giovedì 1 ottobre 2015

Politically un/correct: questioni di bon ton o questioni di egemonia?

Americano, omosessuale, anziano, straniero? Parole discriminatorie E a Londra è vietato commemorare l'Olocausto. Troppo eurocentrico

Nato negli Usa anni ’80,il linguaggio più provocatorio e ostile alle minoranze riconquista il discorso pubblico Spesso sotto forma di insulto.E non solo in Francia

Politicamente scorretto  L’egemonia nascosta dei nuovi populisti

GIANCARLO BOSETTI Repubblica 30 9 2015

Scorrettezza politica senza frontiere, ha fatto addestramento negli Stati Uniti dai tempi di Reagan, ha traversato l’Atlantico, ora imperversa anche a Parigi e oltre, sul globo. Le due parole del suo avversario, il “politically correct”, come insulto, sono una brillante invenzione della destra americana, sviluppata a metà degli anni Ottanta per demolire la cultura liberal. L’invenzione è stata applicata per prendere il sopravvento linguistico sugli scrupoli “progressisti” nei
Sconfronti delle minoranze. Lo scrisse già la stampa inglese tanto tempo fa, prima che l’idea dilagasse per l’Europa e in tutto il mondo. La “political correctness” è un’arma offensiva che serve per alzare un po’ il tono e l’immagine di chi vorrebbe continuare a usare liberamente il
vecchio vocabolario “politicamente scorretto” e continuare a dire e scrivere: subnormali o minorati, froci o checche, zoppi o sordi o ciechi o variamente me-nomati, e negri, senza imbarcarsi in un complicato galateo, di disabili o diversamente abili, non vedenti, gay, afro-americani ecc. Si tratta di quello stesso codice interiore che inibisce ( dovrebbe) dal raccontare barzellette sugli ebrei e sui connaturati vizi loro attribuiti dalla disinibita Weltanschauung politicamente scorretta. Nella correttezza in generale c’è qualche cosa di ovvio, sano, anche se forse noioso. E anche un freno moralmente apprezzabile alla professione di egoismo e alla tentazione di dare via libera agli istinti xenofobi, etnocentrici, egoistici. Ci sono stati poi gli eccessi accademici, sempre americani, del “politicamente corretto” che hanno alimentato l’uso dell’espressione come insulto ed è subito apparso che la scommessa su questa forma di attacco era un buon investimento: modi popolari e tradizione contro i vezzi “radical- chic” di una élite “lontana” dal popolo che pretendeva di chiamare le “uova di Pasqua” “sfere di primavera”, o di cambiare l’espressione “a.C.” (“avanti Cristo”) in “prima dell’Era comune”.
Battaglie del linguaggio. Il risultato strabiliante è che l’insulto ha cominciato a funzionare anche dove la “correttezza politica” era rimasta una cosa sconosciuta, e dove ancora di più lo erano i suoi eccessi. Echi di una vita quotidiana multiculturale e multireligiosa arrivavano in una Europa dove ancora di recente (2011) la Corte dei diritti, in secondo grado, respingeva la richiesta di togliere il crocefisso dalle scuole pubbliche in Italia. C’è da dubitare che possa farlo ancora tra venti anni, e forse anche meno, davanti a nuovi ricorsi, a causa dei mutamenti in atto — i grandi flussi migratori e l’emergenza profughi, il ricambio della popolazione — che sono una delle ragioni che continueranno a far discutere di “correttezza politica”, usi e abusi. Ammoniscono saggi intellettuali liberal (dunque sospetti di PC) americani, come per esempio Martha Nussbaum: fino a quando, amici europei, continuerete a pensare che tutto questo non riguardi anche voi?
Le polemiche divampano in Francia, di fronte al fatto che un gruppo di intellettuali laici e, in qualche caso, provenienti dalla sinistra, prende posizione contro il pluralismo culturale e il multiculturalismo, in nome di una difesa del “sovranismo” nazionale, contro l’euro, l’Europa, l’Unione e le sue politiche. L’attacco si è spinto molto in là nel chiamare a raccolta le forze per trovare il “coraggio” — parola molto esibita nei loro libri da Pascal Bruckner, Caroline Fourester, Alain Finkielkraut — di dire di no a una politica di “accoglienza” generosa come quella di cui parlano Hollande e la Merkel, per tacere del Papa. Si tratta del “coraggio”, dunque, di alzare muri, e insieme ai muri i valori dell’identità e dell’interesse della nazione sovrana, nei confronti di una pressione esterna e minacciosa. Gli avversari di questi attacchi sono generalmente accusati, per converso, di viltà. Il confronto si fa dunque muscolare.
Bruckner vuole sottrarre il suo paese dall’ondata di emozione suscitata dalle immagini dei rifugiati che affogano nel Mediterraneo. È lo stesso punto di partenza del ragionamento di Michel Onfray. Anche lui non vuole che ci lasciamo incantare dall’immagine del cadavere del piccolo curdo Aylan tra le braccia del poliziotto su una spiaggia turca e chiede di mantenere lo sguardo puntato sulle malefatte di una politica che ha deluso in tutti i suoi reparti. Onfray respinge l’accusa di essere passato armi e bagagli con Marine Le Pen, “non e’ la mia tazza da tè”, ma poi di fatto ne accredita generosamente la figura, perché ha saputo rigettare la cultura del padre, e soprattutto ne riconosce il merito principale: aver raccolto i frutti degli errori di una sinistra che ha buttato il proletariato nel fosso preferendogli i “bobos” radical- chic. Ma se rifiuta di apparire un alleato organico del Front National, Onfray non attenua per niente, come gli altri philosophes di questo gruppo, l’idea di abbandonare il progetto europeo, una aspirazione che accomuna in tutta Europa partiti localisti, xenofobi, populisti, e una parte della sinistra radicale.

