giovedì 1 ottobre 2015

Spaghetti a Detroit. Gentrificazione e rivoluzione passiva


Fran­ce­sca Berardi e Anto­nio Rovaldi: Detour in Detroit, Hum­boldt Books, pp. 254 euro 23

Risvolto
Dal febbraio del 2013 al novembre 2014 ho visitato Detroit sei volte, per un totale di 77 giorni. Dopo tre anni trascorsi a Brooklyn, ho trovato a Detroit cosa cercavo quando ho attraversato l’Atlantico per la prima volta: spazio, sia fisico che per l’immaginazione. Mi sono bastati due giorni per decidere di scrivere il mio primo libro. Un lavoro dettato da necessità pratiche ed emozionali, che parla della città attraverso una serie di incontri con i suoi abitanti. Nel corso di due anni ho raccolto storie, idee e visioni, in un contesto che saprei definire solo come un “movimento di resistenza urbana”. Ho allenato i miei occhi a un paesaggio abbandonato, dove si alternano grandi blocchi di rovine e di cielo, e ho scoperto che la paura e la fascinazione per la decadenza scivolano presto in un secondo piano. Diventano lo strato di fondo su cui mettere alla prova un più attento grado della visione, uno sguardo più simile all’ascolto, capace di sentire l’energia che si genera quando determinazione e potenziale si incontrano. Ho chiesto a un artista, Antonio Rovaldi, di accompagnarmi e illustrare questo viaggio. Questo è il risultato del nostro lavoro. (F.B.)


di Andrea Marinelli Corriere

La classe creativa della città fantasma 
Mappe urbane. Detroit è il simbolo della black music e del declino dell’industria dell’auto. Ma è anche la metropoli dove la «gentrification» mostra il volto glamour e tranquillizzante della riqualificazione fatta di orti urbani, controcultura e welfare comunitario 

Massimiliano Guareschi manifesto 1.10.2015
In fran­cese détroit signi­fica «stret­toia». Un avven­tu­riero fran­cese, mon­sieur de Cadil­lac, scelse quel nome per un inse­dia­mento posto alla con­fluenza fra un fiume e un grande lago che aveva con­tri­buito a fon­dare. Per­dendo l’accento sarebbe diven­tata Detroit, la città dell’auto, del for­di­smo, della mas­sic­cia migra­zione dal Sud di neri attratti dalle oppor­tu­nità di lavoro offerte dalla grande indu­stria. Ma Detroit non ha signi­fi­cato solo catene di mon­tag­gio. Citando un non memo­ra­bile pezzo dei Kiss, Detroit è anche city rock, per il meglio e per il peg­gio, si potrebbe aggiun­gere: MC5 e Iggy and the Stoo­ges, ma anche il blue col­lar rock di Bob Seger fino agli abissi del metal repub­bli­cano dell’esecrabile Ted Nugent. Motor­town, con­tratto in Motown, ci riporta poi all’etichetta black del miglior soul e R’n’B. Poi negli anni Ottanta sarebbe venuta la «Techno Detroit». 

Al di là del fatto musi­cale, Detroit si pre­senta come un punto di snodo fon­da­men­tale dell’esperienza afroa­me­ri­cana: luogo di sra­di­ca­mento e crea­zione di nuove appar­te­nenze, di deter­ri­to­ria­liz­za­zione e riter­ri­to­ria­liz­za­zione, di inte­gra­zione e con­flitto. Qui nasce la Nation of Islam, con l’apparizione al fon­da­tore, il miste­rioso, Wal­lace D. Farm, di Allah in per­sona, qui ini­zia a pre­di­care Mal­colm X e Mar­tin Luther King tiene la prima ver­sione di «I dream», qui scop­pia nel 1967 la «rivolta di luglio», per sedare la quale ven­gono mobi­li­tate la guar­dia nazio­nale del Michi­gan e una divi­sione aero­tra­spor­tata. Motor­city is bur­ning can­terà John Lee Hoo­ker. Dalle mace­rie fumanti della inner city l’idea di andar­sene verso i para­disi middle-class dei sob­bor­ghi resi­den­ziali ini­zia ad essere una pro­spet­tiva seducente. 



