Palestina/Israele Attacchi a israeliani, due ragazzi palestinesi uccisi
La polizia apre il fuoco dopo presunti accoltellamenti Per oggi previsto lo sciopero generale palestinese in Israele e nei Territori Occupati. 26 le vittime palestinesi in 12 giornidi Chiara Cruciati il manifesto 13.10.15
BETLEMME Sale a 26 il bilancio delle vittime palestinesi delle forze militari israeliane: ieri sono stati uccisi dalla polizia due giovani ritenuti responsabili di attacchi contro poliziotti e cittadini israeliani. Mustafa al-Khatib, 18 anni, è stato colpito alla Porta dei Leoni, ingresso in Città Vecchia, nel presunto tentativo di accoltellamento di un agente. Testimoni hanno raccontato che il ragazzo non aveva armi, ma non si è fermato allo stop intimatogli dai poliziotti.
Nel pomeriggio un altro episodio: due israeliani sono rimasti feriti (un 13enne in modo serio) in un accoltellamento nella colonia israeliana di Pisgat Zeev a Gerusalemme perpetrato da due ragazzi palestinesi, Ahmad Manasra, 12 anni, e suo fratello Mohammad, 14. La polizia ha aperto il fuoco, uccidendo Ahmad. Mohammad sarebbe fuggito. Poco prima una ragazza palestinese, Farah Bakir, 17 anni, veniva ferita a Sheikh Jarrah: secondo la polizia avrebbe accoltellato due israeliani.
Ieri a perdere la vita, in un raid aereo contro Gaza in risposta al lancio di un razzo, erano state una madre incinta di 5 mesi, Nour Hassan, e sua figlia di due anni, Rahaf Hassan. Poche ore dopo giungeva la notizia dell’uccisione di due minorenni, Ahmad Sharakeh, 12 anni, colpito da pallottole israeliane a Beit El in una manifestazione, e Ataa Al Nouri, 13enne di Shu’fat, investito da un’auto guidata da coloni.
Se ieri l’atmosfera in Cisgiordania sembrava più tranquilla, con scontri sporadici a Salfit, per oggi è previsto uno sciopero generale palestinese sia in Israele che nei Territori Occupati, protesta – scrive l’Alto Comitato per i cittadini arabi d’Israele – «per il pericolo che grava su al-Aqsa e il grilletto facile della polizia israeliana».
La risposta israeliana alla rabbia palestinese è la repressione: arresti di massa in Cisgiordania, raid su Gaza, 1.300 feriti dal primo ottobre, da proiettili veri o di gomma. Il premier Netanyahu, che ha richiamato in servizio riservisti di 13 unità dell’esercito, nega di voler infiammare le tensioni. Ieri alla Knesset ha detto che «il terrorismo non è frutto della frustrazione palestinese, ma della volontà di annichilirci», per poi rivolgersi al presidente palestinese Abbas: «Condanni gli attentati».
Risponde il ministro degli Esteri dell’Anp, al-Malki: Israele cerca di accendere «una terza Intifada per evitare l’arena politica e diplomatica». Un’Intifada che Ramallah non vuole.
Intifada di Gerusalemme. Parla l'intellettuale e saggista Michel Warschawski (Mikado). «Le provocazioni continue del governo israeliano, la colonizzazione dei Territori occupati e la fine dell'illusione del processo di pace, sono le ragioni della nuova rivolta. La condizione più difficile è quella dei palestinesi di Gerusalemme»di Michele Giorgio il manifesto 14.10.15
GERUSALEMME Per il primo ministro Netanyahu l’escalation di attacchi palestinesi è soltanto una nuova campagna terroristica lanciata per odio nei confronti degli ebrei e non avrebbe legami con le politiche di Israele nei Territori occupati e a Gerusalemme. A contestare questa tesi non sono soltanto i palestinesi – il segretario dell’Olp Saeb Erekat ieri ha addossato tutte le responsabilità alle «politiche israeliane di occupazione, delle colonie e di Apartheid» — ma anche alcuni intellettuali ebrei come il saggista Michel Warschawski, più noto in Israele come Mikado. Lo abbiamo intervistato ieri a Gerusalemme.
Per molti leader politici israeliani, a cominciare dal primo ministro, questo conflitto non ha radici che scendono profonde negli anni passati. Come se fosse sorto appena qualche giorno fa.
