Quei polemisti così lontani da ogni idea universale L’ANALISI / Ecco l’identikit dei nuovi intellettuali francesiMARC LAZAR
Da tempo la Francia ha una passione per le controversie intellettuali, che regolarmente infervorano il pubblico dibattito: fanno parte del suo spirito, del suo stile, della sua storia. Fu infatti qui che alla fine del XIX secolo, ai tempi dell’affaire Dreyfuss, venne coniato il termine stesso di intellettuale. Da qualche tempo questa passione è nuovamente esplosa fino all’incandescenza, ma con una differenza fondamentale: in passato i contenuti delle polemiche interessavano, certo, in primo luogo la Francia, ma anche il resto del mondo. E ciò per la semplice ragione che i dibattiti francesi sui temi di libertà, uguaglianza e fraternità, sui diritti dell’uomo e del cittadino, su giustizia e tolleranza erano di portata universale. Mentre ai nostri giorni si focalizzano in maniera ossessiva sulla Francia, sul suo passato, presente e futuro. Perciò, al di là delle sue frontiere destano attenzione non tanto per ciò che viene detto, quanto per il modo in cui lo si dice. Più che esprimere la grandezza della Francia, queste polemiche attestano un suo profondo malessere.
Sono molti i filosofi, saggisti, romanzieri e giornalisti che occupano le prime pagine dei giornali: da Alain Finkielkraut a Régis Deabray, da Michel Onfray e Michel Huellebecq a Eric Zemmour. E benché facciano riferimento a correnti di pensiero contrapposte, condividono alcune idee fisse. Sono tutti allarmati per il declino della Francia e ne indicano le cause: lo spirito lassista e libertario del maggio 1969, accusato di aver eroso le basi sane del Paese, e in particolare del suo sistema scolastico che non insegnerebbe più nulla; le restrizioni alla sovranità nazionale imposte da un’Europa burocratica e non democratica; l’immigrazione, soprattutto di origine araba e africana, sistematicamente associata all’ascesa dell’islamismo, che minaccerebbe la sopravvivenza stessa del popolo francese. L’antirazzismo buonista è incolpato di un’insopportabile denigrazione dei francesi. L’avanzata strisciante del multiculturalismo minerebbe le fondamenta della Repubblica. Discorsi del genere hanno buon gioco in un Paese che sta vivendo una depressione profonda.
Questi intellettuali danno prova di abilità quando attaccano i “benpensanti” e ciò che chiamano il “politicamente corretto”: categoria che essi stessi hanno costruito secondo la quale una vulgata di sinistra dominerebbe culturalmente la Francia da quasi mezzo secolo. Dal canto loro, si definiscono politicamente scorretti, provocatori, vicini al popolo abbandonato da una sinistra snob. Alla minima risposta o critica gridano alla caccia all’uomo. Eppure detengono posizioni di potere, al centro della scena mediatica; e spesso i loro libri diventano bestseller. Agguerriti nei dibattiti, questi intellettuali hanno ripreso l’antica tradizione dei polemisti. In particolare rifiutano di riconoscere qualsiasi pertinenza al lavoro dei sociologi, politologi, economisti e storici di formazione scientifica. A loro non servono cifre, non hanno bisogno di produrre prove, ricorrono costantemente ad argomenti come l’identità nazionale. È questo il modo per far brillare la patria delle lettere e delle idee? È lecito dubitarne.
Tramontate le ideologie resta la cecità delle pulsioni Il COMMENTO / Cosa succede quando prevalgono le urlaMASSIMO RECALCATI
l Novecento ha insegnato che il consenso nella vita politica non si raccoglie grazie alle argomentazioni persuasive, ma alla potenza seduttiva e carismatica del leader. Il fondo oscuro che ha aggregato l’adesione delle masse alla politica delirante dei vari totalitarismi — come Freud aveva visionariamente anticipato — non deriva da una condivisione razionale delle tesi del leader, ma da una identificazione cieca alla sua figura che assume i toni di una vera e propria ipnosi. E che cancella ogni pensiero critico.
Nel nostro tempo la parola esaltata del leader carismatico che si elegge a interprete unico e indiscutibile della Causa (la Storia, la Razza, la lotta di classe) non ha più luogo. Il tramonto della figura simbolica del Padre patriarcale porta con sé anche la fine dell’epoca delle conflittualità ideologiche: lo sguardo magnetico e invasato del Führer ha lasciato il posto a modesti tribuni che non parlano più in nome della Causa universale, ma della affermazione narcisistica di se stessi o del proprio movimento. Nell’agone politico contemporaneo anche quando vengono impugnati ragioni apparentemente ideologiche — razziste, nazionaliste, classiste — al centro resta sempre l’interesse di bottega, l’accumulo di consenso personale. La tragedia della storia ha lasciato il posto alla farsa della cronaca.
In questo nuovo contesto l’insulto sembra essere un’arma irresistibile per fare crescere i propri meriti agli occhi degli elettori. Esiste un fondo pulsionale, acefalo — letteralmente “senza testa” — della lotta politica che prevale sulla dimensione socratica del confronto aperto e del dialogo critico. L’insulto ha lo stesso statuto dell’allucinazione psicotica; “verme”, “negro”, “troia”, “ladro”, “frocio” tagliano corto, fratturando ogni possibile dialettica critica. Come l’allucinazione si impone al soggetto nella forma di una certezza che non permette alcun giudizio, allo stesso modo l’insulto interrompe la legge simbolica della parola. Ma non si deve confondere questo statuto dell’insulto con quello che imperava nel Novecento. Quest’ultimo aveva uno statuto ontologico: l’ebreo, il comunista, il capitalista erano incarnazioni reali del Male. La lotta politica assumeva un carattere apocalittico: il Bene assoluto contro il Male assoluto. L’insulto politico che oggi invade pervasivamente i media non è ontologicamente fondato, ma solo tatticamente astuto. In questo senso il trionfo dell’insulto mostra il declino antipolitico della politica. Perché vi sarebbero certamente altri modi per tenere conto del fondo pulsionale che inevitabilmente accompagna l’azione politica. La parola “desiderio”, per esempio, è una parola che la politica farebbe bene a considerare in tutta la sua forza per non accontentarsi di una gestione burocratica dell’esistente. Fare prevalere una mentalità aridamente ragionieristica che elimina il sogno dalla politica è solo il rovescio dell’ingiuria che prepara, in realtà, il terreno per il suo successo. Per questa ragione, l’insulto e la burocrazia algida della politica ridotta ad amministrazione sono due
Ifacce di una stessa medaglia.
Politicamente scorretto UMBERTO ECO
Il Politically Correct è un vero e proprio movimento d’idee nato nell’università americana, d’ispirazione liberal e radical, e quindi di sinistra, volto al riconoscimento del multiculturalismo, per ridurre alcuni radicati vizi linguistici che stabilivano linee di discriminazione nei confronti di qualsiasi minoranza. E dunque si è iniziato a dire “blacks” e poi “Afro Americans” invece di “negri”, “gay” invece dei mille e notissimi altri appellativi sprezzanti riservati agli omosessuali... Mentre altrove esplodeva e si diffondeva il Politically Correct da noi si è sempre più sviluppato il Politicamente Scorretto. Se una volta i nostri uomini politici, leggendo su un foglietto, dicevano: «Emerge che si consente che, a una politica delle convergenze, ancorché parallele, si preferirebbe una scelta asintotica che eliminasse anche singoli punti d’intersezione», oggi si preferisce dire: «Dialogo? In culo a quegli sporchi figli di puttana!».
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