mercoledì 4 novembre 2015

Partito laclauiano di massa in Italia?

Democrazia anno zero. Il manifesto politico del leader di Podemos
Dal fichissimo Iglesias a Vendola & D'Attorre. Abbandonare la linea-Maitan per sostenere l'asse Tachipirinas-Podemos [SGA].

Pablo Iglesias Turrión: Democrazia anno zero, Edizioni Alegre 

Risvolto
In questo libro, iniziato a scrivere prima della nascita di Podemos e concluso dopo la sua esplosione politico elettorale in Spagna, Iglesias definisce argomentazioni e tecniche di combattimento per tutti coloro che si sentono indignati da un sistema corrotto che produce crescenti disuguaglianze. Il mondo è governato da un partito, quasi leninista e a vocazione internazionalista, che impone politiche di austerity ad ogni singolo governo nazionale. Iglesias lo definisce il "Partito di Wall Street", rappresenta l'1% che vive al vertice del sistema economico e i suoi funzionari - presenti in tutte le Istituzioni del mondo - passano tranquillamente dai Consigli di amministrazione delle grandi imprese ai Consigli dei ministri. E viceversa. Se, apparentemente, siamo liberi di scegliere tra il partito A e il partito B - a meno che, come abbiamo visto in Grecia, il risultato delle urne non sia gradito - in realtà la democrazia viene trasformata in un significante vuoto. Attraverso gli strumenti della politologia, la rilettura storica della lotta per la democrazia in Spagna negli ultimi cento anni e l'analisi dell'attuale crisi economica, Iglesias mostra che non può esistere democrazia senza una vera socializzazione del potere, e non può esistere lotta politica senza la costruzione di un'egemonia culturale. "Vincere le elezioni non significa prendere il potere", è il messaggio che lancia al resto della sinistra europea. Con un'intervista a Maurizio Landini. 

Gli antagonisti della casta 
Jacopo Rosatelli Manifesto 4.11.2015, 0:25 
L’apparenza rischia di ingan­nare: di fronte a Demo­cra­zia anno zero di Pablo Igle­sias Tur­rión (tra­du­zione di Dario Di Nepi, Edi­zioni Ale­gre, pp. 192, euro 15) qual­cuno potrebbe cre­dere che il lea­der di Pode­mos abbia scritto un pam­phlet sulla «Spa­gna che vor­rei» ad uso della cam­pa­gna elet­to­rale per il voto del 20 dicem­bre. For­tu­na­ta­mente non è così: il libro – la cui edi­zione ita­liana si deve alla cura dei gior­na­li­sti Mat­teo Puc­cia­relli e Gia­como Russo Spena – non appar­tiene a quel genere let­te­ra­rio di dub­bio valore a cui spesso si dedi­cano aspi­ranti primi mini­stri. È, invece, un docu­mento pre­zioso per capire il baga­glio teo­rico con il quale Igle­sias, insieme a un drap­pello di altri stu­diosi, ha tra­sfor­mato in realtà ciò che fino a due anni fa era una sem­plice intui­zione, un’ipotesi di un gruppo di irre­quieti intel­let­tuali di sini­stra, quasi tutti sotto i 40 anni. Se l’edizione ori­gi­nale (di cui ha scritto sul mani­fe­sto del 14/2 Beppe Cac­cia) aveva una pre­fa­zione di Ale­xis Tsi­pras, que­sta è arric­chita da un’intervista dei cura­tori a Mau­ri­zio Lan­dini, utile a defi­nire le somi­glianze e (soprat­tutto) le dif­fe­renze fra la Coa­li­zione sociale pro­mossa dal segre­ta­rio Fiom (per il momento archi­viata in attesa di tempi migliori) e il gio­vane par­tito spagnolo. 