La combinata populista dell’attacco alla correttezza politica non è oggi solo americana ed europea, viaggia attraverso i confini e a leggere, per esempio, le polemiche di questi giorni in India, si ripresenta lì con gli stessi ingredienti: le minoranze e le differenze — caste e poi anche qui i musulmani - , le politiche di sostegno alle componenti svantaggiate sono il tema sollevato dai liberal, mentre la maggioranza hindu, racconta in un editoriale lo scrittore sul sito NDTV, Musul Kesavan, della destra del governo di Narendra Modi ha imparato ad abbandonare gli eufemismi: “c’e’ una nuova virilità nel linguaggio” che mette al bando la “correttezza”. Nel nome della schiettezza e del rifiuto delle ipocrisia, si affaccia la ribalda retorica delle maggioranze che si presentano — gioco di prestigio — come vittime, come voci “fuori del coro”. Uno degli autori di culto della critica della political correctness, l’australiano Robert Hughes ( La cultura del piagnisteo ) sosteneva che negli eccessi del PC “la destra ha trovato la manna”, anche se a sua volta essa ha una “correttezza patriottica, che serve a velare verità sgradite”, e «una strategia che promette assai peggio di qualunque cosa si possa rimproverare alla debole e circoscritta sinistra americana». I cultori nostrani di Hughes lo hanno sempre presentato come un giocatore del “politicamente scorretto”. Al contrario era un sofisticato analista delle battaglie per il controllo del linguaggio, grazie al quale, spiegava, «i conservatori reaganiani riuscirono a far passare per marxismo strisciante ogni intervento del governo nella vita economica (eccettuati gli stanziamenti militari)» e riuscirono in una impresa linguistica ancora più clamorosa: «classificare come “di sinistra” programmi e aspirazioni normali, che in una compagine politica più sana sarebbero considerati ideologicamente neutri — un’estensione dei diritti impliciti nella Costituzione».


Quei polemisti così lontani da ogni idea universale L’ANALISI / Ecco l’identikit dei nuovi intellettuali francesiMARC LAZAR
Da tempo la Francia ha una passione per le controversie intellettuali, che regolarmente infervorano il pubblico dibattito: fanno parte del suo spirito, del suo stile, della sua storia. Fu infatti qui che alla fine del XIX secolo, ai tempi dell’affaire Dreyfuss, venne coniato il termine stesso di intellettuale. Da qualche tempo questa passione è nuovamente esplosa fino all’incandescenza, ma con una differenza fondamentale: in passato i contenuti delle polemiche interessavano, certo, in primo luogo la Francia, ma anche il resto del mondo. E ciò per la semplice ragione che i dibattiti francesi sui temi di libertà, uguaglianza e fraternità, sui diritti dell’uomo e del cittadino, su giustizia e tolleranza erano di portata universale. Mentre ai nostri giorni si focalizzano in maniera ossessiva sulla Francia, sul suo passato, presente e futuro. Perciò, al di là delle sue frontiere destano attenzione non tanto per ciò che viene detto, quanto per il modo in cui lo si dice. Più che esprimere la grandezza della Francia, queste polemiche attestano un suo profondo malessere.
Sono molti i filosofi, saggisti, romanzieri e giornalisti che occupano le prime pagine dei giornali: da Alain Finkielkraut a Régis Deabray, da Michel Onfray e Michel Huellebecq a Eric Zemmour. E benché facciano riferimento a correnti di pensiero contrapposte, condividono alcune idee fisse. Sono tutti allarmati per il declino della Francia e ne indicano le cause: lo spirito lassista e libertario del maggio 1969, accusato di aver eroso le basi sane del Paese, e in particolare del suo sistema scolastico che non insegnerebbe più nulla; le restrizioni alla sovranità nazionale imposte da un’Europa burocratica e non democratica; l’immigrazione, soprattutto di origine araba e africana, sistematicamente associata all’ascesa dell’islamismo, che minaccerebbe la sopravvivenza stessa del popolo francese. L’antirazzismo buonista è incolpato di un’insopportabile denigrazione dei francesi. L’avanzata strisciante del multiculturalismo minerebbe le fondamenta della Repubblica. Discorsi del genere hanno buon gioco in un Paese che sta vivendo una depressione profonda.
Questi intellettuali danno prova di abilità quando attaccano i “benpensanti” e ciò che chiamano il “politicamente corretto”: categoria che essi stessi hanno costruito secondo la quale una vulgata di sinistra dominerebbe culturalmente la Francia da quasi mezzo secolo. Dal canto loro, si definiscono politicamente scorretti, provocatori, vicini al popolo abbandonato da una sinistra snob. Alla minima risposta o critica gridano alla caccia all’uomo. Eppure detengono posizioni di potere, al centro della scena mediatica; e spesso i loro libri diventano bestseller. Agguerriti nei dibattiti, questi intellettuali hanno ripreso l’antica tradizione dei polemisti. In particolare rifiutano di riconoscere qualsiasi pertinenza al lavoro dei sociologi, politologi, economisti e storici di formazione scientifica. A loro non servono cifre, non hanno bisogno di produrre prove, ricorrono costantemente ad argomenti come l’identità nazionale. È questo il modo per far brillare la patria delle lettere e delle idee? È lecito dubitarne.

