che superavano il nostro limitatissimo tempo.
Credevamo nell'immortalità, e questo ci toglieva la fretta,
la smania di arrivare. Eravamo felici di non arrivare.
Scrivevamo canzonieri lunghi una vita, dedicandoli a donne
che erano morte da un pezzo. Scrivevamo trattati,
che radunavano in sé, e ordinavano, tutto lo scibile su un dato
argomento. Scrivevamo, anche, a mano: scrivere a mano
è lento, e quella lentezza favorisce i pensieri, li accompagna,
li plasma meglio. Li rende più profondi, meno buttati
li, estemporanei. Vedevamo le cancellature che è un po'
come rivedere le foto dei vecchi amici e fidanzati.
È dare tempo all'immagine di noi, capire che siamo esseri
stratificati, farciti di momenti diversi, e che la vita
è un mutamento continuo, e volgersi a vedere le prime
forme ci rassicura sulle future.
Il j’accuse di Paola Mastrocola “Così hanno ucciso lo studio”
RAFFAELLA DE SANTIS Repubblica 8 10 2015
«Lo studio è sparito dalle nostre vite», dice subito, nelle prime righe del suo nuovo libro, Paola Mastrocola. Studiare non è cool, è da sfigati. L’impegno, la fatica, non sono più valori. Non lo sono perché non servono nell’immediato, non portano alla notorietà, non garantiscono grossi guadagni. Nella società dello spettacolo studiare non fa audience, dunque perché farlo? La passione ribelle è un saggio pamphlet (Laterza), nel quale l’insegnante Mastrocola riprende il filo di altri suoi libri dedicati alla scuola e con tono appassionato mette nero su bianco quello che pensa. Attenzione però. Il libro non è un atto d’accusa alle nuove generazioni, non si tratta di una paternale. L’atto d’accusa è rivolto in particolar modo agli adulti.
La scuola e l’università si vanno trasformando in macchine burocratiche, in cui si preparano le carriere ma non le persone. Quella di Mastrocola è una critica più generale alla cultura utilitaristica, fatta di test, valutazioni, meritocrazia, carriere. E dove lo studio è il grande assente, la parola diventata tabù (insieme a “impegnarsi”, “sforzarsi”, “faticare”). È un outing quello di Mastrocola. L’autrice dice «a me studiare piace» come se confessasse un segreto intimo, che può procurarle imbarazzo. Lo fa con il tono di una liberazione, per denunciare un paradosso: siamo arrivati al punto in cui il ribelle è chi trascorre ore sui libri, chi ha il coraggio di ammettere di essere un secchione. Mastrocola enumera le prove della morte dello studio. Ne cita sei, tra cui la fine della critica letteraria e la mortificazione degli insegnanti ai quali è chiesto di partecipare a riunioni e commissioni, ma non di studiare. A tratti i toni sono apocalittici, distopici: «Andremo nelle biblioteche come si va tra i ruderi romani ». Mastrocola mostra i rischi del progresso tecnologico, dei videogiochi e dei social network. Attacca anche l’ideologia sessantottina dell’antinozionismo. Si capisce che non scrive un pamphlet per denunciare solo la crisi della scuola ma per parlare di una crisi culturale più ampia.
Poi ci sono i consigli, la difesa delle materie “oziose”, delle discipline umanistiche, del tempo improduttivo, dello studio non finalizzato alla realizzazione professionale ma indirizzato alla conoscenza. Chissà se è vero, se veramente, come scrive Mastrocola, non sappiamo più pensare, se è vero che abbiamo perso la capacità di approfondire e sappiamo muoverci solo in superficie. Certamente chi frequenta le scuole e le università, sa che molte di queste insofferenze sono condivise dai professori. Il saggio è appassionato e solleva questioni che faranno discutere. E se il pazzo e veloce bricolage culturale dei nostri tempi fosse già una forma di conoscenza?
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