Solo pensare a quanto sia complicato tutto ciò dà l'idea di cosa significhi realmente "cambiamento" o "invertire la tendenza", al di là del consenso volatile della sfera politica postmoderna, dei conigli populisti che saltano dal cilindro, degli slogan consolatori che ci scaldano il cuore e delle illusioni di chi pensa che la produzione sia amore & decrescita [SGA].
sabato 7 febbraio 2015
Loro Tsipras e Varoufakis, noi Pigliore e l'Imbroglione Pugliese...
La
faccenda greca dovrebbe ormai aver reso chiaro alla legione di
nostalgici della lira e del sesterzio che senza la costruzione di un
percorso alternativo - ovvero senza ridefinire preventivamente e con un
certo anticipo le alleanze economiche, finanziarie, politiche e militari
- in regime di economia capitalistica sono cazzi amari. Soprattutto se i
rapporti di forza interni sono già squilibrati di loro.
Solo pensare a quanto sia complicato tutto ciò dà l'idea di cosa significhi realmente "cambiamento" o "invertire la tendenza", al di là del consenso volatile della sfera politica postmoderna, dei conigli populisti che saltano dal cilindro, degli slogan consolatori che ci scaldano il cuore e delle illusioni di chi pensa che la produzione sia amore & decrescita [SGA].
Solo pensare a quanto sia complicato tutto ciò dà l'idea di cosa significhi realmente "cambiamento" o "invertire la tendenza", al di là del consenso volatile della sfera politica postmoderna, dei conigli populisti che saltano dal cilindro, degli slogan consolatori che ci scaldano il cuore e delle illusioni di chi pensa che la produzione sia amore & decrescita [SGA].
La sfida sarà Migliore-Cozzolino Renzi prova la prima rupture
di Jacopo Iacoboni La Stampa 7.2.15
Sarà
il caso di portarsi l’elmetto. Le primarie in Campania - rinviate già
due volte, ora dovrebbero tenersi il 22 febbraio - si apprestano a
celebrare una specie di Armageddon per la tenuta del partito locale, e
una cartina di tornasole per la volontà di Matteo Renzi di cambiarlo o
no. La sfida, salvo cataclismi, sarà a questo punto tra Andrea
Cozzolino, grande signore del tesseramento, e Gennaro Migliore, la carta
neorenziana per provare a rompere i potentati del partito in Campania.
De Luca è stato appena dichiarato decaduto dalla carica di sindaco di
Salerno per via della condanna a un anno per abuso d’ufficio: presenterà
ricorso ma, sostanzialmente, solo per poter trattare meglio con Luca
Lotti il suo ritiro dalle primarie. Migliore ha un battesimo del fuoco
tremendo; ma anche Renzi, che per la prima volta sfida assetti di potere
consolidato Pd nei territori: le correnti e sottocorrenti napoletane
non pare aspettino a braccia aperte.
Per Tsipras dopo la retorica un tuffo nella realtà
Il tentativo è evitare che Atene ascolti le sirene russe di Vladimir Putin
di Vittorio Da Rold Il Sole 7.2.15
Dopo
un primo momento di simpatia che il nuovo governo greco guidato da
Alexis Tsipras aveva saputo raccogliere in Europa e nel mondo, si sta
rapidamente passando a un senso di diffidenza e crescente isolamento. Le
richieste troppo radicali, che passano da un taglio (haircut) del
debito al suo aggancio alla crescita, e le posizioni intransigenti sulla
fine dell’esperienza della troika e la richiesta di una revisione
radicale del piano di crediti, stanno ponendo in un angolo negoziale
Atene.
Siamo arrivati a una vigilia di partita all’Eurogruppo
straordinario di mercoledì con «la Grecia contro tutti gli altri 18
partner dell’Eurozona», ha detto un funzionario europeo sinceramente
preoccupato della piega che sta prendendo la trattativa.
Certo, non
sono piaciute, nelle capitali europee le affermazioni programmatiche del
nuovo governo ellenico di voler alzare il salario minimo, riassumere i
dipendenti pubblici licenziati, bloccare le privatizzazioni senza mai un
accenno concreto su dove trovare i soldi per queste politiche. Il
ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, lo ha detto chiaro al
meeting di Berlino, quando ha ricordato al ministro delle Finanze
greco, Yanis Varoufakis, che non si possono fare concessioni con i soldi
degli altri.
Atene naturalmente è libera di decidere le sue
politiche, ma mantenendo i conti in attivo, ripagando i debiti contratti
e varando le riforme promesse.
Dopo gli annunci ideologici per
Tispras è giunto il tempo del pragmatismo. Il suo governo viaggia su uno
stretto sentiero parlamentare: da un lato deve cercare di ottenere
qualche concessione dai creditori internazionali rispetto al precedente
Memorandum, sul fronte interno deve dare il segnale agli strati più
sofferenti della popolazione che l’austerità è stata mitigata. Se non
riesce in questa acrobazia il suo destino politico è segnato e le
prossime manifestazioni di piazza, magari guidate dall’ultra destra di
Alba dorata non saranno pacifiche.
Non a caso ieri l’ambasciatore Usa
ad Atene, David Pearce, ha invitato Syriza alla «collaborazione con i
colleghi europei e l’Fmi». Washington, dopo le parole di sostegno al
governo greco dette dal presidente americano Barack Obama, secondo cui
«le nazioni non possono essere spremute come limoni nel mezzo di una
depressione», ha spedito ad Atene il vicesegretario aggiunto al Tesoro
Usa responsabile degli Affari europei, Daleep Singh, ex banchiere per i
mercati emergenti di Goldman Sachs.
