L'urbanistica è una disciplina sempre piú inadeguata alla realtà delle città e del loro quotidiano farsi e disfarsi. I processi umani, economici, etnici e ambientali che si manifestano nei centri urbani sfuggono sistematicamente a piani e progetti, a mappe e logiche immobiliari. L'urbanistica continua a essere anacronisticamente legata all'architettura, con le sue ossessioni formalistiche e spettacolari. Le città, nel frattempo, crescono per spinte interne, non solo in slums e favelas, ma attraverso la richiesta di spazio pubblico che si manifesta nei grandi eventi di piazza, da Gezi Park a Occupy Wall Street. Mai come oggi la democrazia si gioca nello spazio pubblico, nelle strade, sui marciapiedi. Urbanistica e pianificazione sono invece ancora prigioniere di una visione obsoleta, che mitizza la passività a scapito delle esigenze del reale. Serve una nuova scienza delle città, capace di garantire, in primo luogo, una vita dignitosa e decorosa per tutti. Un'urbanistica da rifondare, per rispondere al diritto a una quotidianità ancora del tutto ignorata.
domenica 8 novembre 2015
Contro l'urbanistica
Risvolto
Oggi le città hanno una complessità,
ricchezza e povertà che sfugge
alla pianificazione schiava del riduzionismo
economico o di slogan come
smart e sustainable. Serve una
nuova scienza del capire e fare città
che parta dall'urbano come esperienza
vissuta dei suoi abitanti.
L'urbanistica è una disciplina sempre piú inadeguata alla realtà delle città e del loro quotidiano farsi e disfarsi. I processi umani, economici, etnici e ambientali che si manifestano nei centri urbani sfuggono sistematicamente a piani e progetti, a mappe e logiche immobiliari. L'urbanistica continua a essere anacronisticamente legata all'architettura, con le sue ossessioni formalistiche e spettacolari. Le città, nel frattempo, crescono per spinte interne, non solo in slums e favelas, ma attraverso la richiesta di spazio pubblico che si manifesta nei grandi eventi di piazza, da Gezi Park a Occupy Wall Street. Mai come oggi la democrazia si gioca nello spazio pubblico, nelle strade, sui marciapiedi. Urbanistica e pianificazione sono invece ancora prigioniere di una visione obsoleta, che mitizza la passività a scapito delle esigenze del reale. Serve una nuova scienza delle città, capace di garantire, in primo luogo, una vita dignitosa e decorosa per tutti. Un'urbanistica da rifondare, per rispondere al diritto a una quotidianità ancora del tutto ignorata.
L'urbanistica è una disciplina sempre piú inadeguata alla realtà delle città e del loro quotidiano farsi e disfarsi. I processi umani, economici, etnici e ambientali che si manifestano nei centri urbani sfuggono sistematicamente a piani e progetti, a mappe e logiche immobiliari. L'urbanistica continua a essere anacronisticamente legata all'architettura, con le sue ossessioni formalistiche e spettacolari. Le città, nel frattempo, crescono per spinte interne, non solo in slums e favelas, ma attraverso la richiesta di spazio pubblico che si manifesta nei grandi eventi di piazza, da Gezi Park a Occupy Wall Street. Mai come oggi la democrazia si gioca nello spazio pubblico, nelle strade, sui marciapiedi. Urbanistica e pianificazione sono invece ancora prigioniere di una visione obsoleta, che mitizza la passività a scapito delle esigenze del reale. Serve una nuova scienza delle città, capace di garantire, in primo luogo, una vita dignitosa e decorosa per tutti. Un'urbanistica da rifondare, per rispondere al diritto a una quotidianità ancora del tutto ignorata.
Per una nuova urbanistica
Disegna la città e valuta l’impatto
di Salvatore Settis Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Ogni
mese (anche questo, anche il prossimo) cinque milioni di persone
lasciano per sempre la campagna e migrano in città. Nel 1850 viveva in
città il 3% della popolazione mondiale, oggi il 54%; il 70% nel 2030,
secondo le previsioni: i due terzi dell’umanità. Nel 1950 le città del
pianeta oltre il milione di abitanti erano 83, oggi sono più di 500, di
cui sedici oltre i 20 milioni. In questa urbanizzazione a tappe forzate,
più di un miliardo di esseri umani vive in slums, che talvolta coprono
il 90 % di agglomerati che di “città” hanno solo il nome. Su questo
sfondo, quale è il compito dell’urbanistica? È la dura domanda che corre
in ogni pagina del nuovo libro di Franco La Cecla, Contro l’urbanistica
(Einaudi). Ma si può essere, così senza mezzi termini, contro
l’urbanistica o ancora Contro l’architettura (così un altro libro dello
stesso autore, pubblicato da Boringhieri nel 2008)? La Cecla non è tanto
ingenuo da voler negare l’intero percorso di una disciplina, ma ha il
coraggio che basta per sfidarne l’incoerenza di fondo: in una epocale
trahison des clercs, questa la tesi, l’urbanistica ha finito col
considerare se stessa una disciplina al servizio del potere e non dei
cittadini, barricata in un miope tecnicismo che mette alla porta la
democrazia, sorda al degrado ambientale, incapace di rinnovarsi
facendosi plasmare dai problemi della gente e del mondo. Da antropologo,
ma ancor più da cittadino fra i cittadini, La Cecla percorre col suo
sguardo inquieto un pianeta in ebollizione (acuti reportages di viaggio
intervallano i capitoli del libro, portandoci da Giacarta a Minsk, da
Fukuoka a Milano, e culminando naturalmente in Parigi) e ne misura la
febbre, constatando la povertà delle risposte di tecnici e politici, la
perversa tendenza a rimuovere la coscienza dei processi in atto o a
leggerli sotto il segno di una pretesa necessità.
