E' difficile credere che una persona intelligente come Ilvo Diamanti possa seriamente ritenere che quanto accade oggi sia minimamente paragonabile agli anni Settanta. E che nei confronti di Panebianco - Crociato di burro che predica guerra ogni giorno dal Corriere della sera, ma si caca in mano per quattro ragazzi educatissimi - ci sia un attentato alla libertà d'espressione.
giovedì 25 febbraio 2016
Sui Diamanti non nasce niente
E' difficile credere che una persona intelligente come Ilvo Diamanti possa seriamente ritenere che quanto accade oggi sia minimamente paragonabile agli anni Settanta. E che nei confronti di Panebianco - Crociato di burro che predica guerra ogni giorno dal Corriere della sera, ma si caca in mano per quattro ragazzi educatissimi - ci sia un attentato alla libertà d'espressione.
Questo intervento ci fa dunque capire che Diamanti oltre a essere molto intelligente è anche assai furbo.
Certo, sarebbe meglio fucilare quotidianamente questi pessimi maestri con una scarica di pernacchie, all'entrata e all'uscita dall'aula. Ma per come va lo spirito dei tempi, è più probabile che le pernacchie le prendiamo noi. [SGA].
Chiara Sarra Giornale - Gio, 25/02/2016
La contestazione in aula al professor Panebianco, all'Università di Bologna
di ILVO DIAMANTI
Vietato contestare il prof
di Norma Rangeri il manifesto 25.2.16
Un
gruppo, nemmeno tanto numeroso, di un centro sociale bolognese contesta
la lezione del professor Angelo Panebianco, intellettuale di idee
conservatrici, firma all’occhiello del Corriere della Sera. Una protesta
rumorosa perché i contestatori, come in un flash mob, fanno ascoltare
le registrazioni dei rumori di guerra al professore, il quale è convinto
che prima o poi le armi in Libia bisogna prenderle. E siccome al prof
non piace essere interrotto, abbandona l’aula.
Niente di
drammatico, dunque. E invece come una sola penna, il tribunale dei
giornali insorge e condanna — senza appello — l’oltraggioso
comportamento dei “pericolosi estremisti”. Moraleggiando sull’atto
violento, sulla lesa maestà, sul diritto inalienabile del prof a tenere
la lezione.
Ma chi esprime giudizi così tranchant su questa marginalissima vicenda, ha memoria corta.
Perché
negli anni Settanta dello scorso secolo, gli interventi rumorosi alle
lezioni dei “baroni” universitari erano prassi quotidiana, quasi un
dovere politico. Certo, a volte si trattava di interventi molto forti —
qualcuno ricorda quando ai professori Renzo De Felice e Rosario Romeo,
alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, veniva impedito più
volte di fare lezione. Succedeva anche a Economia e Commercio dove
insegnava Amintore Fanfani, e a Scienze Politiche, con Aldo Moro.
Eppure
a volte queste irruzioni erano anche occasione di discussione e di
confronto, al quale i professori più aperti non si sottraevano.
Come
Alberto Asor Rosa, con intelligente partecipazione, come Lucio
Colletti, con distacco e ironia, come il professor Guido Calogero, che
aveva un martelletto di legno con cui richiamava al silenzio gli
studenti più turbolenti e che poi regalò proprio a loro per svolgere le
assemblee con minor confusione.
Non si può negare che in quella
lunga fase di rivolta studentesca post-sessantotto lo scontro fosse
nell’ordine delle cose. E perfino una forte contestazione contro un
“barone” poteva trasformarsi in una situazione spiacevole, in alcuni
casi drammatica. Tuttavia proprio il paragone con quanto accadeva allora
dovrebbe far riflettere sugli eccessi del passato e sulla grande
differenza con l’episodio bolognese.
Forse la società di oggi,
sotto certi aspetti, è meno disposta a tollerare la trasgressione, la
critica all’ordine costituito. E di fatto la protesta verso professor
Panebianco diventa un insopportabile sfregio alla democrazia. Ma se non
si può neppure contestare una lezione all’università, la nostra
democrazia se la passa davvero maluccio. Dimenticando che chi se la
passa peggio sono quei ragazzi e quelle ragazze che frequentano
l’università, si laureano quando ce la fanno e sono fortunati se trovano
un lavoro precario.