Ciò che Igle­sias chiama un «insieme di appunti a fine divul­ga­tivo», scritto in buona misura prima che il «fenomeno-Podemos» esplo­desse, è un’opera di peda­go­gia poli­tica pen­sata innan­zi­tutto per il varie­gato arci­pe­lago di atti­vi­sti nati e cre­sciuti con il movi­mento degli indi­gna­dos. Un testo con­ce­pito per raf­for­zare ideo­lo­gi­ca­mente, ma senza gergo da ini­ziati, quella mol­ti­tu­dine che si era ritro­vata la prima volta il 15 mag­gio 2011 alla madri­lena Puerta del Sol, diven­tando in breve tempo il nuovo pro­ta­go­ni­sta col­let­tivo della poli­tica spa­gnola ed euro­pea. Un attore non pre­vi­sto dal copione del potere, che scon­volse gli ana­li­sti per la sua vastità e capa­cità di creare con­senso attorno a sé. Ma che rischiava di abban­do­nare la scena, nell’inevitabile riflusso, con un amaro senso di scon­fitta, se non avesse gene­rato qual­che tan­gi­bile segno di rot­tura del qua­dro politico-sociale esi­stente. Come, ad esem­pio, la nascita e l’affermazione di Podemos. 
Se il gruppo di Igle­sias ha potuto, fino ad ora, far sal­tare gli schemi dell’asfittico bipar­ti­ti­smo spa­gnolo è innan­zi­tutto gra­zie a un’idea della poli­tica – e della lotta poli­tica – figlia della grande tra­di­zione del rea­li­smo, da Machia­velli a Lenin, che inse­gna che «le ragioni senza la forza non sono niente». Quel rea­li­smo che impone a chiun­que voglia dav­vero per­se­guire una poli­tica radi­cale di rifug­gire tanto dagli estre­mi­smi infan­tili dei «movi­men­ti­sti» che urlano slo­gan rivo­lu­zio­nari e si con­su­mano in incon­clu­denti e inter­mi­na­bili assem­blee, quanto dalle malat­tie senili che afflig­gono i par­ti­tini di sini­stra pre­oc­cu­pati solo da «cospi­ra­zioni, liste, patti, chiac­chiere da cor­ri­doio e chia­mate tele­fo­ni­che che allon­ta­nano i mili­tanti dalla società», e che si sen­tono «a pro­prio agio sol­tanto in minoranza». 
È il rea­li­smo che ha gui­dato Syriza ai suoi suc­cessi elet­to­rali, dovuti non al fatto che i greci siano improv­vi­sa­mente diven­tati di sini­stra radi­cale, ma alla capa­cità della for­ma­zione di Tsi­pras di «diven­tare un’alternativa reale per gover­nare il paese». Che è ciò che si pro­pone Pode­mos, e che spiega il suo rifiuto di col­lo­carsi lungo l’asse destra-sinistra come forza «a sini­stra del Psoe». 
Vin­cere le ele­zioni, tut­ta­via, «non signi­fica, nean­che lon­ta­na­mente pren­dere il potere»: Igle­sias lo sa per­fet­ta­mente, cosciente del fatto che il ter­reno di gioco è quello scelto dagli avver­sari. La lezione di Gram­sci è viva: per l’autore biso­gna costruire ege­mo­nia nella società, sapendo ela­bo­rare e poi imporre, attra­verso un uso sapiente dei media (un elemento-chiave), il pro­prio lin­guag­gio al ser­vi­zio di una let­tura auto­noma del mondo. E biso­gna legarsi a movi­menti, intel­let­tuali, strin­gere alleanze (quelle utili) con altre forze, senza l’arroganza di chi si sente auto­suf­fi­ciente – ciò che, se mai ce ne fosse ancora biso­gno, mostra una delle dif­fe­renze di fondo fra Pode­mos e Movi­mento 5 Stelle. 