Il tentativo è evitare che Atene ascolti le sirene russe di Vladimir Putin.
Se Pechino si tira fuori dal dossier su Atene
di Mara Monti Il Sole 7.2.15
«La
Cina non è interessata a mettere in discussione le relazioni con
l’Europa per correre in aiuto della Grecia, un Paese poco interessante
dal punto di vista delle risorse naturali e degli investimenti privati».
Richard Miratsky, senior director di Dagon Europe analista dell'agenzia
di rating cinese ed esperto di investimenti strategici non è
meravigliato per quanto sta succedendo in Europa sulla Grecia: «Il peso
di Atene in Europa non è particolarmente incisivo, il settore
industriale è poco vocato alle esportazioni e quello tecnologico è poco
sviluppato. Il nuovo governo sta giocando le sue carte, ma l'unica
possibilità per uscire dalla crisi è risolvere i problemi in seno
all'Europa e alla Troika». Nei giorni scorsi si era parlato di un
intervento di Mosca in soccorso di Atene, sui cui si erano inserite le
parole del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a sostegno di una
risoluzione di compromesso, affermazioni che in molti hanno letto come
motivate dal rischio di non lasciare Atene tra le braccia di Mosca.
Un'ipotesi smentita dallo stesso ministro delle finanze greco Yannis
Varoufakis: «Noi non chiederemo mai assistenza finanziaria a Mosca».
Miratsky ieri al convegno Assiom Forex, dà un’altra spiegazione: «In
questo momento un intervento di Mosca è improbabile: mentre la Cina che
non ha investimenti diretti in Grecia, avrebbe i soldi per intervenire,
ma non lo farà, la Russia anche se lo volesse non è in una posizione
finanziaria per farlo. Quindi solo l’Europa può aiutare la Grecia».
Un
aiuto della Cina ad altri paesi in gravi situazioni finanziarie non
sarebbe una novità. È successo per l'Argentina dopo il secondo default
della scorsa estate e per il Venezuela a un passo dalla bancarotta a
causa delle ripercussioni del crollo del prezzo del petrolio: «In tutti
questi casi il contesto era completamente diverso sia dal punto di vista
geografico sia per l’interesse della Cina alle risorse naturali di
questi Paesi», aggiunge Miratsky. Il ruolo della Cina non è stato
irrilevante neppure durante la crisi del debito sovrano europeo del
2010: «In quel caso si voleva evitare un breack up dell'euro e Pechino
intervenne acquistando titoli governativi dei paesi europei in crisi,
anche dell’Italia. Nel caso della Grecia, invece, un’eventuale uscita
dall’euro, ipotesi che ritengo improbabile, non avrebbe un grande
impatto e comunque non metterebbe a rischio la moneta unica europea. Sia
chiaro, l’Italia non è la Grecia –aggiunge l'analista - un eventuale
piano di ristrutturazione del governo di Atene non è detto che funzioni,
quindi ci sarebbe un'alta probabilità di perdere quanto investito».
Oggi la Cina è il terzo investitore al mondo dopo gli Stati Uniti e il
Giappone con 108 miliardi di dollari investiti nel 2013 al ritmo di
crescita del 23% l'anno e un interesse oggi concentrato sui settori
tecnologici: una virata rispetto al passato quando le risorse naturali
erano in cima all'agenda.
Non ripetiamo altri gravi errori. Adesso conviene salvare la Grecia
di Lucrezia Reichlin Corriere 7.2.15
Non
c’è più molto tempo per salvare la Grecia: forse meno di una settimana.
Se una soluzione non sarà trovata alla prossima riunione
dell’Eurogruppo, Atene si ritroverà nel giro di pochi giorni a non poter
ripagare il suo debito a scadenza. La posta in gioco è politica e
economica. Ed è su entrambi i fronti che non bisognerà sottovalutare i
rischi per l’Unione europea di una possibile uscita della Grecia
dall’euro.
Le ragioni per lavorare e trovare un compromesso con il
nuovo governo ellenico sono sia etiche sia pragmatiche. Per capirlo
bisogna ripercorrere la storia recente.
Come conseguenza di una
politica di bilancio irresponsabile del suo governo e dello shock
globale del 2008, la Grecia è di fatto fallita nel 2010. All’epoca,
l’Europa per la prima volta si trovò ad affrontare la crisi di un Paese
dell’unione monetaria e decise di impedire la ristrutturazione del
debito di Atene. La scelta, probabilmente giustificata, era dettata dal
timore di contagio ad altri Paesi. Si perdettero due anni, costati molto
cari ai greci — 10 punti percentuali di prodotto interno lordo, secondo
le stime dell’economista francese Thomas Philippon. Nel 2012 si finì
per cedere all’evidenza e si trattò una delle piu colossali
ristrutturazioni di debito sovrano della storia: si trasferì gran parte
dei costi dai creditori privati ai cittadini europei e la si accompagnò a
un draconiano programma di austerità e riforme della Grecia monitorato
dalla troika (Fondo monetario, Banca centrale europea e Unione europea).
Da
allora la Grecia ha perso il 25% del Pil e l’occupazione è caduta del
18%, eppure Atene resta schiacciata da un rapporto debito-Pil che
veleggia verso il 180%. La cosiddetta deflazione interna, necessaria per
l’aggiustamento, c’e’ stata, ma le riforme, in particolare quella del
Fisco, non si sono viste. La Grecia è di nuovo di fatto fallita.
Ora
un nuovo governo propone di ripensare la strategia. La richiesta, se si
guarda oltre i messaggi a volte infantili, a volte irrealistici, spesso
solo provocatori degli uomini di Tsipras, non è del tutto irragionevole.
