lunedì 11 gennaio 2016
Gnoli intervista Pierluigi Cerri
ANTONIO GNOLI Repubblica 10 1 2016
La foto che Pierluigi Cerri mi mostra, durante la lunga conversazione che avviene nel suo studio milanese, sembra scolpire un’immagine di bella gioventù: «Fu scattata alla fine degli anni Cinquanta quando frequentavo il Politecnico. Quattro ragazzi. Vede quello sulla destra? È Renzo Piano». Sembra il più estraniato. «Trova? A me fa molta tenerezza. Era un ragazzo timido, con una leggera nota di ennui, di noia, negli occhi. Come se il sentimento fondamentale verso la vita dovesse essere stare a guardarla. Ecco, abbiamo guardato molto e molto imparato dalle forme che l’esistenza ci ha messo a disposizione. C’è chi pensa per parole e chi pensa per immagini, noi, intendo noi di quella foto, pensavamo per immagini».
Per questo è diventato architetto?
«Ci sono molte ragioni per una scelta del genere. Le mie comprendevano anche quel senso di sguardo, di misura, quasi fisica, del mondo esterno. A volte facciamo un cattivo uso delle nostra salde convinzioni. Ma di questo ci accorgiamo quando è troppo tardi. Per quanto mi riguarda ho detestato la mia professione. Se fossi un pittore avrei girato le tele verso la parete».
E questa spinta autocritica da dove nasce?
«Dal fatto che la perfezione non è di questo mondo. Penso a un progetto mio e ne intravedo i limiti. Non ci posso fare niente, fin da bambino vedevo il limite delle cose».
Non necessariamente è un danno.
«No, alla fine sono riuscito a realizzare cose belle e importanti. Ma la sensazione di una precarietà quasi intima del mondo non mi ha mai abbandonato».
Da cosa è dipeso?
«Non lo so e per giunta è un sentimento vagamente contraddittorio. Se devo trovare una risposta torno alla mia infanzia privilegiata. Mi svegliavo felice in quel perimetro incantato che è San Giulio sul lago d’Orta. E venni a contatto con una misura architettonica perfetta. Forse è lì che coltivai per la prima volta il bisogno assoluto di perfezione».
Vi è nato?
«Sì, i miei da Milano vi sfollarono durante la guerra. In seguito, per ragioni di salute, fui mandato in un collegio a Ruta di Camogli, un luogo che ricordo con grande tenerezza. Negli anni Cinquanta tornammo a Milano: il liceo, l’università, il Politecnico. Nei primi anni Sessanta strinsi amicizia con Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Insieme avevano fondato la rivista Azimuth.
Castellani fu, come qualcuno disse, il padre del minimalismo. Manzoni si opponeva allo status quo, alla pittura immacolata. Entrambi detestavano i pittori in circolazione e avevano poco del paese-Italia. Erano nature artisticamente isolate e a me incuriosiva il loro lato bizzarro. Quando era in vena Piero mostrava un’anima mercuriale. Nei momenti di felicità sapeva essere profondo».
C’era in lui la nevrosi del cibo.
«Più quella del bere».
Erano gli anni del Jamaica.
«Un po’ sopravvalutati. Una bohème prevedibile. Esistenzialismo in ciabatte. Piero frequentava raramente. Mi laureai. Vennero le mie esperienze nel mondo dell’editoria. A cominciare dal Saggiatore dove negli anni Settanta disegnai alcune copertine».
Chi era il suo contatto?
«Enrico Filippini che aveva a lungo lavorato in Feltrinelli per poi passare a Il Saggiatore e successivamente alla Bompiani. Credo che fu Vittorio Gregotti a presentarmelo. Diventammo buoni amici. Gli devo molto per quella che posso considerare la mia visione del mondo».
A cosa pensa in particolare?
«Era un uomo di cultura tedesca. Eccellente traduttore di opere filosofiche. Giornalista di Repubblica, si era formato nel clima del Gruppo 63. C’era in lui un finezza che non era mai evanescenza. Le sue considerazioni sulla modernità divennero in qualche modo le mie».
Gregotti è stata un’altra persona che ha influito su di lei.
«Vittorio è di una generazione precedente alla mia. Il suo imprinting su di me c’è stato. Pur nella diversità di certe posizioni, ho imparato molto da lui. Ed è stato importante partecipare alla fondazione del suo studio nel 1974».
Perché divorziaste a un certo punto?