Esempi molto chiari di cosa signi­fi­chi avere un’interpretazione auto­noma della realtà sono offerti dai tre capi­toli del libro dedi­cati rispet­ti­va­mente alla sto­ria spa­gnola dalla Restau­ra­zione bor­bo­nica (1875) all’avvento dell’attuale sistema (1978), alla crisi eco­no­mica, e alla «crisi di regime» della Spa­gna di oggi. La parte sto­rica (quasi un libro nel libro) serve a mostrare ai desti­na­tari ori­gi­nari del volume, i gio­vani mili­tanti «indi­gnati», che la lotta per la demo­cra­zia ha «un cuore antico», e che sapersi eredi di sta­gioni anche molto lon­tane aiuta a costruire la neces­sa­ria coscienza di sé – a con­di­zione, aggiun­giamo noi, che non si assuma il modo di con­si­de­rare il pas­sato che Nie­tzsche defi­niva «anti­qua­rio», che para­lizza l’azione. La suc­ces­siva ana­lisi della crisi eco­no­mica è una sin­tesi effi­cace delle moda­lità e dei risul­tati della lotta di classe com­bat­tuta dai ric­chi orga­niz­zati nel «par­tito trans­na­zio­nale di Wall Street», men­tre le pagine sulla crisi isti­tu­zio­nale spa­gnola mostrano il valore pie­na­mente poli­tico del tema della cor­ru­zione, che l’autore affronta per denun­ciare l’intreccio fra poli­tica ed eco­no­mia gra­zie al quale le oli­gar­chie pos­sono «gover­nare senza pre­sen­tarsi alle ele­zioni». Almeno fin­ché qual­cuno, pie­na­mente cosciente delle dif­fi­coltà dell’impresa, non decide di sfi­darle sul serio.



«Nuovo soggetto», c’è l’accordo anche sulle città
'Cosa rossa'. La 'quadra' c'è anche sulle amministrative. Parte la start up della nuova forza, slitta a gennaio la prima uscita pubblicadi Daniela Preziosi il manifesto 4.11.15
Nel 2018 o, meglio, alle prossime politiche, un nuovo soggetto di sinistra ci sarà. Stavolta la decisione sembra presa e l’impegno sottoscritto. Il tavolo della «cosa rossa», che nelle scorse settimane aveva sfiorato il fallimento, lunedì sera invece ha trovato la quadra e partorito il testo di un accordo, un «preambolo» sulle principali questioni sul piatto.
La prima, appunto, la partenza immediata di un soggetto «alternativo e autonomo» al Pd. Una partenza «non più procrastinabile» di un processo costituente democratico «di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale», ed «europeo» in quanto «parte di una sinistra europea antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile».
Nel testo si sciolgono due nodi che fin qui avevano rischiato di portare allo stallo. Il primo è una questione di fondo, e cioè il certificato di morte del vecchio ’centrosinistra’: in Italia quella stagione «è finita», dice il testo. Il secondo è la diretta conseguenza sulle prossime amministrative. Sel, il principale azionista del nuovo soggetto — in quanto a numeri, almeno — fin qui ha deciso di partecipare alle primarie milanesi, anche se i compagni del ’tavolo rosso’ per lo più sono contrari alle alleanze con il Pd. Ma nel capoluogo lombardo la situazione è in alto mare, e la candidatura da più parti caldeggiata di Giuseppe Sala potrebbe riaprire la discussione. In ogni caso Sel oggi sottoscrive un documento stringente e impegnativo su questo punto. Che dice che per la scadenza delle amministrative «vogliamo lavorare alla rinascita sociale, economica e morale del territorio, valutando in comune ovunque la possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo». Dove la parola «discontinuità» restringe fino allo zero i margini per il sostegno e l’alleanza con eventuali candidati del Pd, o con il Pd stesso (scenario che del resto si fa sempre più probabile per la stessa Sel; ma non in tutte le città); ma del resto ogni scelta sarà sottoposta a una «valutazione comune».