Per due ragioni. La prima morale. La Grecia sta pagando costi extra per
non aver potuto ristrutturare nel 2010, strada che avrebbe comportato
conseguenze minori per l’economia, come insegna l’esperienza di molti
Paesi emergenti. È giusto che quel costo, benché sia una frazione di ciò
che i greci dovranno pagare per ritrovare la sostenibilità, sia
sostenuto da tutti i membri dell’Unione.
La seconda è economica. La
combinazione di riforme e austerità in un Paese con istituzioni fragili e
una classe politica discreditata e corrotta non può dare risultati: la
vittoria di Syriza lo testimonia. Per questo, ora, la ricerca di un
compromesso realistico tra creditori e debitori appare meno onerosa del
pugno di ferro. Il pragmatismo deve imporsi sulla volontà di punizione.
Tuttavia,
un accordo tra Grecia e Paesi creditori — mi riferisco agli altri
partner dell’area euro — deve essere basato su principi generali, senza i
quali l’Unione non può funzionare.
Il governo di Atene non vuole un
nuovo programma monitorato dalla troika. Chiede di costruire con i
membri dell’eurozona un piano di riforme capace di aggredire le cause
del fallimento dei precedenti esecutivi, in particolare su evasione
fiscale e riforma del sistema contributivo. In sostanza un contratto che
imponga obiettivi quantificabili e monitorabili, lasciando ad Atene la
sovranità sulla via per raggiungerli. Per arrivare a formulare questo
programma il nuovo governo greco chiede tre mesi e un finanziamento
ponte che tenga il Paese in vita fino al raggiungimento dell’accordo. La
Bce ha comprensibilmente detto di non poter fornire questo
finanziamento. Rimanda la palla ai governi: ed è giusto, perché questa
decisione coinvolge i contribuenti dei Paesi dell’Unione, quindi i loro
rappresentanti politici. La scelta non è neanche della Germania, anche
se il punto di vista del maggiore creditore di Atene resta determinante.
L’iniziativa
del negoziato deve essere presa dall’Eurogruppo. Solo in quella sede si
capirà se tra le prime, irrealistiche richieste di Atene e la durezza
della posizione che pare emergere dai primi incontri di questa
settimana, ci sia uno spazio per un accordo. Il percorso è difficile.
Parte del programma di Tsipras (la riassunzione dei dipendenti statali
per esempio) è inaccettabile. Ma è difficile anche per la spirale
politica che comporta: ogni vittoria del nuovo governo di Atene si
risolve, infatti, in un aiuto ai partiti anti-austerità oggi
all’opposizione nel resto d’Europa.
Ma cosa succederebbe se la strada
del negoziato non fosse battuta con convinzione e non si raggiungesse
un accordo? Non ho dubbi: sarebbe una sconfitta politica ed economica
per l’Europa. Come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times , la
nostra Unione non è un impero ma un insieme di democrazie; per non
fallirne il test fondamentale si deve trattare. Il percorso seguito
finora non ha funzionato e ci sono ampi margini per un compromesso.
Ma
c’è anche una ragione economica. Per i cittadini dell’Unione il costo
di un’uscita della Grecia è piu alto di quello di un allentamento delle
condizioni di rimborso del debito. Se Atene tornasse alla dracma,
diventeremmo di nuovo un insieme di Paesi legati da un sistema di tassi
di cambio fissi da cui un Paese può uscire in ogni momento. Tornerebbe
anche per l’Italia quel cosiddetto «rischio di convertibilità» da cui
Draghi ci mise al riparo nel 2012 con l’affermazione che l’euro sarebbe
stato difeso ad ogni costo. Se la Grecia uscisse dalla moneta unica,
infatti, perché escludere analogo destino per un altro Paese? La
Commissione ha appena ricordato che la ripresa è fragile e la Grecia non
è certo l’unico Paese potenzialmente a rischio. L’esperienza degli Anni
90 ci insegna che i sistemi a cambi fissi sono instabili, tanto da aver
determinato l’esigenza della moneta unica. Tornare indietro sarebbe un
errore che pagheremmo molto caro.
La partita greca I ritardi che l’Europa non può più permettersi
di Alberto Quadrio Curzio Il Sole 7.2.15
L’Eurozona
si trova nuovamente di fronte al caso greco da cui partì agli inizi del
2010 la crisi dei titoli sovrani dei Paesi periferici della Uem.
L’Eurozona è adesso però molto più forte nel controllo delle crisi
finanziarie e bancarie ma deve con urgenza rafforzare l’economia reale.
La strategia del rigore fiscale di ispirazione germanica e quella dei
salvataggi di debiti sovrani non vedranno questa volta ulteriori
interventi integrativi o correttivi (o salvifici) della Bce di Draghi
che ha da poco varato il Qe. Francoforte ha, infatti, deciso di bloccare
l’erogazione di liquidità alle banche greche se entro la scadenza da
tempo fissata al 28 febbraio la Grecia non troverà un accordo con la
troika (Fmi, Bce, Commissione europea) che vigila sulla gestione e il
rimborso dei prestiti e sulle riforme strutturali. La troika ha chiesto
da tempo alla Grecia ulteriori riforme strutturali già contestate dal
governo Samaras mentre il nuovo governo greco ha addirittura minacciato
di ripudiare la vigilanza della troika e ha ipotizzato dei
“Varoufakis-bond” per la ristrutturazione, il consolidamento e
l’indicizzazione del debito greco.
