venerdì 1 luglio 2016
Alcuni inediti di Truman Capote
Risvolto
«Ho cominciato a scrivere a otto anni. All'improvviso, senza essere
ispirato da esempi. Non avevo mai incontrato gente che scriveva; anzi,
conoscevo poche persone che leggevano.» I primi racconti di un
giovanissimo Truman Capote sono pagine che già contengono in nuce
tutta l'originalità del grande scrittore americano. Pagine in cui
Capote cerca la sua voce unica e piena di sensibilità. Un'adolescente
che vive i suoi primi drammi d'amore. Un ragazzino che incontra a
Central Park il cane dei suoi sogni. Una donna che lotta per salvare la
vita di una bambina che ha gli occhi dello stesso colore di quelli del
suo amante. Amiche che discutono su quale sia modo migliore per uccidere
i mariti. Una vedova ossessionata dalle camelie. Una ragazza mulatta
che viene espulsa da un prestigioso collegio femminile.
Questi piccoli gioielli sconosciuti erano nascosti negli archivi della
New York Public Library. E sarebbero rimasti per sempre inediti se
l'editore svizzero Peter Haag, mentre faceva ricerche sulle carte
dell'autore a New York, non vi si fosse imbattuto per caso. Si tratta
delle primissime storie immaginate da Truman Capote tra il 1935 e il
1943, nella sua adolescenza e prima giovinezza. E sono storie di crimini
e ingiustizia, povertà e disperazione, ma anche di incredibile
generosità e tenerezza, umanità ed empatia. I germogli di una genialità
che ha segnato la storia della letteratura mondiale. La raccolta,
autorizzata dal Truman Capote Literary Trust, ha subito scatenato
l'interesse della stampa mondiale mesi prima dell'uscita. Garzanti,
storico editore di Truman Capote in Italia, la pubblica nella
prestigiosa traduzione di Vincenzo Mantovani, uno dei più importanti
traduttori italiani.
I racconti giovanili dell’autore ritrovati nella New York Public Library e pubblicati in Italia da Garzanti. Tra le pagine compare già il talento di un genio della letteratura tormentato dagli eccessi
Corriere della Sera 1 lug 2016 Di Giorgio Montefoschi
Truman Capote cominciò a scrivere molto presto, quando aveva undici anni, si firmava, ovviamente, col suo vero nome, che era Truman Streckfus Persons, e viveva ancora in Alabama. Un giornaletto locale aveva riservato alcune pagine a un concorso di scrittura per bambini il cui premio sarebbe stato un cane, o forse un pony. Truman, che voleva a tutti costi quel premio, scrisse una specie di «romanzo a chiave» in cui descriveva le attività losche — che non gli erano sfuggite — di certi suoi vicini di casa. Gli pubblicarono solo la prima parte. Ma, non appena si accorsero che stava denunciando uno scandalo locale, alla seconda parte misero il veto e il sogno di possedere un cane, o un piccolo cavallo, andò in fumo. Lui, comunque, non si scoraggiò e negli anni immediatamente seguenti continuò a scrivere racconti e a inviarli alle riviste e ai periodici letterari, finché non ebbe la prima, la seconda, la terza risposta positiva. E diventò Truman Capote, uno dei massimi scrittori americani del secolo scorso — sicuramente, nella misura del racconto, il migliore.
I quattordici racconti inediti scovati negli archivi della New York Public Library, pubblicati negli Stati Uniti dalla Random House (con l’autorizzazione del Truman Capote Literary Trust), e in Italia da Garzanti col titolo Dove comincia il mondo e la splendida traduzione di Vincenzo Mantovani, appartengono a questo periodo giovanile che va dall’adolescenza alla prima età virile, e mostrano, nella loro stupefacente precocità, tutti i talenti di un genio della letteratura. I protagonisti —e i luoghi in cui si muovono: la provincia del Sud sconfinato, con le sue paludi infestate dai serpenti, i boschi tenebrosi, la spietata serenità dei cieli estivi, gli empori con le caramelle e il bourbon, le strade nel nulla — sono gli stessi dei racconti della maturità di Capote: i neri e i bianchi, i diseredati e i fuggiaschi, gli imbroglioni e gli onesti, i vecchi e i bambini. Questi ultimi sopratutto: vecchi e bambini irresistibilmente attratti gli uni dagli altri, fedeli nell’amicizia, fedeli nella memoria, custodi della prima e della finale innocenza che regala la vita, sgomenti dinnanzi ai misteri del mondo, increduli della cattiveria, fiduciosi del Bene, fragili nella felicità.
Quanto era bravo! Scriveva, usando la penna, sempre sdraiato o sul letto o sul divano, col caffè e le sigarette a portata di mano nella prima parte del pomeriggio, il tè, il Martini e altre bibite di quel tipo più avanti. La sua ossessione — ma era naturale che fosse così — era lo stile: esercitare sul materiale il controllo stilistico (che poteva essere rovinato da una virgola in luogo di un punto e virgola, una parola di tre sillabe invece di una di due), e insieme il controllo emozionale (cercare, cioè, di essere il meno possibile coinvolto nelle emozioni del racconto, il più possibile distante, freddo, duro). Per dire: secondo il suo giudizio, Henry James era l’esperto del punto e virgola; Hemingway uno scrittore di capoversi di prima classe; Virginia Woolf non aveva mai scritto una frase fatta male. Quanto al coinvolgimento, la storia di Dickens che quando scriveva si strozzava dalle risate per il suo stesso umorismo e riempiva il foglio di lacrime quando moriva uno dei suoi personaggi, lo lasciava orripilato. L’esempio contrario era, e doveva essere, Flaubert: uno che, come lui, si disperava sulla pagina, ci moriva, sapendo che l’unico trucco è il lavoro, ancora il lavoro, e poi ancora il lavoro.