Il 2016 sarà anche l’anno del referendum sulla riforma costituzionale, che nel testo viene definita «manomissione». Fra i primi impegni del nuovo soggetto ci sarà la campagna referendaria per il no e invece «il sostegno alle campagna referendarie in via di definizione contro le leggi approvate in questi due anni». Pace fatta, cosa rossa in fase di avvio, dunque. stavolta per davvero. Giovedì l’ultima riunione dovrebbe raccogliere le firme di tutte le delegazioni presenti al tavolo: Sel, Prc, L’Altra Europa per Tsipras, Futuro a sinistra (Fassina), Cofferati, Act e altre sigle di movimento. Anche i rappresentanti di Possibile e di Civati hanno dato il loro ok. Giovedì sarà anche il giorno della definizione della road map: una prima assemblea probabilmente a gennaio, una carta dei valori, l’avvio di una «Carovana dell’Alternativa» per il programma «in un cammino partecipato». E se tutto va bene entro l’autunno 2016, cioè fra un anno, la fine della start up e la nascita ufficiale del soggetto della sinistra. d.p.


D’Attorre lascia il partito “Pd ha cambiato natura”
di G. D. M. Repubblica 4.11.15
Bacino potenziale, 15 per cento. Subito alla prova nelle amministrative di primavera con propri candidati e contro il Pd là dove «diventa partito della Nazione ». E in quel caso, al ballottaggio, la scelta può cadere sui 5stelle. Il bersaniano Alfredo D’Attorre disegna lo schema del nuovo progetto di sinistra che nasce sabato al Teatro Quirino. Vi troveranno posto Sel, Fassina, alcuni esponenti del mondo cattolico, lo stesso D’Attorre, Carlo Galli e Vincenzo Folino. Quest’ultimi tre lasciano oggi il Pd e lo annunciano in conferenza stampa. E’ una mini scissione, gocce che cadono una dopo l’altra. D’Attorre però è convinto che ben presto si aprirà la falla. «Per Renzi la sinistra ha una funzione puramente decorativa». Parole che forse faranno più male ai compagni della minoranza che al premier.
Perché non poteva continuare a opporsi alla segreteria Renzi nel Pd aspettando di combattere per un’alternativa al congresso nel 2017?
«Perché il Pd ha subìto un riposizionamento completo e una mutazione genetica. E’ una forza centrista che finisce per guardare più volentieri verso settori della destra che a sinistra ed è illusorio pensare che sarà soltanto una parentesi. Il Pd non è il Labour o l’Spd, non ha 100 anni di storia, quelli che ti permettono di passare dalla stagione di Blair all’epoca di Corbin. Ha pochi anni di vita, è per la prima volta al governo e quello che fa adesso lascerà un segno indelebile. La discontinuità di Renzi è qualcosa di diverso da una normale alternanza tra segretari ».
La Cosa rossa con Landini, Sel, sindacati e scissionisti del Pd non nasce con le stigmate del soggetto vecchio, che guarda al passato?
«Non sarà una Cosa rossa, non sarà un soggetto della sinistra minoritaria e antagonista. Vogliamo creare un partito di governo, largo e plurale, con le radici nell’esperienza di centrosinistra, ulivista, aperto al cattolicesimo democratico e sociale».
Quale può essere il vostro traguardo elettorale?
«Il bacino potenziale è intorno al 15 per cento».
Con il 40,8 per cento del Pd la sinistra non ha già trovato una casa?
«Le Europee sono l’equivalente delle amichevoli nel calcio. Ciascuno si prende una qualche libertà e i punteggi sono un po’ drogati. Alle ultime amministrative il Pd di Renzi è sotto il Pd di Bersani».
Speranza, Cuperlo arriveranno?
«Per il momento prevale il senso di responsabilità, ma non so quanto potrà durare, specie all’approssimarsi di appuntamenti elettorali in cui la divaricazione tra partito della Nazione e sinistra rischia di diventare totale».