«Fu una separazione consensuale. Del resto, già negli anni in cui si lavorava assieme, era come se nel suo studio ne fosse cresciuto un altro: il mio, rivolto meno all’architettura su grande scala. Mentre lui progettava la Bicocca io mi orientavo verso gli allestimenti interni, le piccole architetture. Sono troppo ansioso per poter affrontare “guerre” di lunga durata. Aspettare vent’anni per vedere la realizzazione di un progetto mi getterebbe nell’ansia».
Cosa pensa dei grandi architetti?
«Dipende quali».
Frank Gehry per esempio.
«Indiscutibilmente è un grande. La sua visione si fonda sulla decostruzione totale. Ha realizzato strutture di straordinario interesse ma che non appartengono a questa disciplina. Sono come installazioni. Niente di suo può essere imitato. Chi provasse a farlo sarebbe patetico».
Ce l’ha con il postmoderno?
«Non lo amo. Questo è evidente. Si è passati dal rizoma al perizoma. Sono per il recupero dei valori del moderno: scopo e necessità».
Mi faccia capire meglio.
«Pensi all’”Unité d’Habitation” di Le Corbusier: un progetto che partecipa di una visione chiara e solida, con lo scopo di migliorare la qualità abitativa. Offrendo al tempo stesso un nuovo paesaggio per la città. Non mi pare poca roba. Del resto, fu uno dei compiti che l’architettura del Novecento si è assegnato».
Il Novecento nasce moderno e finisce post.
«La fine del secolo scorso ha assistito alla crisi dell’architettura. Essa dovrà scontrarsi con i grandi mutamenti tecnologici in corso. Non basta progettare un bosco verticale per essere all’altezza di una nuova estetica».
C’è anche un problema di bellezza.
«È difficile da spiegare a chi non si occupa di queste cose».
Provi.
«Intanto ci vuole un’educazione al bello. Qui a Milano ad esempio ci sono architetture che non sono state né viste né memorizzate dai milanesi. Il progetto realizzato da Luigi Moretti, in Corso Italia, è straordinario. Ma chi lo conosce? Poi esistono bellezze difficili da digerire come la Torre Velasca».
Bianciardi la definì un «torracchione di vetro e ce«Creò parecchi contrasti, non lo nego e non solo in Italia. Il mondo è pieno di gente che ama il pittoresco. Temo che i milanesi non abbiano mai molto amato l’architettura. Pensi a un’esperienza interessante come Ca’ Brutta, non lontana da via Turati. L’edificio fu realizzato da Giovanni Muzio agli inizi degli anni Venti. Sembra disegnato da De Chirico. La verità è che raramente Milano alza gli occhi al cielo».
Cosa vedrebbero i milanesi?
«Che ci fu un periodo di grande creatività».
A lei, però, interessa meno la grande architettura.
«Mi interessano le forme che sopravvivono nella storia ».
A proposito di forme, cosa pensa di Renzo Piano?
«Renzo ha uno stile e dunque una riconoscibilità che è esaltata dai dettagli. C’è la famosa frase che il buon Dio abita nei particolari. Credo che nel linguaggio e nelle forme che egli crea ci sia come una scintilla divina. Le faccio vedere una foto in cui siamo insieme. Non avevamo ancora finito gli studi».
È una foto scattata al Politecnico?
«No, fu scattata in casa di Renzo a Milano».
Dove abitava?
«Non ho un ricordo preciso. Ma ho un’immagine: dalla finestra di casa sua si vedevano i binari della stazione di Lambrate».
Nella foto siete in quattro.
«Il primo da sinistra è Gianfranco Franchini, che con Piano e Rogers vinse il concorso per il Centre Pompidou. Poi ci sono io, un nostro amico argentino, pittore, e infine Renzo Piano in una delle pochissime foto senza barba. Avevamo poco più di vent’anni».
Si capiva in qualche modo cosa il destino gli aveva riservato?
«Il talento c’era tutto. Renzo sperimentava continuamente. Ritagliava e costruiva modellini. Tanto è vero che un giorno il padre, entrando nella stanza, vedendo tutte quelle costruzioni in miniatura, disse: ma state giocando o studiate?».
Perché è innamorato del piccolo?
«Per me è una cosa naturale. Ad esempio sono molto interessato alla Graphic Design. Mi appassiono al problema del passaggio dall’analogico al digitale. Se è vero che una nuova tecnologia crea una nuova estetica, allora siamo in un momento straordinario».
A proposito di estetica e di riconoscibilità lei ha progettato la famosa striscia rossa di Prada.