Naturalmente se l’episodio dovesse ripetersi,
sarebbe un accanimento, non accettabile, verso Panebianco. Tuttavia ci
permettiamo di dare un suggerimento al professore: la prossima volta —
se ci sarà — chieda ai contestatori cosa vogliono, e li ascolti. Forse
sarà un vantaggio per tutti.
L’Italia verso un’altra impresa libica
di Giulio Marcon il manifesto 25.2.16
La
notizia, è noto, l’ha data il Wall Street Journal: da Sigonella droni
americani per bombardare la Libia. I parlamentari e l’opinione pubblica
lo vengono a sapere da un giornale americano e non dal nostro governo,
la cui opacità –su questa e altre vicende- è nota da tempo. Dicono che è
un accordo di un mese fa. Chissà. Come fino ad ora è stato omessa la
notizia, niente di più normale che sia stata omesso o falsificato
l’inizio di questa operazione congiunta.
E tale è. Non stiamo
facendo un favore logistico agli americani, ma stiamo partecipando con
gli americani ad un’azione di guerra. Era già successo nel 2011 sempre
in Libia (furono allora utilizzate 7 basi), ma soprattutto nel 1999 per
la guerra in Kosovo: dalle nostre basi partirono i caccia della Nato che
bombardarono la Serbia e il Kosovo. Con ipocrisia politica il nostro
governo (dalla Pinotti a Gentiloni) dice che sarà data autorizzazione
caso per caso (ma è sempre stato così, e normalmente si tratta di una
semplice notifica, come per i caccia americani che partivano da Aviano
per bombardare il Kosovo) e che l’azione dei droni avrà carattere
“difensivo”. E perché no, magari anche “umanitario”.
Siamo al ridicolo. E a ricordarlo non sono solo i pacifisti, ma anche chi di interventi militari e di guerre se ne intende.
Infatti
l’ex capo di stato maggiore dell’aeronautica Leonardo Tricarico ricorda
ieri su Il Mattino” che dire che si tratti di missioni difensive è
scontato, una foglia di fico aggiungiamo noi: “Si tratta di una
posizione ricorrente nel governo italiano… ci potrebbe essere un
mascheramento di missioni offensive dietro missioni difensive”, afferma
l’ex capo di stato maggiore. E sempre Tricarico dice che le affermazioni
della Pinotti e di Gentiloni sul fatto che non siamo in guerra
potrebbero essere “una semplice rassicurazione generica”. E scontata. In
guerra ci stiamo entrando. E come ricorda ieri Antonio Mazzeo su Il
manifesto, poiché gli americani fanno decollare da Sigonella “i
famigerati MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper, armi letali da first strike” è
abbastanza inverosimile che si tratti di azioni “difensive”.
Il
tutto in un contesto in cui la diplomazia internazionale in Libia
brancola nel buio: non riesce a far accettare dai leader e capetti
locali un accordo per la ricomposizione dell’esecutivo libico e proprio
ieri il governo di Tobruk ha rinviato di una settimana il voto sul
governo di unità nazionale. Gli appelli dell’Onu sono caduti nel vuoto e
l’accordo è diventato una farsa. La vicenda della Libia dimostra tutta
l’improntitudine dei governi italiani e della comunità internazionale
che –con le loro folli iniziative- hanno alimentato la disgregazione del
paese, la diffusione delle bande terroristiche, i disperati flussi
migratori e una grave tensione nel mediterraneo, che sembra
assolutamente ingovernabile.
E come succede di solito, quando la
politica arranca (e quando interessi geopolitici ed economici
–americani, francesi, italiani, ecc.- prendono il sopravvento) arriva la
guerra. Che diventa — per parafrasare un vecchio adagio — la
continuazione del fallimento della politica con altri mezzi. Un
fallimento che però maschera interessi nazionali e strategici e che
porterà nuove distruzioni, altre vittime innocenti, un più vasto
sconquasso geopolitico e maggiore instabilità nel Mediterraneo.
Ora,
si parla addirittura di una tripartizione della Libia, sotto il
controllo italiano, inglese e francese. Siamo al colonialismo di un
secolo fa. Il dilettantismo ed il colonialismo di ritorno del nostro
governo (e la complicità con un vacuo e sanguinoso interventismo
militare, che magari serve a giustificare qualche F35 in più) ci sta
portando verso questo triste epilogo. Invece di fare interviste e
dichiarazioni alle agenzie, Pinotti e Gentiloni vengano a riferire in
Parlamento.
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