Quindi alle amministrative ci sarà lo scontro tra due sinistre?
«Dove c’è la possibilità di aprire un confronto noi ci saremo, dove si realizzerà il partito della Nazione la sinistra esprimerà un candidato alternativo».
Ma al ballottaggio voterere il candidato Pd?
«Gli elettori di sinistra non voteranno i candidati della destra, molti potrebbero essere attratti dai 5stelle. Non stiamo facendo la Cosa rossa, non siamo né settari né protestatari».
A Roma per voi correrà Stefano Fassina?
«A Roma bisogna cambiare spartito nel segno dell’onestà, della serietà e della vicinanza al mondo del lavoro. In questo senso Fassina sarebbe un ottimo candidato, da offrire anche alle forze sane del Pd per uscire dal cul de sac in cui Renzi e Orfini le hanno cacciate».


Minoranza e governatori, il nuovo asse anti-segretario
La mossa del premier: legge di Stabilità per il voto amministrativodi Goffredo De Marchis Repubblica 4.11.15
ROMA A Montecitorio gira voce che oggi Matteo Renzi rimetterà 500 milioni nel bilancio delle Regioni sul piede di guerra. Un modo per frenare la protesta e per evitare che il coro dei governatori contro il governo si saldi alle critiche della minoranza del Pd sulla manovra. Basteranno? A giudicare dalle parole di Sergio Chiamparino, no. Ieri il governatore del Piemonte, renziano della prima ora, ha attaccato a testa bassa il premier. Non ritirerà le dimissioni dalla presidenza della conferenza Stato-regioni, non interromperà la dura opposizione ai tagli della legge di stabilità. «Preferisco avere le mani libere dal punto di vista politico per portare avanti le proposte legate alla nuova stagione che si apre. Le mie dimissioni, giovedì chiederò di calendarizzare l’elezione del nuovo presidente».
Chiamparino è seduto su una montagna di debiti, un nuovo sforbiciamento sarebbe un colpo durissimo. Per questo alcuni presidenti di regione hanno raccolto il suo sfogo, la sua ansia di battaglia e persino il proposito di lasciare la carica di governatore se Palazzo Chigi continuerà a essere sordo al suo grido di allarme. E se Renzi, un tempo l’amico sindaco che voleva raggiungere gli standard del collega torinese, insisterà nel non rispondere alle sue telefonate. Oggi le regioni sembrano pronte ad andare allo scontro, malgrado lo sconticino dei tagli che fonti del governo hanno già fatto arrivare alle orecchie dei loro presidenti. Chi è in rosso sulla sanità e sarebbe costretto ad aumentare i ticket o a ridurre i servizi, vuole provocare Renzi fino alla fine. «Diremo al governo di riprendersi la gestione della salute pubblica. Così toccherà a lui fare i tagli e prendersi le responsabilità di togliere le analisi cliniche ai cittadini».
Roberto Speranza dice che la sinistra Pd sposa la battaglia degli enti locali. «Renzi rimetta la Tasi per non cancellare la Tac», ripete con una battuta amara l’ex capogruppo del Pd alla Camera. Il fuoriuscito dal Pd Stefano Fassina ammette che nelle finanziarie ci si è sempre regolati così. «Si annunciano certi tagli, poi in corso d’opera si restituisce qualcosa. Renzi fa ciò che hanno fatto tutti gli altri», sono le parole di Fassina. Ma l’assoluzione finisce qui. «Il dramma per i cittadini è che ogni anno il saldo negativo si allarga e non rimangono più soldi per i servizi ».
Renzi ha intenzione di contrastare l’asse tra regioni, comprese quelle di centrosinistra, e minoranza Pd sostituendo Chiamparino alla conferenza Stato-regioni con un fedelissimo: Stefano Bonaccini. Non con Enrico Rossi, comunque non sgradito, tantomeno con Nicola Zingaretti che il premier non ama e con il quale i rapporti sono gelidi. Bonaccini invece è un governatore molto stimato, con un passato nella componente bersaniana del Pd, ma oggi è un renziano di ferro.