Tramontate le ideologie resta la cecità delle pulsioni Il COMMENTO / Cosa succede quando prevalgono le urlaMASSIMO RECALCATI
l Novecento ha insegnato che il consenso nella vita politica non si raccoglie grazie alle argomentazioni persuasive, ma alla potenza seduttiva e carismatica del leader. Il fondo oscuro che ha aggregato l’adesione delle masse alla politica delirante dei vari totalitarismi — come Freud aveva visionariamente anticipato — non deriva da una condivisione razionale delle tesi del leader, ma da una identificazione cieca alla sua figura che assume i toni di una vera e propria ipnosi. E che cancella ogni pensiero critico.
Nel nostro tempo la parola esaltata del leader carismatico che si elegge a interprete unico e indiscutibile della Causa (la Storia, la Razza, la lotta di classe) non ha più luogo. Il tramonto della figura simbolica del Padre patriarcale porta con sé anche la fine dell’epoca delle conflittualità ideologiche: lo sguardo magnetico e invasato del Führer ha lasciato il posto a modesti tribuni che non parlano più in nome della Causa universale, ma della affermazione narcisistica di se stessi o del proprio movimento. Nell’agone politico contemporaneo anche quando vengono impugnati ragioni apparentemente ideologiche — razziste, nazionaliste, classiste — al centro resta sempre l’interesse di bottega, l’accumulo di consenso personale. La tragedia della storia ha lasciato il posto alla farsa della cronaca.
In questo nuovo contesto l’insulto sembra essere un’arma irresistibile per fare crescere i propri meriti agli occhi degli elettori. Esiste un fondo pulsionale, acefalo — letteralmente “senza testa” — della lotta politica che prevale sulla dimensione socratica del confronto aperto e del dialogo critico. L’insulto ha lo stesso statuto dell’allucinazione psicotica; “verme”, “negro”, “troia”, “ladro”, “frocio” tagliano corto, fratturando ogni possibile dialettica critica. Come l’allucinazione si impone al soggetto nella forma di una certezza che non permette alcun giudizio, allo stesso modo l’insulto interrompe la legge simbolica della parola. Ma non si deve confondere questo statuto dell’insulto con quello che imperava nel Novecento. Quest’ultimo aveva uno statuto ontologico: l’ebreo, il comunista, il capitalista erano incarnazioni reali del Male. La lotta politica assumeva un carattere apocalittico: il Bene assoluto contro il Male assoluto. L’insulto politico che oggi invade pervasivamente i media non è ontologicamente fondato, ma solo tatticamente astuto. In questo senso il trionfo dell’insulto mostra il declino antipolitico della politica. Perché vi sarebbero certamente altri modi per tenere conto del fondo pulsionale che inevitabilmente accompagna l’azione politica. La parola “desiderio”, per esempio, è una parola che la politica farebbe bene a considerare in tutta la sua forza per non accontentarsi di una gestione burocratica dell’esistente. Fare prevalere una mentalità aridamente ragionieristica che elimina il sogno dalla politica è solo il rovescio dell’ingiuria che prepara, in realtà, il terreno per il suo successo. Per questa ragione, l’insulto e la burocrazia algida della politica ridotta ad amministrazione sono due
Ifacce di una stessa medaglia.


Politicamente scorretto UMBERTO ECO
Il Politically Correct è un vero e proprio movimento d’idee nato nell’università americana, d’ispirazione liberal e radical, e quindi di sinistra, volto al riconoscimento del multiculturalismo, per ridurre alcuni radicati vizi linguistici che stabilivano linee di discriminazione nei confronti di qualsiasi minoranza. E dunque si è iniziato a dire “blacks” e poi “Afro Americans” invece di “negri”, “gay” invece dei mille e notissimi altri appellativi sprezzanti riservati agli omosessuali... Mentre altrove esplodeva e si diffondeva il Politically Correct da noi si è sempre più sviluppato il Politicamente Scorretto. Se una volta i nostri uomini politici, leggendo su un foglietto, dicevano: «Emerge che si consente che, a una politica delle convergenze, ancorché parallele, si preferirebbe una scelta asintotica che eliminasse anche singoli punti d’intersezione», oggi si preferisce dire: «Dialogo? In culo a quegli sporchi figli di puttana!».

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