Tante persone, anche all’estero, hanno la memoria corta. La violenza palestinese alla quale assistiamo da qualche giorno a questa parte non è fine a se stessa, immotivata, come cercano di far passare i leader israeliani. Piuttosto è il risultato di qualcosa di profondo. Perchè è divampata adesso? Le ragioni sono soprattutto due. La prima è che è terminato il tempo che la popolazione palestinese aveva messo a disposizione del presidente dell’Anp Abu Mazen per negoziare e raggiungere un accordo con Israele. Credo che i palestinesi, incluso Abu Mazen, abbiano compreso che non c’è alcun partner israeliano che voglia negoziare sul serio e non solo portare avanti trattative senza futuro. Siamo alla fine dell’illusione del cosiddetto processo di pace. La seconda ragione è la lunga serie di gravi provocazioni compiute dal governo israeliano a danno dei palestinesi, a partire da quella avvenuta sulla Spianata delle moschee di al Aqsa, senza dimenticare la continua espansione delle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme. Se mettiamo insieme queste provocazioni con la fine dell’illusione del processo di pace, si ottiene la reazione vista in questi ultimi giorni, che è stata spontanea.
Netanyahu ripete che il suo governo non modificherà lo status quo della Spianata delle moschee. I palestinesi e il mondo islamico non gli credono.
Le provocazioni compiute da organizzazioni e gruppi che, spesso appoggiati da ministri e deputati, cercano di imporre la sovranità israeliana ed ebraica sulla Spianata hanno contribuito ad innescare questa Intifada. Su questo non ci sono dubbi. Non dimentichiamo anche i continui raid della polizia in quel sito sacro per i musulmani di tutto il mondo, che hanno generato sdegno persino tra i palestinesi cristiani. Se queste provocazioni sulla Spianata delle Moschee non cesseranno, ogni scenario sarà possibile. Per questo motivo persino un leader arabo moderato come re Abdallah di Giordania è intervenuto con forza su Netanyahu per dirgli di mettere fine alle violazioni sulla Spianata che possono creare una valanga devastante.
Dati diffusi nelle ultime ore dicono che l’80% degli attacchi avvenuti a Gerusalemme nelle ultime due settimane sono stati compiuti da palestinesi residenti nella città. Cos’è Gerusalemme oggi per un palestinese?
È la situazione peggiore in cui un palestinese che possa vivere dopo Hebron (città della Cisgiordania meridionale divisa in due, ndr). Se da un lato l’annessione unilaterale a Israele della zona araba della città (occupata militarmente nel 1967, ndr) ha dato alcuni benifici ai palestinesi che vi abitano, come l’assistenza sanitaria israeliana, dall’altro più di una generazione di palestinesi di Gerusalemme ha dovuto sopportare un’aggressione incessante nei loro quartieri, finalizzata a isolare le aree arabe e a circondarle di colonie israeliane. Con l’obiettivo di rendere Gerusalemme una città solo israeliana. I palestinesi (di Gerusalemme) sono al centro di questi piani e, allo stesso tempo, sono isolati dal resto della Cisgiordania a causa del Muro di divisione costruito da Israele tra la città santa e i Territori occupati.
Il silenzio della sinistra israeliana è assordante.
Se parliamo del Partito laburista e di Peace Now, possiamo affermare con assoluta certezza che non esistono più, sono svaniti nel nulla. Pensate, Yitzhak Herzog, leader di quel partito che si fa chiamare ancora laburista, è impegnato in una gara a destra con Netanyahu. Sostiene che il primo ministro sia incapace a “fermare il terrorismo e riportare la calma nel Paese”. Quella che un tempo era nota come la sinistra moderata nei fatti non esiste più. Certo, c’è sempre la sinistra radicale ma riesce a mobilitare soltanto alcune centinaia delle migliaia di persone che un tempo si vedevano alle sue manifestazioni.
Perchè il mondo, soprattutto quello occidentale, non comprende e non appoggia più le aspirazioni dei palestinesi.
Esiste una differenza tra l’opinione pubblica internazionale e la cosiddetta comunità internazionale. La prima contesta le politiche del governo israeliano ed è largamente impegnata a favore di una soluzione per questa terra fondata sulla giustizia e i diritti. La comunità internazionale, composta da governi ed istituzioni ufficiali, è fortemente condizionata da Benyamin Netanyahu. Fa i conti con un premier e il suo governo che senza problemi fanno capire che non terranno conto dell’opinione degli stranieri e che continueranno certe politiche. Il mondo dovrebbe sfidare, mettere in discussione questo atteggiamento del governo Netanyahu, invece non lo fa e si accontenta di pensare che in fin dei conti Israele è una roccaforte di stabilità in una regione in crisi, dove agiscono movimenti estremisti come l’Isis. Netanyahu lo sa, punta la sua politica estera proprio sui timori degli occidentali e, anche grazie a questo, riesce a tenerli dalla sua parte.