Cruciali saranno perciò le quattro
riunioni dell’Eurogruppo, dell’Ecofin e del Consiglio europeo che si
terranno nei prossimi 15 giorni ma che non crediamo daranno scorciatoie
alla Grecia salvo qualche attenuazione nel riaggiustamento. Lo si è
capito dalla cautela dei governi in seguito al tour europeo del duo
Tsipras-Varoufakis e lo ha chiarito anche un recente stringato
comunicato del presidente del Consiglio Renzi che ha enfatizzato la
necessità di decisioni condivise, del rispetto dei patti, del rilancio
della crescita. Questa per noi è la strada maestra per superare la crisi
greca.
Eurozona: progressi e carenze. Non vanno però scardinati i
progressi fatti nell’Eurozona durante la crisi, anche perché quei costi
li abbiamo già pagati. Da sempre sosteniamo che puntare solo sul rigore
fiscale era sbagliato ma che molti Paesi dovevano fare le riforme
strutturali richieste dalle istituzioni europee (sia pure dentro un
complesso sistema di adempimenti: two pack, six pack, semestre europeo
eccetera).
Riforme straordinarie addizionali sono state chieste a
Grecia, Irlanda, Portogallo e, in minor misura, Spagna («Gips») in
quanto Paesi fruitori di grandi prestiti anche dai Fondi Europei Efsf e
Esm. La Bce ha esercitato, a sua volta, un ruolo cruciale per
contrastare l’aggressività dei mercati sui titoli di stato “periferici” e
per garantire la liquidità introducendo una serie di innovazioni che
l’hanno molto avvicinata alla Fed. Ha inoltre contribuito in modo
determinante al varo della Unione bancaria. Queste sono state
innovazioni importanti ma due carenze sono state gravi e da superare.
La
prima sono le difficoltà e le lentezze decisionali della Uem dentro la
Ue. Per superale bisogna accelerare l’attuazione del progetto “Verso
un’autentica Unione economica e monetaria” (elaborato dei quattro
presidenti di Istituzioni europee ) e dare all’Eurozona una capacità di
Governo molto maggiore. Vanno anche riviste le condizioni per l’accesso
alla stessa perché non si ripetano casi greci.
La seconda, che
dipende in parte dalla prima, è la mancanza di una vera politica per
investimenti che sostenessero crescita e occupazione ma anche
innovazione e competitività. Gli stessi potevano essere promossi o
autorizzando l’applicazione della “regola aurea” dello scorporo delle
spese per investimenti dai vincoli di bilancio dei singoli stati e/o
varando gli “eurobond” o gli “eurounionbond” (magari con garanzie reali
come proposto da Prodi e Quadrio Curzio nel 2011) che non hanno nulla a
che fare con i Varoufakis-bond.
Su queste linee di intervento
qualcosa si sta adesso muovendo sia con la Comunicazione della
Commissione europea del gennaio che evidenzia flessibilità
nell’applicazione del patto di stabilità e crescita sia con il piano
Juncker per gli investimenti sia con il Qe di Draghi per quel 20% di
rischio solidale sui titoli dei debiti pubblici degli euro-stati. Qui
che bisogna insistere per puntare sulla crescita. Gli interventi per i
G.I.P.S. Bisogna anche evitare di considerare la Grecia come un caso
unico. Il che non sarebbe equo verso altri Paesi. Infatti anche Irlanda e
Portogallo sono stati assistiti e finanziati dal Fmi, dalla Bce e dai
Fondi europei (Efsf e Esm) e quindi assoggettati a riforme strutturali
straordinarie e a programmi di rientro dai prestiti sotto il controllo
dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea). La Spagna ha invece fruito
solo del sostegno finanziario e del controllo europeo per
ristrutturazione delle banche. L’Irlanda è entrata nel programma nel
novembre 2010 e l’ha concluso nel dicembre 2013. Nel 2014 è cresciuta
del 4,8% (con un previsionale 2015 al 3,6%) con una disoccupazione
all’11,1% prevista in calo. Il Portogallo è entrato nel maggio 2011 e
l’ha concluso nel maggio 2014. Nel 2014 è cresciuto dell’1% (con un
previsionale 2015 all’1,6%) con una disoccupazione del 14,2% prevista in
calo. La Spagna è entrata in un programma dello Esm nel luglio 2012 e
l’ha concluso nel dicembre 2013. Nel 2014 è cresciuta dell’1,4% (con un
previsionale 2015 al 2,3%) e con una disoccupazione al 24,3% in calo.
La
Grecia è entrata nel programma di assistenza finanziaria della troika
nel maggio del 2010 e ha avuto varie tornate di aggiustamento del
programma che tuttavia è ben lungi dal concludersi. Nella crisi la
Grecia ha perso il 25% del suo Pil e quindi non bastano crescite all’1%
(quella del 2014) e del 2,5% (prevista nel 2015) per recuperare il
crollo. La Grecia, oltre a proseguire con le riforme strutturali per la
crescita, dovrebbe perciò essere sostenuta con un programma di
investimenti infrastrutturali finanziati e governati in regime
commissariale dalle istituzioni europee. Di questo dovrebbe interessarsi
il Governo greco senza esibizioni “sovraniste” in politica estera e
senza revoche di privatizzazioni che sono invece importanti per portare
investimenti esteri.
Una conclusione. Il ministro dell’Economia
italiano, Pier Carlo Padoan, nel recente incontro con il ministro greco
Yanis Varoufakis, ha detto che le riforme strutturali in Grecia devono
puntare a una crescita forte per creare occupazione, ridurre l’emergenza
sociale, garantire la sostenibilità del debito greco. Ha anche
ricordato che spetta all’Eurogruppo e all’Ecofin trovare, con
solidarietà e responsabilità, le soluzioni comuni. È una posizione
saggia e leale.
