Salvatore Settis e Maurizio Paoletti (a cura di):
Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace, Donzelli, pagg. 116, euro 20
Risvolto
I Bronzi scoperti nel 1972 al largo delle coste della Calabria
rappresentano un esempio nobile e sublime di quel «saccheggio del
passato» che si svolge sotto i nostri occhi e di cui siamo non solo
spettatori, ma sempre più spesso anche attori e inconsapevoli
protagonisti. Dopo i fumetti, le pubblicità e gli spot turistici, il
successo mediatico dei Bronzi richiede di essere guardato da una nuova
prospettiva. I saggi raccolti in questo volume mescolano l’ironia e le
amare riflessioni su un caso di studio esemplare, proponendo qualche
suggerimento sulla strada da seguire per valorizzare le due celebri
statue, rarissimi originali greci in bronzo del V secolo a.C., vanto del
Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. Il primo cattivo uso
dei Bronzi di Riace è stato fatto dagli archeologi, che si sono mostrati
riluttanti a dialogare con un pubblico desideroso di condividere le
conoscenze che sono proprie degli specialisti della grande arte antica.
Altrettanto grave appare poi il fallimento delle istituzioni nazionali e
locali, che a lungo sono state incapaci di scelte coraggiose e si sono
dimostrate invece pronte a sfruttare la «fama» dei Bronzi per scopi
spesso discutibili. In questo volume, Maurizio Paoletti e Salvatore
Settis affrontano, insieme ad autorevoli personalità delle istituzioni
museali, del mondo della cultura, della storia dell’arte e
dell’archeologia, la questione nei suoi aspetti più rilevanti:
dall’identità vera o presunta dei Bronzi, alla gestione delicatissima
delle statue nel Museo di Reggio, fino alla loro trasformazione in vere e
proprie «icone pop». Dal libro riemerge con forza la fondamentale
centralità delle istituzioni e la convinzione che il buono e cattivo uso
dei Bronzi è, prima di tutto, una questione culturale.
Quei Bronzi che nessuno sapeva apprezzare
Una breve notizia quando furono scoperti. Sotto tono la prima mostra Poi il boom. Fino a diventare icone invocate per mostre effimere
SALVATORE SETTIS Repubblica 19 12 2015
Quale che ne sia stata la collocazione originaria e il destino che li gettò sui fondali della costa calabrese presso Riace, le due straordinarie statue di bronzo hanno sperimentato negli ultimi decenni tre diverse rinascite. Della terza è ancora troppo presto per dire, ma certo le altre due si sono svolte «a furor di popolo», e tuttavia contro il basso continuo di archeologi professionali, superciliosi difensori dei linguaggi e dei riti disciplinari, e comunque convinti di saperla più lunga dei non specialisti e di dover strenuamente resistere alle loro emozioni, guardandole dall’alto in basso.
La prima «rinascita» è ovviamente quella della casuale riscoperta (16 agosto
1972). Ora che i bronzi di Riace hanno raggiunto una fama universale spodestando statue un tempo famosissime (basti pensare all’Apollo di Belvedere), è impossibile ripercorrere i primi ritagli stampa dalla Gazzetta del Sud senza stupirsi dello scarsissimo rilievo che fu accordato al riemergere di quei due capolavori. La prima notizia è del 19 agosto, a pagina 5, dove i titoli principali sono riservati a una chiusura temporanea dell’autostrada a Scilla, alla finale di un festival a Palmi, all’esplosione di un ordigno in un ristorante a Villa, alla perizia psichiatrica di un’omicida a Locri. In un angolo, accanto a un riquadro con Le migliori pagelle (e relative foto), un trafiletto di poche righe, Statua bronzea nel mare di Riace. (…) Dopo otto anni di accurato restauro, la «seconda rinascita» dei bronzi di Riace avvenne con la loro prima esposizione al pubblico, aperta il 15 dicembre 1980 al Museo archeologico di Firenze, con chiusura prevista all’11 gennaio 1981: meno di un mese. L’avarissimo dépliant che accompagnava la mostra fa il paio con le prime notizie di giornale: povero e reticente su tutto, metteva le mani avanti sin dal titolo: I grandi bronzi di Riace: un restauro archeologico. Le statue venivano dunque esposte non come alti capolavori dell’arte classica, non come prodigiose sopravvivenze di un’arte (quella della scultura in bronzo) quasi del tutto divorata dal tempo e dell’avidità degli uomini, bensì come occasionali reperti archeologici da sottoporre a restauro per dovere protocollare. (…) Nella prima settimana della mostra tornai a vederla ogni giorno: i visitatori erano pochissimi, nessun giornale ne aveva dato notizia, nessun tentativo si era fatto di segnalare l’importanza della scoperta. Ma i visitatori, passandosi la notizia di bocca in bocca, cominciarono a crescere dopo qualche giorno, diventarono folla, massa, valanga, e obbligarono a prorogare la durata della mostra, poi spostata al Quirinale per volontà del presidente Sandro Pertini. I bronzi di Riace diventarono superstar, se ne parlò in tutto il mondo, si moltiplicarono le notizie di cronaca, gli entusiasmi, le proposte; e, con più lentezza, gli studi. Insomma, quella che avrebbe potuto essere una grande occasione per l’archeologia fu di fatto un grande fallimento per gli archeologi. (…) Due questioni si sono agitate, negli anni, intorno ai bronzi di Riace, e meritano di essere ricordate qui: in quale museo debbano essere esposti, e se debbano essere più o meno facilmente prestati per mostre e altri eventi effimeri.