L’immediato successo dei primi libri, quindi il romanzo Colazione da Tiffany dal quale sarebbe stato tratto un film, alcuni reportages di viaggio strepitosi (come quello al seguito della compagnia americana che andava in Russia a rappresentare, in pieno comunismo, Porgy and Bess), i ritratti, altrettanto strepitosi, di personaggi famosi del cinema (come Marlon Brando, scovato in Giappone: Il Duca nel suo dominio, e Marilyn Monroe) e finalmente, nel 1966, A sangue freddo, il suo libro-verità decisamente meno importante che tuttavia (come spesso succede) gli procurò il massimo della notorietà e della fama, proiettarono Capote, già assetato di mondanità, elogi, ricchezze, al centro della vita sociale e culturale sia americana che europea. Conosceva tutti. Pettegolo e divertente, veniva invitato sugli yacht più esclusivi, nelle ville più importanti, nelle nevi di Sankt Moritz, in Italia, in Marocco. Aveva abbandonato l’appartamento di Brooklyn e si era trasferito nell’indirizzo più importante di Manhattan: l’United Nations Plaza, all’angolo fra la Prima Avenue e la Quarantanovesima, vicino all’East River e alle Nazioni Unite. Ma non gli bastava, evidentemente: si drogava e beveva fino a stordirsi, e, da quell’angelo che era a ventidue anni — come lo avevano ritratto, in mezzo a delle larghe foglie, accostato a un rampicante di rose, Henri Cartier-Bresson a New Orleans e Cecil Beaton durante il suo primo viaggio in Inghilterra — si era a poco trasformato in un ometto grassoccio, gonfio, stempiato: una specie di marionetta.
Il 1966 fu anche l’anno nel quale, per celebrare l’apice del suo successo, volle dare una festa che avrebbe dovuto passare alla storia: un bal masqué, intitolato «Ballo in bianco e nero», per il quale chiese ai suoi ospiti di indossare travestimenti e acconciature soltanto di quei due colori. A mezzanotte, le maschere sarebbero cadute, e i partecipanti avrebbero potuto riconoscersi. Il luogo scelto era l’hotel Plaza. La regina della festa era Katherine Graham, capo della famiglia che possedeva sia «Newsweek» che il «Washington Post». L’elenco degli invitati comprendeva, tra gli altri, Henry Ford e gli Agnelli, Andy Warhol e Henry Fonda, la moglie del presidente Johnson (che venne insieme a dodici agenti della sicurezza) e Sargent Shriver, Frank Sinatra (che si presentò con grandi baffoni da gatto) e Candice Bergen (che esibì gigantesche orecchie da coniglio), la vedova di Gary Cooper, le figlie di Roosevelt, quelle di Truman. Per distribuire quattrocentocinquanta bottiglie di Taittinger gelato erano stati allestiti quattro bar. Il menù della cena, più deludente, comprendeva: pasticcio di pollo con patate, spaghetti alla bolognese, uova strapazzate, salsicce, pasticcini e caffè. Pioveva, quella sera, e la festa tardò a decollare, tanto è vero che Arthur Schlesinger Jr., lo storico, interrogato attorno alle undici su come andassero le cose, rispose che bisognava vedere «dopo mezzanotte». Ma poi la festa decollò e l’invitata d’onore, la proprietaria del più influente quotidiano americano, dopo aver lungamente ballato con uno dei portieri dell’UN Plaza, dichiarò di essersi divertita moltissimo.
Intanto, Capote aveva smesso di scrivere. O, per essere più precisi, aveva in mente un progetto che inseguiva, prendeva e lasciava facendo impazzire i responsabili della sua casa editrice, che doveva intitolarsi Preghiere esaudite, ed essere una sorta di Recherche newyorkese, con personaggi veri, descritti dal vivo, senza coperture. Ma, appunto, il libro era nascosto, non si capiva da quali capitoli dovesse essere composto, c’erano solo dicerie. Finché nel 1975, su «Esquire», fu pubblicato un primo capitolo che non provocò particolare chiasso, e subito dopo un capitolo intitolato La cote Basque (il nome di un ristorante molto alla moda davanti al St Regis) e lì scoppiò il pandemonio. Per la durata di un pranzo innaffiato da due bottiglie almeno di Cristal, e una quarantina di pagine esilaranti, dai Kennedy in poi ce n’era quasi per tutti. Una definitiva cattiveria annegata in un vomito di liberazione. La reazione fu che la stragrande maggioranza di quelli che frequentava e aveva frequentato fino a quel momento, quelli che si gloriavano di averlo ai loro ricevimenti e alle loro cene, gli voltarono le spalle e gli tolsero il saluto. Truman dichiarò che non gliene importava niente. Invece era solo. Le voragini della sua infanzia, e i suoi dolori, lo avevano inghiottito. E, inebetito dalla droga e dall’alcol, morì che era ancora un ragazzo.
Aveva solo sessanta anni, in fondo: povera, meravigliosa, creatura.
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