Il retroscena Le mosse del premier, la spinta della destra
GERUSALEMME Alla fine del secondo mandato tre anni fa, Benjamin Netanyahu aveva promesso agli elettori che non sarebbe mai stato trascinato in una guerra «non necessaria». Da allora gli israeliani hanno dovuto combattere per sessanta giorni contro Hamas nella Striscia di Gaza e in questi mesi affrontare gli attentati e gli scontri con i palestinesi.
Il premier vuole ristabilire l’immagine di Mr Sicurezza, lo slogan per cui è stato votato, e deve contrastare anche le critiche di quei ministri nel governo che vogliono presentarlo come esitante. Perché Netanyahu e Moshe Yaalon, il ministro della Difesa, sostengono la linea del contenimento. Come nel conflitto dell’estate scorsa, Yaalon — che ha comandato l’esercito israeliano durante la seconda intifada — si ritrova a richiamare alla moderazione gli altri membri del consiglio di sicurezza.
Davanti ai deputati della Knesset — che lunedì ha ricominciato i lavori dopo la pausa estiva — Netanyahu ha promesso «supereremo anche questa ondata di terrorismo» e ha dovuto ascoltare le ironie di Isaac Herzog, il leader laburista all’opposizione, che lo ha chiamato «premier supplente» attribuendo il ruolo di guida dietro le quinte a Naftali Bennett. Che con il suo passato da ufficiale nelle forze speciali propone le soluzioni militari più robuste. Dopo una visita alla Città Vecchia di Gerusalemme ha sostenuto la necessità della «tolleranza zero» al di là degli attentati, «perché in queste vie vengono permessi comportamenti che a Tel Aviv non sarebbero accettati: i palestinesi sputano e insultato i poliziotti senza essere puniti».
Da giorni perora la chiusura totale della Cisgiordania e dei quartieri arabi nella parte Est della città, un’opzione che per ora gli altri ministri hanno respinto. Ancora una volta è toccato a Yaalon (con il sostegno di Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore) respingere le pressioni: la misura è considerata poco efficace, non fermerebbe gli assalti con i coltelli e verrebbe vista come una punizione collettiva che spingerebbe altri arabi a partecipare alle violenze.
La numero due di Bennett nel partito che rappresenta i coloni ha presentato da ministro della Giustizia una nuova legge (ha superato il primo voto in parlamento) per introdurre pene più severe contro i palestinesi che scagliano pietre. L’obiettivo — spiega Ayelet Shaked — è anche rendere responsabili i genitori nel caso di minori: le famiglie dei condannati perderebbero il diritto all’assistenza sanitaria e altri benefici come il sussidio di disoccupazione. «Da quando il popolo ebraico è tornato in questa terra — commenta — hanno cercato di respingerci con la forza. Questa situazione non è cominciata oggi e neppure nel 1967 come a qualcuno piace pensare». E’ allora con la guerra dei Sei giorni che Israele ha tolto al controllo dei giordani la Cisgiordania e la parte araba di Gerusalemme.
Per ora gli israeliani non sembrano soddisfatti di come Netanyahu sta affrontando l’ondata di attacchi. Il 73 per cento — secondo un sondaggio del Canale 2 — disapprova la strategia ed è convinto che Avigdor Lieberman — l’ex ministro degli Esteri, passato all’opposizione da dove continua a esprimere le sue posizioni oltranziste –—sarebbe più efficace.
La tenda di protesta tirata su davanti alla residenza ufficiale impensierisce il premier quando tra i visitatori ci sono due ministri del governo (più un terzo che passa senza salire sul palco d’onore) e i deputati del suo Likud. Tzipi Hotovely è tra le presenze più assidue e come i leader dell’accampamento chiede che Netanyahu dia il via libera alla costruzione di nuove colonie in Cisgiordania come risposta agli attentati. Viceministra degli Esteri, ha partecipato all’assemblea generale delle Nazioni Unite dove ha litigato con il ministro giordano. Ripete che l’Autorità palestinese ha «perso il diritto di esistere, il sangue dei cittadini israeliani sta sulle mani del presidente Abu Mazen e di quelli che incitano i ragazzini a uscire di casa e uccidere». @dafrattini
L’IPOTESI dei due Stati in Palestina mi sembra definitivamente abortita. Tra le parti s’è infatti accumulato troppo astio. E da molto tempo ormai, alla violenza si risponde soltanto con la violenza. Adesso, perfino i religiosi israeliani accoltellati a Gerusalemme impugnano a loro volta il pugnale per colpire i giovani palestinesi. Parlano tutti di una terza Intifada, inflazionando un termine già inflazionato, ma la storia non si ripete. Certo, non potendovi equamente amministrare la giustizia, era una bella idea, quella di dividere in due questa terra travagliata. Due Stati, uno accanto all’altro: il presidente egiziano Sadat fu il primo a formulare questo sogno. La sua proposta fu ripresa da molti e condusse, nel 1993, agli accordi di Oslo, che avrebbero potuto portare una pace duratura in tutta la regione se un fanatico non avesse assassinato il premier israeliano Yitzhak Rabin.