Tsipras, come prima più di prima
Pavlos Nerantzis, il Manifesto SALONICCO, 6.2.2015
La Grecia, come accade raramente nella storia di ogni paese, sta passando momenti unici di unità e lotta contro chi — nel resto dell’ Europa e sopratutto Berlino — crede si possa andare contro la volontà popolare, insistendo sull’applicazione di un piano di risanamento suicida. La Grecia propone al resto del vecchio continente di ritornare padrona del proprio destino.
Lo slogan «non ci facciamo ricattare. Non cediamo. Non abbiamo paura. Non arretriamo. Vinciamo» sentito durante la manifestazione, organizzata giovedi scorso a tempo di record sui social network mentre dalle capitali e dalle istituzioni europee arrivavano notizie di «chiusura» nei confronti delle richieste del governo di Tsipras, rispecchia in questo momento i sentimenti della maggioranza dei greci: rabbia per la mancanza di solidarietà da parte dei partner europei, determinazione per quanto potrebbe accadere. «Andremo fino in fondo» dice lo stesso ripete Tsipras, sottolineando che «la democrazia ha parlato e nessuno ha il diritto di non ascoltare». Che non si tratti di una mossa suicida, odi una testardaggine collettiva, quanto piuttosto di un atteggiamento consapevole dovuto alle conseguenze catastrofiche del programma «lacrime e sangue» degli ultimi anni, lo si capisce parlando con i greci.
Rabbia, determinazione e non solo, perché l’ eurozona dominata da Berlino ha escluso la possibilità di affrontare la questione del debito pubblico, che non riguarda soltanto la Grecia, senza tener conto dell’ esito elettorale e del fatto che la ricetta applicata dalla troika (Fmi, Ue, Bce) non ha avuto un risultato positivo. I greci si rendono ormai conto che a Bruxelles e a Berlino al di là delle belle parole, i politici non si interessano all’impoverimento di centinaia di migliaia di famiglie greche, né della disoccupazione, della fame, del crollo del sistema sanitario, i suicidi e nemmeno per il fatto che il terzo partito al parlamento sia Chrysi Avghi (Alba Dorata), un partito nazista cresciuto a causa della crisi. Per i dirigenti Ue — dicono i greci– contano i numeri. Ma anche quelli non vanno bene, visto che il debito aumenta e la recessione continua, nonostante le promesse.
Il fatto che Berlino e i suoi stretti alleati in eurozona in un modo sempre più cinico rifiutino anche l’eventualità di discutere un accordo-ponte proposto da Atene, togliendo in pratica al neo governo greco il tempo necessario per organizzare e trattare in seguito il suo piano di risanamento e di riforme, dimostra il panico e l’ obiettivo reale di Ankela Merkel: piegare la Grecia e Alexis Tsipras perché costituiscono un pericolo reale per il neoliberismo «merkeliano» e la germanizzazione dell’ Europa. Il governo di Alexis Tsipras a pochi giorni dalla riunione straordinaria dell’ Eurogruppo e del vertice Ue a livello ufficiale rimane senza alleati, nonostante la solidarietà espressa da un sempre maggior numero di intellettuali e sindacalisti da tutto il mondo– ma raccoglie oltre il 70% del sostegno dell’elettorato e un numero sempre maggiore di parlamentari che si schierano a favore delle richieste del premier greco.
Deputati conservatori, lasciando a parte la linea ufficiale del leader di Nea Dimokratia, Antonis Samaras, sempre più isolato, hanno espresso il loro sostegno alle mosse del premier, mentre ieri il candidato presidente del parlamento, Zoe Constantopoulou, è stata eletta raccogliendo 235 su 298 voti, un numero record per la storia parlamentare del paese. A suo favore hanno votato i 149 parlamentari di Syriza, i 76 di Nea Dimokratia, i 17 di To Potami, i 13 di Greci indipendenti e i 13 del Pasok. Astenuti e contrari sono stati i voti dei comunisti del Kke e dei nazisti di Alba Dorata. Constantopoulou, parlamentare di Syriza, avvocato per i diritti umani e avversaria della corruzione, è il più giovane — è nata nel 1976– presidente del parlamento ellenico e la seconda donna che assume tale carica dello Stato. Ieri c’é stata una riunione di Alexis Tsipras con lo staff dei ministri addetti alla preparazione del piano di risanamento, che sarà presentato nel summit del 16 febbraio, mentre il premier greco si è incontrato con l’ ambasciatore americano ad Atene e il sottosegretario delle finanze statunitense.
Nel gioco è entrato anche Vladimir Putin che ha invitato Alexis Tsipras a visitare Mosca il 9 maggio per discutere dei rapporti con l’ Ue e la questione dei gasdotti verso la Grecia. L’obiettivo di Atene — che sarà espresso nella riunione straordinaria dell’ Eurogruppo — rimane sempre la rinegoziazione di un programma economico che garantisca la crescita senza l’austerity e l’ulteriore indebitamento del Paese a scapito sia dei greci sia dei partner europei.