Chiamparino si smarca definitivamente dalle politiche dell’esecutivo. «La situazione non sarebbe così politicamente corretta — ha spiegato motivando la sua scelta — se uno avesse una responsabilità che deve fargli tenere conto delle esigenze di tutti». Certo, il governatore può trovare dalla sua parte dissidenti, Sel, la nuova Sinistra degli scissionisti dem, ma è con i voti del Pd che i presidenti di centrosinistra governano le loro amministrazioni. Alla fine, l’asse può concentrarsi sulla tassa prima casa che con il ripensamento di Renzi porterà nelle casse dello Stato 91 milioni ma allargando la platea dei paganti ai ceti più abbienti arriverebbe a 1,5 miliardi evitando la mannaia sulla sanità. Ma non ci sono margini ulteriori su quel fronte: «Il taglio della Tasi - spiega Renzi - aiuta i pensionati non i ricchi. E noi dobbiamo fare politica nelle periferie non nei salotti buoni». «L’intervento sulla prima casa non è incostituzionale come dice Bersani perché parliamo di tassa non di imposta e la progressività non è contemplata - dice il capogruppo di Sel Arturo Scotto - . Ma è chiaro che la manovra ha un segno elettorale e democristiano nella sua impostazione. Renzi non avrebbe mai colpito le regioni se in primavera si fosse votato per loro anziché per i comuni». Saranno sufficienti 500 milioni per arginare la protesta? Basterà l’incontro di oggi, al quale parteciperà anche il premier, per frenare la rivolta delle regioni e dei loro fiancheggiatori in Parlamento? Renzi sa che è la legge di stabilità la partita sulla quale la sinistra si gioca le sue carte. Per adesso e soprattutto per l’appuntamento delle amministrative.


Renzi alla nuova sinistra: «Chi vuole andare, lo faccia»
Democrack. Da martedì in aula il nuovo gruppo, in tre oggi lasciano il Pd. Sabato a Roma la presentazione, ci sarà Cofferati. Poi le assemblee nelle città. Scotto: «Apriamo una saracinesca». In attesa di altri demdi Daniela Preziosi il manifesto 4.11.15
Il nuovo gruppo parlamentare della sinistra italiana si è guadagnato anche il «lancio» di Matteo Renzi. Ieri, da una delle tante anticipazioni just in time del nuovo libro di Bruno Vespa (si intitola Donne d’Italia ma fin qui a far notizia sono le dichiarazioni di un solo uomo, il presidente del consiglio) il premier ostentava indifferenza verso i nuovi abbandoni annunciati nel Pd: «Chi va a raggiungere Landini, Camusso, Vendola, Fassina faccia pure. Io non seguo la logica del vecchio Pci: mai nemici a sinistra. Se si vuole militare in una sinistra di testimonianza, d’accordo. Ma, con questa sinistra, certo non si può governare».
Nessuna alleanza a sinistra, dunque. Non è una novità. Eppure il presidente-segretario dovrebbe informarne anche i suoi dirigenti romani, a partire dal commissario Matteo Orfini, impegnati a tentare di ricucire lo strappo dell’alleanza dopo il terremoto Marino. E a proporre nuove versioni di centrosinistra, magari senza simboli di partito.