Sì, sono sempre più convinto che il naufragio di quella splendida visione è dipeso soltanto dalla morte di Rabin. I grandi cambiamenti della Storia non sono solo frutto di idee nobili e rivoluzionare ma anche di uomini in grado di farle valere. E non si tratta di uomini necessariamente più intelligenti di altri, ma di individui in grado di guadagnare la fiducia della propria gente. Purtroppo, personaggi di quel calibro, ammirati da tutti, come furono appunto Rabin e Arafat in passato, non esistono più né a Tel Aviv né a Ramallah.
Oggi, ahinoi, sulla scena c’è ovunque la presenza di Dio, ogni spazio è stato colonizzato dalla religione, o meglio, dalla religiosità, che trascende ogni cosa, ossia gli interessi economici, finanziari e politici dei due popoli, complicando alquanto le cose.
Ma se la soluzione dei due Stati è diventata obsoleta poiché irrealizzabile, bisogna ricorrere ad altro. Si potrebbe, per esempio, riesumare la vecchia ma ancora validissima formula di una Confederazione della Palestina. La sola alternativa al caos è infatti l’apertura di nuovi orizzonti, perché, oggi più che mai, è necessario gridare nelle piazze israeliane e palestinesi che un altro futuro è possibile. È stato il padre fondatore della Tunisia moderna, Habib Bourghiba, il primo a parlare di Confederazione nel suo celebre discorso di Gerico, nel 1965. Nella sua visione profetica, Bourghiba, che fu anche il primo presidente di un Paese arabo a recarsi in Israele, indicò il più semplice dei cammini per giungere alla pace.
L’idea di una Confederazione mi è tornata in mente ripensando alla metafora con cui alcuni anni fa lo scrittore israeliano Amoz Oz cercò di spiegarmi il conflitto israelo-palestinese. Oz mi disse che quando ci sono due pazzi nella stessa stanza è inutile cercare di riconciliarli: o gli infili la camicia di forza o li sposti in un’altra stanza piena di altre persone. È l’unico modo per evitare che i due si affrontino e si scannino. Ebbene, su questa terra che dai tempi dell’imperatore Adriano si chiama Palestina, che fu riconosciuta come tale dagli ottomani, dai francesi e dagli inglesi e che comprende Giordania, Cis-Giordania e Israele, da sempre vivono due popoli. Si tratterebbe quindi di riunire i leader di questi territori per concepire, all’immagine dell’Europa, un’entità più grande che li includa tutti e tre, ognuno di essi rimanendo comunque indipendente. Ciò risolverebbe, tanto per cominciare, il problema di Gaza e quello dei 400mila israeliani residenti in Cis-Giordania, perché potrebbero esserci regioni autonome in seno ad ogni territorio. La capitale della Confederazione diventerebbe Gerusalemme Est, un po’ come Bruxelles lo è dell’Europa, pur restando quella del Belgio.
Per la prima volta sulla spianata delle Moschee sventolerebbe la bandiera palestinese, il che spegnerebbe le tensioni che regolarmente appaiono in quel luogo sacro per i musulmani.
Anche sul piano economico sarebbe un successo, perché si creerebbe un grande mercato del lavoro, con la tecnologia israeliana e con l’inventiva e la volontà dei palestinesi. Un tale accordo salverebbe anche la Giordania dalle mire dello Stato Islamico, che sta conquistando uno dopo l’altro i villaggi alla frontiera con l’Iraq. È concepibile che perfino la Siria, quando si sarà liberata delle squadracce del Califfo e di Bashar al Assad, raggiunga anch’essa questa Confederazione.