«Tutto è nato da una barca di regata. Di solito la si riempiva di segni. Ho voluto alleggerirla. Togliere il superfluo delle immagini. Così è nata quella striscia rossa. Che poi, per le leggi di mercato, fu applicata ai tacchi delle scarpe e ad altri oggetti».
In fondo è un eclettico.
«Non mi offendo. Anche se non derogo mai dalla difesa dei principi del moderno».
Principi che furono esposti in un libro importante di Le Corbusier che lei ha curato.
«Sì, Verso l’Architettura, uno dei grandi libri del Novecento. Fu pubblicato nel 1923. Ne proposi la traduzione a Longanesi che accettò. Lo curai insieme a Pierluigi Nicolin. Si tratta di una straordinaria riflessione sul movimento moderno».
Un omaggio alla scienza delle costruzioni.
«È vero, si parla anche di piloni che sorreggono le case, ma anche di tetti giardino, di città, di urbanistica, di soluzioni strepitose per la gente comune. Fu un genio. Pontus-Hultén sostenne invece che era un criminale. Non amava l’architettura massificata: le Unités d’Habitation facevano inorridire Pontus. In realtà Le Corbusier sapeva sorprenderti. Non era un uomo simpatico. L’unica volta che lo vidi fu a Venezia e non mi fece una grande impressione. Presenziava al suo grande progetto per la realizzazione di un ospedale, che poi non si sarebbe fatto. Al di là delle polemiche, che in Italia puntualmente accompagnano ogni cosa, fu la sua morte, che avvenne nel 1965 per una crisi cardiaca, a decretarne la fine».
Ha mai paura di non portare a termine qualcosa?
«È una delle mie ansie più forti. Ed è la ragione per non impegnarsi in cose di cui sai che non vedrai la fine. Ho allestito spazi per mostre, collaborando con Germano Celant; ho diretto l’immagine della Biennale a Venezia nel 1976, l’anno in cui divenni amico di Alighiero Boetti e insieme realizzammo varie cose; ho creato marchi, realizzato spazi interni che dessero un senso di accettabilità in chi vi lavorava e ho fatto copertine di libri. Il fattore tempo, la sua praticabilità, è sempre stata la misura di quei lavori».
Ma anche il fattore immagine è stato fondamentale.
«In un altro senso. Ciò che con il tempo si perde, con l’immagine lo si conserva. È un principio che la fotografia conosce e applica perfettamente».
So dei suoi rapporti con Ghirri e Basilico.
«Conobbi Luigi Ghirri nel 1976, sempre in quella famosa Biennale di Venezia. Mi colpì il suo modo innocente di affrontare con le sue foto una riflessione teorica sull’ambiguità della percezione dell’immagine. Era umanamente straordinario e diventammo amici. Fotografò dei miei allestimenti che, nonostante fossero lavori su commissione, conservano ancora una notevole e originale magia. Quanto a Gabriele Basilico, più giovane di me di qualche anno, mi ha guidato nella mia passione per la fotografia. Pendevo dalle sue labbra, per le sue amichevoli lezioni sulla precisione, la semplicità, i procedimenti, tra il fare pratico e il fare concettuale. Tra abilità e profondità della riflessione. Con lui ho lavorato per il progetto dell’immagine coordinata di Unifor e per il disegno di alcuni suoi libri».
A proposito di libri, lei non ne ha mai scritti.
«È un altro mestiere. Se ho qualcosa da dire, lo dico con gli spazi e le immagini. A volte mi stupisco del mio amico Gregotti. Lui è capace di scrive un libro l’anno. È straordinario. Diciamo che compensa la mia pigrizia».
C’è ancora un’intellettualità milanese?
«La sua funzione mi pare molto ridotta. Le frequentazioni avvengono, più che altro, in ordine all’anagrafe. Vecchietti che si incontrano, si parlano, si capiscono, forse ancora per poco. Un tempo ci si vedeva con Arbasino, quando era a Milano, Quadri, Ronconi, Gae Aulenti, Tullio Pericoli, Umberto Eco. Alcuni non ci sono più. Con altri il rito continua. Illuminismo ambrosiano. Che si va infiochendo. Quello che, solo vent’anni fa, consideravamo un orrore, oggi è la norma. E allora finisce che ci sentiamo a nostro agio solo tra di noi. Il cibo, l’ironia, le chiacchiere. E tu che farai domani? Domani è un altro giorno».
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