Intanto oggi a Montecitorio andranno in scena altri tre addii al Pd. sono i già bersanianissimi Alfredo D’Attorre e Vincenzo Folino e il politologo bolognese Carlo Galli. I tre, contrari alla legge di stabilità e da mesi in grande sofferenza, firmeranno un documento comune che però circolerà nelle email dei deputati della minoranza Pd. C’è chi assicura che la vena del braccio sinistro del partito non è ancora chiusa e che entro l’anno altri usciranno. Per andarsi a sedere non già nel gruppo misto ma nel nuovo gruppo della sinistra. Che sabato 7 novembre sarà presentato a Roma al teatro Quirino, alla presenza di un ex Pd doc come l’europarlamentare Sergio Cofferati (ma ci saranno anche rappresentanti dell’Arci, della Cgil, dei movimenti della scuola, dei lavoratori contro il jobs act e dei comitati contro la riforma costituzionale). Ieri Sel ha votato le necessarie modifiche allo statuto e già da martedì 10 il nuovo gruppo si presenterà al battesimo dell’aula con un altro nome e una nuova formazione a 31: ai 25 di Sel si uniranno i tre che lasciano oggi; poi dal misto arriverà Stefano Fassina, Monica Gregori e anche Claudio Fava: aveva lasciato il partito di Vendola esattamente un anno fa insieme a Gennaro Migliore &Co. Ma la compagnia poi aveva rapidamente traslocato nei banchi del Pd. E Fava era rimasto al misto, e ancora all’opposizione. Ora torna a sedersi alla sinistra dell’emiciclo.
«Con il nuovo gruppo apriamo una saracinesca, uno spazio a disposizione di chi vorrà», spiega Arturo Scotto, presidente dei deputati di Sel. «Non sarà un luogo di testimonianza, come spera Renzi, ma di iniziativa, contro le leggi del governo e soprattutto in connessione con le domande di politiche di sinistra alle quali fin qui non abbiamo saputo dare una risposta». Non «un’operazione di palazzo», giura Scotto, ma un «terminale sociale»: è la definizione coniata qualche giorno fa da Stefano Rodotà su Repubblica per indicare un programma proprio per il gruppo parlamentare in gestazione: «Nel momento in cui si cerca di allargare l’orizzonte politico», ha scritto, «non basta il ricorso intelligente a tutti gli strumenti parlamentari disponibili, che possono incontrare resistenze difficilmente superabili. Per batterle, è indispensabile che i gruppi parlamentari siano un vero “terminale sociale”, per creare sui singoli temi quella pressione collettiva essenziale per superare gli ostacoli». Un’apertura di credito confortante per i vendoliani, forse persino un segnale di dialogo dopo le infinite polemiche a sinistra, alcune proprio con il giurista: dalle scelte dell’europarlamentare Barbara Spinelli fino alla nascita della Coalizione sociale di Maurizio Landini, in polemica con i partiti della sinistra.
Intanto dalla prossima settimana il nuovo gruppo sarà ’presentato’ nelle principali città italiane. E sarà qui che incrocerà il già avviato cammino unitario della ’cosa rossa’ nei territori dove si giocherà la partita cruciale della primavera: cruciale sia per il nuovo soggetto di sinistra in fase di start up, sia per il partito della nazione di Renzi in fase di rodaggio.
In tutta Italia in questi giorni si producono fatti nuovi. Ieri a Bologna si è consumato il divorzio definitivo fra Sel e Pd. A Torino la sinistra sta decidendo di abbandonare il sindaco Fassino e inaugurare una ’coalizione politico-sociale’ con movimenti e lavoratori.
E poi c’è la Capitale del post ’Marino’. In queste ore nella Roma di sinistra circola il nome di Stefano Fassina, già campione di preferenze nelle parlamentarie del Pd nel 2012 dove ha raccolto quasi 12mila voti. Lui per ora non esclude l’idea. Ma appunto, per ora non è più che un’idea, anche se già agita i sonni del Pd. «Il centrosinistra è morto», spiega il coordinatore romano di Sel Paolo Cento, «l’obiettivo oggi è costruire un campo allargato della sinistra democratica, su basi e interpreti nuovi. Se vogliamo avere una chance di vittoria dobbiamo costruire un campo che vada da Fassina, a Possibile e Civati, da Fabrizio Barca a quella parte del Pd scossa dalla vicenda di Mafia Capitale e dall’imbarazzante conclusione della consiliatura». Fassina «è una delle ipotesi. E se Marino vorrà dire la sua per noi resta un interlocutore».