Ora, per raggiungere l’obiettivo serve anzitutto la volontà delle grandi potenze, le quali dovranno portare i tre leader al tavolo del negoziato. Quanto agli israeliani hanno anch’essi bisogno di un nuovo programma di pace in cui credere. Non basta pensare di aprire una futura trattativa con Hamas. Bisogna proporre altro, perché da due generazioni sono tutti vittime dell’illusione di due Stati che vivono felicemente uno accanto all’altro. In Israele sono i religiosi quelli che vincono, perché portano avanti il sogno messianico. Perciò c’è bisogno di un nuovo sogno per tutti gli altri. Quanto alla nostalgica sinistra israeliana, essa si limita a criticare il premier Netanyahu, e fa bene a farlo, ma non propone nessuna soluzione per il futuro.
È sempre più evidente che in tutti questi anni non siamo ancora riusciti ad arare la terra a sufficienza per far nascere qualcosa di buono dalla volontà di tutti quelli che credono nella pace. Il progetto della Confederazione palestinese non piacerà a tutti. Molti la criticheranno, la ridicolizzeranno anche. E sarà una fortuna, perché sia gli israeliani sia i palestinesi devono sapere e devono soprattutto credere che una soluzione esiste. E che se non si trova oggi, si troverà domani.
La punizione collettiva che si sta organizzando minaccia di sfociare in una sollevazione popolaredi Ugo Tramballi Il Sole 14.10.15
Continua la disputa sulla definizione della rivolta: se è Intifada o no. La differenza politica è che nel primo caso si tratta di una sollevazione popolare, nella seconda di “cani sciolti”, come polizia e giornali chiamano i responsabili palestinesi degli assalti. Di fronte a queste forme di piccolo terrorismo quotidiano Israele si organizza alla reazione più facile: la punizione collettiva.
Ieri anche Isaac Herzog, il leader del partito laburista, ha chiesto al governo di chiudere tutti i palestinesi di Gerusalemme Est nei loro quartieri. Il capo dell’estrema destra nazional-religiosa al governo, Naftali Bennett, propone di chiudere a chiave tutta la Cisgiordania e di non radere al suolo solo le case degli attentatori, ma di tutti i “terroristi”. Una definizione forse applicabile a chiunque protesti contro l’occupazione.
Tutte le intelligences israeliane hanno ripetuto che si tratta di una rivolta minore, anche se non meno pericolosa. Alcune organizzazioni islamiste stanno sobillando sul web, ma né l’Autorità palestinese né Hamas cercano di cavalcare la protesta. Allargare la punizione all’intera comunità palestinese non servirebbe alla repressione del fenomeno ma a chi vorrebbe trasformarlo in sollevazione nazionale.
A dispetto della rivolta, ogni mattina 47mila palestinesi entrano in Israele a lavorare: circa 250mila arabi di Cisgiordania dipendono economicamente dal mercato israeliano. Finché le frontiere non saranno chiuse a questi operai e finché Israele non deciderà di invadere ancora una volta militarmente le città della Cisgiordania, quello che sta accadendo non si può chiamare Intifada.
C’è tuttavia un elemento che lega questa rivolta dei coltelli alla seconda Intifada del 2000, la più distruttiva. È iniziata il mese scorso a Gerusalemme sulla spianata del Tempio: il luogo più importante per musulmani ed ebrei. Allora fu Ariel Sharon a fare una “passeggiata” provocatoria fra le moschee di al-Aqsa e di Omar. Questa volta gruppi di estremisti ebrei, accompagnati da alcuni ministri irresponsabili, sono saliti alla spianata, facendo credere ai palestinesi un’imminente occupazione.
Il conflitto fra israeliani e palestinesi è fra due risorgimenti nazionali e due etnie. Ma è il terzo elemento dello scontro, fra due religioni, il più pericoloso. Anche allora cominciò come rivolta spontanea. Ma l’elemento religioso irrazionale fece esplodere la frustrazione provocata da decenni di occupazione. La rivolta cominciò con pietre e coltelli, passando poi alle armi automatiche. Ieri a Gerusalemme per la prima volta i giovani hanno usato armi da fuoco.
L’unica possibilità per fermare l’aggravarsi della rivolta è tornare alla politica. Se Israele tenta di riaprire un dialogo; se l’Autorità palestinese collabora; se Hamas a Gaza comprende che la Striscia, devastata dalla guerra dell’estate 2014, non sarebbe in grado di sopportare un nuovo conflitto, la rivolta non diventerà una terza Intifada. Ma i possibili mediatori esterni sono impegnati nella Grande guerra mediorientale. E quasi tutte le volte che israeliani e palestinesi sono stati lasciati da soli, il conflitto è peggiorato: i due nemici sono sempre stati capaci di offrire al mondo tragiche sorprese.
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