Il fal­li­mento annunciato 
We almost lost Detroit è il titolo indi­ret­ta­mente pro­fe­tico di un pezzo di Gil Scott-Heron del 1977. Il rife­ri­mento era a un inci­dente nucleare, quello del reat­tore Fermi1, che avrebbe minac­ciato nel 1966 la distru­zione della città. In realtà a deser­ti­fi­care Detroit non sareb­bero state le radia­zioni quanto gli effetti altret­tanto pos­senti di dina­mi­che economico-sociali legate sia alle ten­denze alla subur­ba­niz­za­zione tipi­che delle città sta­tu­ni­tensi sia, soprat­tutto, al pro­cesso di ristrut­tu­ra­zione e delo­ca­liz­za­zione sca­te­na­tosi a par­tire dalla fine degli anni Set­tanta. Men­tre chiun­que disponga di un red­dito suf­fi­ciente, soprat­tutto bian­chi, si tra­sfe­ri­sce nei sob­bor­ghi resi­den­ziali e le grandi fab­bri­che chiu­dono l’inner city si svuota. Calando il red­dito dei resi­denti, l’infernale mec­ca­ni­smo del loca­li­smo fiscale con­tri­bui­sce a defi­nan­ziare tra­sporti, scuole e ogni tipo di ser­vi­zio sociale, incre­men­tando l’incentivo ad andarsene. 
Nel 2009 poi la muni­ci­pa­lità, som­mersa dai debiti, dichiara fal­li­mento. E così Detroit da Motor­town si tra­sfor­merà in ghost town o mur­der town (in con­cor­renza con Bal­ti­more, non a caso scena del giu­sta­mente cele­brato «The Wire»), epi­fa­nia estrema delle dina­mi­che tipi­che della Rust Belt, una fascia di città del Mid­west in cui la rug­gine appare come l’attestazione resi­duale delle pas­sate glo­rie indu­striali e un monito circa una rina­scita sem­pre riman­data.
Una super­fi­cie equi­va­lente a quella di san Fran­ci­sco, Boston e Man­hat­tan messe insieme per soli 700 mila abi­tanti: è in que­sto spa­zio urba­niz­zato che sem­bra con­trad­dire i det­tami ter­ri­to­riali tipici dell’urbano che Fran­ce­sca Berardi e l’artista Anto­nio Rovaldi ambien­tano il loro detour, anche in que­sto caso senza accento, alla cac­cia di sto­rie e imma­gini. Il risul­tato è un libro, dal titolo Detour in Detroit (Hum­boldt Books, pp. 254 euro 23), che assume la forma di una deriva geo­gra­fica pun­teg­giata e con­ti­nua­mente rio­rien­tata dagli incon­tri con inter­ces­sori le cui nar­ra­zioni esor­ciz­zano la spet­tra­lità del pre­sente rian­no­dando i fili con il pas­sato o rive­lando punti di vista inso­spet­tati su che cosa si muove in città. Si ini­zia con Leni Sin­clair, una gio­vane pro­ve­niente dalla Ger­ma­nia Est che giunta negli Stati Uniti nel 1959 incon­tra il jazz, il rock e la foto­gra­fia. Ma anche un uomo, John Sin­clair, che avrebbe spo­sato e di cui avrebbe con­ser­vato il cognome anche dopo il divor­zio. Insieme con­tri­bui­rono in maniera deci­siva a fon­dare le White Pan­thers, rispon­dendo a una sol­le­ci­ta­zione di Huey New­ton, ed ebbero l’intuizione geniale di coin­vol­gere una garage band, gli MC5 di Wayne Kra­mer e Fred «sonic» Smith», al fine di por­tare il mes­sag­gio di rivolta presso i gio­vani bianchi. 
John Sin­clair da anni vive in Olanda, Leni è rima­sta a Detroit, in una casa som­mersa dalle foto­gra­fie da lei scat­tate, rigo­ro­sa­mente senza flash, ai grandi del jazz e del rock degli anni Ses­santa e Set­tanta, e auspica una rina­scita della città come nuova Amster­dam, con­fi­dando ancora una volta sull’erba come ingre­diente essen­ziale se non per la rivo­lu­zione, come ai tempi del move­ment, almeno per una forma di svi­luppo eco­no­mico della città i cui frutti pos­sano rica­dere anche sui gruppi subalterni. 
Un ana­logo otti­mi­smo viene espresso da una mili­tante quasi cen­te­na­ria, Grace Lee Boggs, fon­da­trice con il marito James, C.L.R. James e Mar­tin Gla­ber­mann di una signi­fi­ca­tiva espe­rienza del mar­xi­smo ame­ri­cano degli anni Cin­quanta e Ses­santa, il Cor­re­spon­dence Publi­shing Com­mi­tee. A suo avviso il disa­stro della città indu­striale cree­rebbe le pre­messe per una rivo­lu­zione comu­ni­ta­ria basata sul «lavo­rare meno e con­su­mare meno», su un cam­bia­mento degli stili di vita basata sul «Do-it-yourself», il mutua­li­smo e l’autoproduzione (lungo una gamma che va dagli orti urbani alle stam­panti 3D). Più rea­li­sta, invece, appare invece la posi­zione di You­sef Sha­kur, ex mem­bro di una gang dive­nuto poi orga­niz­za­tore di comu­nità, secondo cui, al di là di ogni illu­so­ria idea di rina­scita, quello di cui Detroit neces­sità è lo svi­luppo di un forte movi­mento sociale.
Uno degli effetti più ecla­tanti dello svuo­ta­mento di Detroit è costi­tuito dai cosid­detti «deserti ali­men­tari». In ampie zone della città, dove con la popo­la­zione si rare­fa­ceva la capa­cità di spesa, i negozi hanno ini­ziato a chiu­dere. E così, il distri­bu­tore di ben­zina si pre­senta come l’unico luogo dove è pos­si­bile approv­vi­gio­narsi di cibo. Allo stesso tempo, però, gli enormi vuoti che si crea­vano nello spa­zio urbano hanno ini­ziato a essere col­ti­vati. Tra ini­zia­tive dal basso e sup­porto di Ong, Detroit è così diven­tata una delle capi­tali mon­diali dell’urban far­ming. 
In gioco sono que­stioni fon­da­men­tali, che oltre all’approvvigionamento chia­mano in causa il red­dito, l’autoconsumo ma anche pro­du­zione per il mer­cato, l’empo­wer­ment delle comu­nità vici­nali, la ride­fi­ni­zione del rap­porto con il cibo. Ma la linea della razza emerge anche qui. Come mostrano diverse voci rac­colte da Berardi, nel tempo si è creata una vera e pro­pria «buro­cra­zia» dell’agricoltura urbana ege­mo­niz­zata da bian­chi usciti dall’università, senza dub­bio ben inten­zio­nati ma la cui azione non manca di susci­tare nelle comu­nità nere l’impressione sgra­de­vole del pater­na­li­smo e dell’imposizione dall’alto di modelli di con­sumo e comportamento. 