Il calcolo politico di Renzi di punire le Regioni e premiare i sindaci
di Lina Palmerini Il Sole 4.11.15
Le Regioni all’attacco e i Comuni soddisfatti. Chiamparino sul piede di guerra, Fassino che promuove la legge di stabilità. Entrambi del Pd ma di amministrazioni locali diverse e questo potrebbe raccontare qualcosa del calcolo politico di Renzi su questa manovra. Sacrificare i Governatori a vantaggio dei sindaci è una scelta che ha molto a che fare con la visione del premier. È come se scegliesse di comunicare le sue scelte di Governo attraverso le città sapendo che sono quelle dove il riscontro con i cittadini e con il consenso è più diretto, meno mediato. E anche meno inquinato dagli scandali ai quali le Regioni hanno invece abituato.
Quello che ha colpito, però, è stato lo scontro con i Governatori e con Sergio Chiamparino. È vero che è nello stile del premier cercare dei fronti di conflitto per far meglio emergere le sue politiche. Lo fa di frequente con la sinistra del suo partito proprio per dare credibilità al suo profilo riformista e moderato ma averlo fatto anche con le Regioni - e con quelle governate con il centro-sinistra – fa pensare che sia stato voluto. «Ci divertiremo» aveva detto il premier annunciando l’incontro con i Governatori e ieri Chiamparino gli ha risposto che per lui non ci sarà nulla da divertirsi. Insomma, ferri corti.
Ma perché Renzi ha scelto questa battaglia con le Regioni? E perché, invece, ha “protetto” i Comuni? Per loro non sono previsti tagli in Finanziaria ma soprattutto è stato sbloccato quel patto di stabilità per gli investimenti che aveva tenuto le mani legate dei sindaci per molti anni. La prima risposta può essere maliziosa: ossia che il prossimo anno si va a votare per i Comuni. Ma forse non è abbastanza.
Perché in questa contrapposizione con i Governatori, Renzi sa di avere un gioco più facile. E dunque se un taglio, una “punizione”, ci deve essere meglio che vada alle Regioni che hanno una pessima reputazione presso i cittadini, sono forse l’ente locale più impopolare innanzitutto per ciò che le cronache giudiziarie hanno raccontato: dalle tangenti ai rimborsi elettorali. La controprova è nei dati dell’affluenza elettorale: alle scorse regionali di maggio 2015 in Veneto come in Campania, Umbria e Liguria, è scesa in media di 10 punti. Insomma, le amministrazioni regionali sono sinonimo di spreco e anche di inefficienza a giudicare da come la sanità viene gestita da gran parte delle Regioni. E da ex sindaco, Renzi sa come portare acqua al suo mulino. Perché è vero che la spesa sanitaria si va progressivamente riducendo, come dicono i Governatori, ma è anche difficile da capire come da un monte risorse di 110 miliardi le Regioni possano fare una battaglia per un miliardo di taglio.
Quello che non si capisce è se il premier userà questo nuovo fronte per “ridimensionare” il peso e i condizionamenti delle Regioni che puntualmente a ogni legge di stabilità – e non solo - aprono un fronte di scontro e poi di trattativa con il Governo. Bisognerà aspettare per vedere fin dove si spingerà il premier e se questa diventa la prima mossa di un’offensiva più ampia di revisione dell’impianto regionale come da alcune proposte di legge che immaginano di portarle da 20 a 12.
Al momento è verosimile che Renzi dopo qualche fuoco d’artificio arrivi a una trattativa con Chiamparino e conceda una parte di ciò che i Governatori chiedono. Anche perché nessuno degli interlocutori è in grado di impartire lezioni agli altri. Nemmeno il Governo che ha fatto una spending review modesta e deludente. 

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