«Abbiamo un impegno con le regole dell’ Ue, ma l’ austerity e gli irraggiungibili avanzi primari non costituiscono le regole istitutive dell’Ue» ha affermato ieri il premier greco. «Dai nostri partner, però — ha aggiunto — pretendiamo che rispettino la democrazia e la volontà popolare in Grecia e, soprattutto, la decisione del popolo greco di fermare il proseguimento dell’errore in questo Paese». Domani, intanto, comincia il dibattito parlamentare sulle dichiarazioni programmatiche del governo che si cocluderà a mezzanotte di martedì con il voto di fiducia al nuovo esecutivo. Per il giorno dopo, 11 febbraio, mentre a Bruxelles l’Eurogruppo discuterà il caso greco, ad Atene, Salonicco e in altre città saranno organizzati dei raduni di sostegno al governo greco. Platia Syntagmatos ad Atene, la piazza di fronte alla Torre bianca a Salonicco, le piazze centrali a Patrasso, Chania, Volos, si riempiranno di migliaia di persone per ripetere la loro solidarietà al dream-team di Tsipras.
Troika, un colpo di stato in bianco
Alfonso Gianni, 6.2.2015
Se si nutriva ancora qualche dubbio che l’Europa fosse più vittima delle proprie politiche che della crisi, gli accadimenti degli ultimi giorni hanno tolto ogni dubbio. I mercati avevano assorbito quasi con nonchalance il cambio di governo in Grecia; la Borsa di Atene aveva oscillato, ma riuscendo sempre a riprendersi, fino a raggiungere rialzi da record; il terrorismo psicologico che aveva provocato un forte deflusso di capitali prima delle elezioni sembrava un’arma spuntata.
Ma appena si è arrivati al dunque è scattato il ricatto della Bce. Eppure le richieste del nuovo governo greco erano più che ragionevoli. Né Tsipras né Varoufakis chiedevano un taglio netto del debito, ma solamente modalità e tempi diversi per pagarlo senza continuare a distruggere l’economia e la società greca, come avevano fatto i loro predecessori. Dichiarazioni e documenti di economisti a livello mondiale, compresi diversi premi Nobel, si rincorrono per dimostrare che le soluzioni proposte dal governo greco sono perfettamente applicabili, anzi le uniche efficaci se si vuole salvare l’Europa, che sarebbe trascinata nella voragine di un contagio dai confini imprevedibili se la Grecia dovesse fallire e uscire dall’euro. Perfino il pensiero mainstream – Financial Times in testa — si dimostrava più che possibilista.
Può darsi, come anche Varoufakis ha osservato, che la mossa di Draghi serva per evidenziare che la soluzione è politica e non tecnico-economica. Quindi ha buttato la palla nel campo dell’imminente Eurogruppo che si riunirà l’11 febbraio. Il guaio è che la politica europea attuale è ancora peggio della ragione economica. Basti leggere le dichiarazioni di un Renzi, sdraiato sul comunicato della Bce, o quelle di uno Schulz o di un Gabriel.
Non è la prima volta, d’altro canto, che la socialdemocrazia tedesca vota i «crediti di guerra». L’analogia non è troppo esagerata. Che spiegazione trovare per un simile accanimento contro un paese il cui Pil non supera il 2% e il cui debito il 3% di quelli complessivi dell’eurozona?
La ragione è duplice.
Se passa la soluzione greca appare chiaro che non esiste un’unica strada per abbattere il debito. Anzi ce n’è una alternativa concretamente praticabile rispetto a quella del fiscal compact. Più efficace e assai meno devastante. Tale da puntare su un nuovo tipo di sviluppo che valorizzi il lavoro, l’ambiente e la società, come appare dal programma di Salonicco su cui Syriza ha costruito e vinto la sua campagna elettorale. Sarebbe una sconfitta storica per il neoliberismo europeo.
Il secondo motivo riguarda gli assetti politico istituzionali della Ue. Sappiamo che i greci hanno giustamente rifiutato l’intervento della Troika. Ma è pur vero che perfino Juncker ha dichiarato che quest’ultima ha fatto il suo tempo. C’è allora qualcosa di più importante in gioco che la sopravvivenza di questo o quell’organismo. Finora la Ue attraverso gli strumenti della sua governance a-democratica aveva messo il naso nelle politiche interne di ogni paese, in qualche caso dettandone per filo e per segno le scelte da fare. Così è accaduto nel caso italiano con la famosa lettera della Bce del 5 agosto del 2011. Dove non era arrivato Berlusconi avevano provveduto Monti e ora Renzi a finire i compiti a casa. Ma si trattava pur sempre di un intervento su governi amici, che si fondavano su maggioranze che avevano esplicitato la loro preventiva sottomissione alla Troika. In Grecia siamo di fronte al tentativo di impedire che la volontà popolare espressasi nelle elezioni in modo abbondante e inequivocabile possa trovare implementazione perché contraria alle attuali scelte della Ue. Qualcosa che si avvicina a un colpo di stato in bianco (per ora). I neonazisti di Alba Dorata avevano dichiarato che Syriza avrebbe fallito e dopo sarebbe toccato a loro governare.
E’ questo che le mediocri classi dirigenti europee vogliono? Non sarebbe la prima volta.
Impediamoglielo.
Non solo con gli strumenti propri delle sedi parlamentari per influire sul vertice dei capi di stato, ma soprattutto riempiendo le piazze, come succede ora in Grecia e come vogliamo accada anche in Italia e nel resto d’Europa il prossimo 14 febbraio. Un San Valentino di passione con il popolo greco.