In una scrittura
densa e impegnata, il plaidoyer di La Cecla si muove fra due poli,
l’attualità e la storia. Sul fronte della storia, il suo argomento è
difficile da contestare: Kropotkin, Geddes, Mumford concepirono
l’urbanistica come osservazione simpatetica della convivenza dei
cittadini entro le forme urbane, dove la regolazione della città sia
pensata in funzione della vita quotidiana, anzi (diciamolo) della
felicità dei cittadini. Il secondo Novecento vede gradualmente imporsi
«una idea tutta tecnica dell’urbanistica», che ne annienta la matrice e
la sapienza umanistica, «come se la fenomenologia urbana fosse tutta
fatta di forme e non fossero invece importantissimi tutti i legami e le
reti e l’invisibilità delle intenzioni di chi l’abita e di chi ci viene a
vivere». Divenuta «l’ancella del formalismo architettonico»,
«l’urbanistica ha ucciso l’urbanità», è diventata «una specie di
assistente dell’economia immobiliare». E qui La Cecla dispiega il suo
controveleno, la vita quotidiana delle donne e degli uomini, «una forma
di produzione di società, una morale per la vita di tutti i giorni, le
routine, i ritmi quotidiani, i sogni collettivi». Al centro della sua
proposta, il necessario rapporto fra il corpo del cittadino e il corpo
della città, un «abitare i posti» che voglia dire usare la città e non
consumarla né esserne consumati. Risuona qui, anche se La Cecla se ne
distanzia, il modello della città come luogo supremo di «produzione
dello spazio sociale» di Henri Lefebvre, con la connessa tematica del
diritto alla città che innerva le tante manifestazioni di piazza di
questi anni. Il Droit à la ville di Lefebvre, pubblicato pochi mesi
prima che esplodesse il Maggio francese (1968) fu il vero e proprio
annuncio della categoria dell’“urbano” come strumento descrittivo e
interpretativo di una fase storica in cui la città tende a identificarsi
con la forma complessiva della società, secondo The World City
Hypotesis (John Friedmann, 1986), che somiglia sempre più
all’ecumenopoli di Asimov, una sola città di quaranta miliardi di
abitanti che copre l’intero pianeta di Trantor.
L’urbanistica al
servizio di voraci developers, ci ricorda La Cecla, è incapace di
contrastare le formidabili mutazioni interne che caratterizzano la città
di oggi e di domani: l’esplosione delle periferie e l’obesità delle
megalopoli, la mercificazione dello spazio in estensione (urban sprawl) e
in altezza (il vertical sprawl che Vittorio Gregotti ha chiamato
“grattacielismo”), la gentrification che scaccia i meno abbienti dai
quartieri più appetibili (al tema è dedicato un recente libro di
Giovanni Semi, appena pubblicato dal Mulino: Gentrification. Tutte le
città come Disneyland?). Nuove divisioni urbane, basate sul censo, si
insediano nelle città. La transizione da città a paesaggio, che fu
storicamente una sorta di cerniera, cede il passo a feroci confini
intra-urbani, caratterizzati dalla segmentazione della società, da spazi
di esclusione, controllo delle libertà e limitazione dei diritti.
L’urbanistica «che si occupa di separare, zonizzare, controllare,
chiudere dietro cancelli i ricchi e le classi medie e dietro paraventi
di lamiera gli slums» è una disciplina che ha rinnegato se stessa,
disumanizzandosi fino al punto di negare all’agricoltura il diritto di
esistere (a meno che non sia l’intensivo land grabbing di immensi
neo-latifondi): «la città non ha più bisogno di una campagna né di una
natura dove vengano prodotte le risorse per la sua sopravvivenza».
Mettendo
al centro le pratiche di vita quotidiana delle comunità urbane e il
ruolo essenziale dell’agricoltura nella vita economica e civile, il
libro di La Cecla è un forte richiamo alla responsabilità degli
urbanisti (e dei politici) e perciò rivendica l’urgenza di una
“valutazione di impatto sociale” (Vis) delle pianificazioni urbane,
raccomandata dalla Commissione Europea ma di là da venire in Italia. La
Cecla ha fiducia nella riqualificazione dell’urbanistica sulla base di
una corretta e non burocratica applicazione della Vis: prova ulteriore,
se ve ne fosse bisogno, che la sua non è una cieca invettiva contro
l’urbanistica, ma anzi si propone come manifesto per una nuova
urbanistica, non solo tecnica ma storica, ecologica e antropologica, una
“scienza umana” oggi più necessaria che mai.
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