I Bronzi devono restare nel Museo di Reggio, a cui per competenza territoriale furono subito assegnati, o sarebbe invece meglio spostarli in una città con più flusso turistico (si è parlato di Roma, Napoli, Firenze)? Reggio non può competere con Roma per il numero di visitatori abituali, questo è chiaro: ma è questa una ragione sufficiente perché i Bronzi debbano esser deportati altrove? Si è detto, e non è di per sé sbagliato, che i Bronzi, essendo di produzione greca e non magno-greca, non hanno alcuna ragione cogente di restare in Calabria. Sì, ma allora non sarebbe giusto cederli senz’altro al Museo archeologico di Atene, dove i visitatori non mancano? Non sarebbe giusto restituire all’Egitto gli obelischi di piazza Montecitorio e di piazza Navona? Il principio di pertinenza territoriale e topografica dei reperti archeologici è fra le linee-guida della tutela in Italia, e non c’è ra- gione di proporre una deroga in questo caso. (...) Ogni oggetto d’arte (o di storia) prende senso e spicco solo attraverso il confronto con altri oggetti: questo e non altro è il senso del museo. Ci dibattiamo in questi anni fra due paradossi opposti: quello del contesto e quello del museo. Il «paradosso del contesto» vorrebbe che nessuna opera venga allontanata dal luogo di rinvenimento, trasformando l’Italia in un’infinita (ingestibile) sequela di micro- musei: è l’altra faccia della globalizzazione, che produce, a mo’ di controveleno, fondamentalismi localistici. Ma l’eguale e il contrario del «paradosso del contesto», per quanto assai meno avvertito, è il «paradosso del museo». Ogni museo che si rispetti è esso stesso un nuovo contesto: ma quel che non sappiamo più fare è prenderci la responsabilità intellettuale ed etica di creare a testa alta un contesto nuovo; si fa prima a «lasciare tutto sul posto», passivamente adeguandosi a miopi spinte locali. Perciò è già tanto se i bronzi di Riace sono a Reggio (120 chilometri da Riace). Piuttosto che trasferirli a Roma, non sarebbe giusto riuscire finalmente ad aprire nella loro interezza le straordinarie collezioni del Museo di Reggio, rendendole più note e più appetibili mediante accurate operazioni conoscitive e promozionali? (...) Di segno analogo sono le polemiche sul possibile prestito dei bronzi di Riace, la cui fama universale ha cagionato numerosissime ipotesi di spostamenti temporali per eventi effimeri. Scambiati per costosi soprammobili, i Bronzi sono periodicamente invitati al trasloco in occasione di incontri internazionali, Olimpiadi, esposizioni commerciali e altri «grandi eventi», dove – vuole la leggenda – innalzerebbero di botto il prestigio nazionale. L’idea di un’opera iconica che riassuma le meraviglie d’Italia scatenando vuote vanterie si estende ad altre celebrità. E non è poi tanto lontana l’insistenza di Berlusconi, che deportando i Bronzi alla Maddalena per il G8 sperava di recuperare qualche grammo di credibilità. Queste ostensioni fuori contesto hanno un vantaggio: evitano sia a chi le fa sia ai visitatori la tentazione di pensare. Davanti alle icone, infatti, non si pensa, si venera, esaltando la bellezza, magari come l’equivalente di un giacimento di petrolio, con conseguenti introiti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Bronzi d’Italia
Il museo di Reggio perde visitatori Ecco come si spreca un’occasione La grottesca sagra del kitsch intorno alle sculture e gli errori degli archeologi saccenti denunciati in un volume a cura di Settis e Paoletti (Donzelli)16 gen 2016 Corriere della Sera Di Gian Antonio Stella
E chi va male? I Bronzi di Riace. Tra i numeri trionfali (evviva!) dati dal ministro Dario Franceschini sull’aumento dei visitatori nei musei c’è un buco fastidioso. L’ha scovato, scrivendone sul sito quellochenonho.net, Antonietta Catanese. La quale ha segnalato una curiosa sfasatura nella notizia data dal ministero: ci sono l’aumento del 40 per cento delle visite al «Vito Capialbi» di Vibo Valentia e quello del 12 per cento all’archeologico di Crotone e il boom negli incassi del 49 per cento al «Parco» di Locri. Ma manca il confronto col 2014 del museo di Reggio Calabria che ospita le celeberrime statue, oltre ad altri pezzi che farebbero la fortuna di ogni esposizione mondiale.