Scelta Civica, il congresso del partito che non c’è più
Otto esponenti vanno nel Pd Ichino: “Manca lo spazio al centro”
di Fabio Martini La Stampa 7.2.15
C’era
una volta un professore di nome Mario Monti, la sua repentina ascesa al
governo d’Italia aveva riempito di iperboli i newsmagazine di tutto il
mondo e un giorno «Time» arrivò a scrivere in copertina: «Può quest’uomo
salvare l’Europa?». Da allora sono trascorsi tre anni esatti e domani,
in una saletta convegni del centro di Roma, si svolgerà il primo (e
forse anche l’ultimo) congresso di Scelta civica, il partito a suo tempo
fondato da Monti, ma da lui stesso «rimosso» dal proprio orizzonte, per
effetto di una dichiarazione indimenticabile. A Lilli Gruber che gli
chiedeva come avrebbe votato alle Europee, Monti rispose: il voto è
segreto. Il congresso che eleggerà segretario Enrico Zanetti,
quarantatreenne grintoso sottosegretario in conflitto permanente sia con
Renzi che con Padoan, completa una parabola tra le più originali nella
storia politica del dopoguerra: nel giro di una ventina di mesi il
partito fondato da Monti ha dissipato un patrimonio elettorale e
parlamentare cospicuo: i 2 milioni e ottocentomila voti ottenuti alle
Politiche 2013 erano il doppio di quelli conseguiti dalla Lega e
rappresentavano una percentuale con la quale alcuni partiti (Psi, An,
per non parlare dei Radicali) hanno condizionato la politica italiana
per decenni.
Oltretutto, poche ore prima del congresso, si è
consumata la beffa di otto parlamentati che hanno abbandonato la zattera
di Scelta Civica, per approdare nel Pd. Nomi che in qualche modo
riflettono la qualità - superiore alla media in termini di competenza
specifica - dei gruppi parlamentari di Sc. Oltre a Gianluca Susta,
Alessandro Malan, Linda Lanzillotta, il sottosegretario Ilaria Borletti
Buitoni, l’economista Irene Tinagli, il viceministro dello Sviluppo
economico, Carlo Calenda, Stefania Giannini, che diventò ministro (come
Mario Mauro, dieci mesi prima) dopo aver trattato per conto del suo
partito le poltrone governative e Pietro Ichino, che argomenta così le
ragioni politiche dell’addio, che per lui è anche un ritorno: «Si
possono avere le migliori idee del mondo ma poi occorre avere capacità
politica per farle diventare realtà. Oggi c’è un leader capace di farlo,
il presidente del Consiglio, che tra l’altro ha anche accolto i miei
progetti sul mercato del lavoro. D’altra parte stiamo approvando in
Parlamento una riforma elettorale che favorirà un sistema bipolare, con
una contesa politica al centro. Scelta civica aveva spazio quando la
dialettica era tra l’asse Bersani-Vendola e quello Berlusconi-Maroni.
Quello spazio non c’è più ed è bene che sia così».
Un’analisi
politologica con una sua logica, anche se la tempistica irrispettosa del
congresso consente ai «lealisti» di controbattere: «Per avviare un
percorso politico comune» con il Pd «sarebbe stato più normale un
confronto tra partiti che non trasferimenti individuali», dice il
presidente dei deputati Andrea Mazziotti. E pur disertando il congresso.
Monti rivendica «orgoglio per un’esperienza politica che ha consentito
all’Italia e di non essere diventata, con rispetto parlando, una Magna
Grecia».
Il premier si cautela dalle richieste della sinistra Pd
di Marcello Sorgi La Stampa 7.2.15
Battezzata
da Matteo Renzi, l’operazione “responsabili” che ha portato nelle file
del Pd otto parlamentari di Scelta civica, procede e promette nuove
sorprese. L’ingresso a tutti gli effetti nella maggioranza dei senatori
del Gal, il gruppo per le autonomie, oltre a mettere in sicurezza il
governo al Senato, potrebbe segnare una tendenza verso nuove adesioni,
singole o collettive. Sebbene finora il grosso degli spostamenti sia
avvenuto in un’area che già sosteneva l’esecutivo, la possibilità di
allargarla a personaggi come l’ex-ministro della Difesa Mauro, dà l’idea
della portata della manovra. Mauro infatti qualche mese fa fu
sostituito in commissione perchè dal suo voto (contrario) dipendeva il
cammino delle riforme.
Ma non si tratta solo di mettere in campo
forze destinate a sostituire i senatori di Forza Italia, dopo la svolta
del partito dell’ex-Cavaliere che ha portato all’annuncio della rottura
del patto del Nazareno. Il premier punta a cautelarsi dalle richieste
della sinistra Pd di rimettere in discussione la riforma del Senato e la
legge elettorale, in nome dell’unità ritrovata sull’elezione di
Mattarella. Il metodo del confronto non può essere praticato e dismesso
secondo le convenienze, obietta la minoranza Democrat. E Bersani
polemicamente si chiede cosa abbiano ottenuto in cambio i transfughi.
Renzi
ieri è tornato a rivolgersi a Berlusconi, avvertendolo che il governo
ha i numeri per portare a termine le riforme. Un discorso fatto a
suocera (il leader del centrodestra) perché anche nuora (la minoranza
Pd) intenda. Il premier infatti non ha alcuna intenzione di rimettere
mano al testo dell’Italicum, che dopo la lunga battaglia al Senato
potrebbe essere approvato definitivamente alla Camera se solo fosse
votato senza emendarlo, o a quello della riforma del Senato, sul quale
si riprende a votare martedì. Sarà un test interessante, se si considera
che, pur disponendo a Montecitorio di una maggioranza larga e autonoma,
nel precedente passaggio alcuni emendamenti vennero respinti con solo
una ventina di voti e con l’aiuto di Forza Italia, che compensava il
largo ricorso ai franchi tiratori degli oppositori Democrat.
Da
Berlusconi per ora non arriva nessun segnale di marcia indietro.