Desi­deri di riappropriazione 
In un libro di qual­che anno fa, tra­dotto in Ita­lia da il Mulino con il discu­ti­bile titolo da guida turi­stica L’altra New York, Sha­ron Zukin rico­struiva i mec­ca­ni­smi che ave­vano con­dotto alla costru­zione dell’immagine del Lower East Side, di Har­lem e di Williamsbourg-Brooklyn come luo­ghi «urbani auten­tici» e quindi pas­si­bili di valo­riz­za­zione immo­bi­liare. La pos­si­bi­lità di acce­dere a immo­bili a basso costo favo­ri­sce l’insediamento di una popo­la­zione «biz­zarra» e di gal­le­rie d’arte, locali alter­na­tivi, bot­te­ghe arti­giane, creando pro­gres­si­va­mente un’ecologia gra­dita alla «crea­tive class», dispo­sta a pagare cifre cre­scenti per dimo­rare in una zona non ano­nima e sti­mo­lante. Il con­se­guente aumento dei valori immo­bi­liari, tut­ta­via, fini­sce per col­pire in primo luogo que­gli stessi pio­nieri che con il loro stile di vita ave­vano dis­so­dato quelle parti di città costrin­gen­doli a tra­sfe­rirsi altrove. Anche Detroit, con i suoi vuoti di valore, non sfugge agli appe­titi dei gen­tri­fi­ca­tori. Lo fanno chia­ra­mente capire le parole di Bruce Sch­wartz, numero due della Quic­ken Loans, una sorta di The Cir­cle dei mutui, per citare il recente romanzo di Dave Eggers. Diviene allora facile com­pren­dere il carat­tere ambi­va­lente e aperto a esiti oppo­sti di quelle pra­ti­che di rein­ven­zione e riap­pro­pria­zione dello spa­zio urbano che susci­tano l’entusiasmo di una vec­chia mili­tante come Grace Lee Boggs. 
Gli orti urbani, la ride­fi­ni­zione della mobi­lità a par­tire dalla bici­cletta (nel cuore della città dell’auto per eccel­lenza), lo svi­luppo di atti­vità eco­no­mi­che impron­tate alla coo­pe­ra­zione, il wel­fare dal basso, la dif­fu­sione di spazi con­tro­cul­tu­rali se da una parte con­tri­bui­scono a ridi­se­gnare le forme di una cit­ta­di­nanza attiva e riven­di­ca­tiva dall’altra svol­gono una fun­zione deci­siva nel creare quel valore aggiunto di cui il real estate è sem­pre pronto ad appro­priarsi. Si pos­sono nutrire dubbi sul suc­cesso nell’ex Motor­city della ricetta che altrove ha dato grandi sod­di­sfa­zioni alla spe­cu­la­zione immo­bi­liare e al capi­tale finan­zia­rio. E tut­ta­via il ten­ta­tivo è in corso. Per con­tra­starlo, con ogni evi­denza, il valore in sé delle pra­ti­che e degli stili di vita non basta.




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