Da piangere: nell’anno migliore dei musei italiani, quelli calabresi e perfino quello dei Bronzi perdono colpi. Nonostante il rifacimento dello storico edificio reggino firmato da Piacentini, restauro costato 33 milioni di euro, cioè il triplo degli undici previsti. Nonostante gli anni impiegati per i lavori, non ancora finiti a dispetto del limite fissato nel marzo 2011 per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Nonostante il boom turistico mondiale e l’Expo 2015…
Tutto inutile: i visitatori di tutti i musei, i palazzi storici, i siti archeologici della regione sono scesi l’anno scorso, rispetto al 2014, da 401.634 a 357.212, con una perdita di 44.422 utenti. Perdita dovuta per due terzi al museo reggino che ospita i guerrieri: da 195.998 visite, forse dovute anche all’emozione per il ritorno delle statue dopo anni di esilio nell’androne della Regione, a 164.076. Un calo di oltre il 16 per cento. Con un parallelo calo negli incassi, da 433.548 a 375.019 euro. La metà di quanto incassano le Grotte di Catullo e il Museo Archeologico di Sirmione.
Colpa dei treni al Sud, troppo pochi e troppo lenti? Dei pochi voli aerei? Dei cantieri sull’autostrada Salerno-Reggio? Dei tour operator internazionali? Per carità, tutto vero. Ma che sia solo colpa degli altri… Come chiamerebbero gli stranieri il museo dei Bronzi? «Museo dei Bronzi». Il nostro si chiama «Manrc»: Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. Acronimo scelto dal Mibact, il Ministero beni e attività culturali e turismo. A sua volta così definito dall’Ubcsd, Ufficio burocratico creatori sigle demenziali.
Per non dire del sito Internet. Dove nella homepage, tutta in italiano tranne una colonnina in inglese, non solo non ci sono la Testa del filosofo, il Kouros, la testa di Apollo Aleo o i Pinakes, ma sono quasi assenti, salvo una fotina, i Bronzi. Clicchiamo «Buy ticket»: «La pagina web non è disponibile». Quella «Informazioni e guide» avverte oggi, a metà gennaio 2016, che il museo «a partire dal 27 Giugno e fino al 19 Dicembre 2015 sarà aperto» ogni sabato fino a mezzanotte o che si può arrivare a Reggio con un volo Alitalia in offerta: offerta scaduta. Quanto al «nuovo» museo da 33 milioni, nessun cenno. Anzi, il sito ti prende pure per i fondelli col link «allestimento (prima del restauro)». Cialtronerie da licenziamento istantaneo. Con gogna.
Quelle meravigliose statue, che hanno avuto la sventura di naufragare davanti a Riace e poi nel mare di chiacchiere d’insulsa vanità, sono sempre state trattate, del resto, come peggio non si poteva. Lo ricorda il libro Sul buono e sul cattivo uso dei bronzi di Riace (Donzelli) a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis, con saggi di Simonetta Bonomi, Gregorio Botta, Pier Giovanni Guzzo, Carmelo G. Malacrino, Giuseppe Pucci, Mario Torelli.
Un testo qua e là agghiacciante. Che dimostra come perfino una botta di fortuna quale il ritrovamento di due capolavori immensi sia stata sostanzialmente sprecata. Prima da archeologi saccenti che ripiegati sul proprio ombelico, accusa Salvatore Settis, rimasero «sbigottiti e increduli (…) giungendo perfino a incolpare (!) i mass media di un successo che non riuscivano a capire perché sfuggiva alla loro routine accademica». Poi dall’abuso dei Bronzi, denuncia Maurizio Paoletti, trattati troppe volte come « semplici feticci del nostro “marketing culturale”».
E così, in «un’assurda sagra del kitsch», ecco che «copie dei guerrieri si vendono come immaginette religiose vicino ai santuari» e ambulanti smerciano «riproduzioni in miniatura, ma anche foulard, portachiavi, cavatappi, portacenere, fermalibri, penne a sfera»… Il tutto in versione anche deluxe con copie dei guerrieri in oro «in vendita a partire da quasi 40 milioni di lire» e perfino, come denunciò Luigi Lombardi Satriani, «bambole gonfiabili, quelle erotiche di tipo “giapponese”, con le sembianze dei Bronzi».
Per non dire dei Bronzi usati per vendere le automobili Renault o l’acqua di Colonia «Possanza», per raccomandare la prevenzione del tumore alla prostata, per invitare alle stagioni teatrali (il guerriero con la mascherina!), per esaltare la calabresità della liquirizia, per presentare la nuova maglietta della Reggina calcio, per sostenere la tesi che la cultura (oddio, il bronzo benzinaio!) è «il petrolio d’Italia» e perfino per spacciare («uova grandissime!») l’uovo reggino.
Fino ai capolavori del «pornokitsch»: gli «Sbronzi di Riace» coi boccali di birra e poi in uno spot della Regione, che fanno «pari montagna, dispari mare», o addirittura superdotati nel porno-fumetto «Sukia», dove soddisfano ogni sogno pecoreccio. Una carrellata da incubo. Che fa a pezzi tutte le vanterie di chi tuona «Noi! Noi, gelosi custodi di una civiltà millenaria!». E obbliga tutti noi a chiederci: ma ce li meritiamo?
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