L’ex-Cavaliere non ha gradito l’emendamento in materia di tv che
comporta un aggravio per le casse di Rai e Mediaset, la nuova
formulazione del falso in bilancio e il monito di Renzi sul 20 febbraio,
data in cui il governo dovrebbe riformulare il decreto fiscale rinviato
dopo le polemiche sulla cosiddetta norma “salva-Silvio”. Ma che
succederebbe se, malgrado l’Aventino ordinato da Berlusconi, Denis
Verdini, l’interlocutore di Renzi dentro Forza Italia, decidesse di
staccarsi con un gruppo di parlamentari in difesa del patto del
Nazareno?
Gli arrivi centristi allarmano la sinistra Bersani: non siamo una porta girevole
Da 293 a 309. All’inizio della legislatura i deputati del Pd erano 293. Ora con ex Sel e ex Sc sono 309 Da 108 a 113. Anche i senatori sono aumentati, passando da 108 a 113 dall’inizio della legislatura
di Giovanna Casadio Repubblica 7.2.15
ROMA
Nichi Vendola, e Lorenzo Guerini, il vice segretario del Pd. Era giugno
e i deputati dem erano 293, oggi sono balzati a 310. Al Senato sono
saliti a 113 dagli originari 108. Più non quantificabili spostamenti nei
territori. Insomma un Pd “acchiappatutto”, da Sel a Scelta civica
passando per adesioni in ordine sparso. Il partito che vuole Renzi:
allargato e rafforzato, il Partito della nazione, interclassista e a
vocazione maggioritaria. Fumo negli occhi per la sinistra dem, che da
ieri, dopo l’approdo dei montiani (senza Monti) agita il vecchio pomo
della discordia: l’Agenda Monti appunto, lo spauracchio delle politiche
di rigore, dalla riforma delle pensioni di Elsa Fornero alla Troika Ue. E
perciò «addio sinistra», per dirla con Stefano Fassina.
Peggio
ancora è il sospetto che la voglia di allargare e soprattutto la
necessità di consolidare la maggioranza al Senato così da avere i numeri
per portare a casa le riforme istituzionali, porti a arruolare
«Scilipoti, trasformisti, opportunisti», un danno per il Pd, un “do ut
des” dai confini opachi. Massimo D’Alema in un’intervista al Messaggero
mette in guardia dagli eventuali smottamenti del centrodestra, dalla
transumanza di forzisti inquieti della corte di Verdini. Mentre l’ex
segretario Pier Luigi Bersani avverte: «Non che io voglia un Pd stretto,
ma non deve trattarsi di spostamenti opportunistici piuttosto si
spieghi il passaggio politico, non si allarga solo spostando persone».
Stesso concetto rilanciato da Davide Zoggia e twittato all’indirizzo del
capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza: «Non mi convince questa
migrazione in massa di Scelta civica, ci sono troppe differenze di linea
politica».
«Macché, è un ritorno a casa per molti di loro», reagisce
il vice segretario Guerini elencando Pietro Ichino, Linda Lanzillotta,
Alessandro Maran, Gianluca Susta, Irene Tinagli, ex dem. «Il Pd è un
campo democratico ampio - continua - in linea con la vocazione
maggioritaria che impresse Veltroni. Gli arrivi rafforzano la sua
capacità di attrazione». Nell’ala sinistra del campo malumori e
perplessità. I bersaniani sono irritati, una pattuglia di montiani erano
andati via proprio dal Pd dell’ex segretario. «Un partito non è una
porta girevole da cui si entra e si esce a seconda di chi vince il
congresso», è stato lo sfogo di Bersani con i suoi collaboratori.
«Overbooking, posti solo in piccionaia», aveva ironizzato Vendola dopo
la scissione di Sel. Ma loro, i migranti, dall’ex vendoliano Gennaro
Migliore all’ex montiana Ilaria Borletti Buitoni come si accingono ad
affrontare la traversata a bordo del Pd? Imbarazzati? A disagio per
l’eterogenea compagnia? Per Borletti Buitoni - sottosegretaria al Beni
culturali, famiglia dell’imprenditoria lombarda che creò la Rinascente
rac- contata nel libro “Cammino controcorrente” - «le scissioni di
Scelta civica, quelle sì sono imbarazzanti. Per il resto l’Agenda Monti
ha un’impronta riformista e le politiche di Renzi sono di un Pd che non è
quello che era due anni fa. La rivoluzione politica impressa da
Franceschini al ministero mi vede in assoluta sintonia». All’altro
opposto, Migliore ricorda che già Renzi vantò «il Pd che va da Migliore a
Romano». Ovvero da lui fino all’ex capogruppo montiano a Montecitorio.
«Un Pd soggetto di governo e nel Pse. Non faccio mai scelte per le quali
sentirmi in imbarazzo - precisa -Certo spero che la cultura della
sinistra conti di più dentro il partito ». Ma molti timori bollono in
pentola. Fassina, che coniò lo slogan “Rottamiamo l’Agenda Monti”,
ragiona: «I naufraghi cercano approdo, e questo è normale. Salgono sul
Transatlantico che è il Pd. Ma questo dove va? Qual è la sua
direzione?». Ricorda quando Monti faceva pressione su Bersani perché gli
mettesse il silenziatore. «L’arrivo dei montiani non è la causa ma la
conseguenza di uno spostamento dell’asse dem verso politiche liberiste».
Sul Jobs Act ad esempio, Ichino insegna. «Siamo in un partito ormai
centrista e all’orizzonte c’è il Partito della nazione», s’inalbera
Pippo Civati, dissidente democratico, alla ricerca di una cosa di
sinistra.
Civati e il «trasformismo»: il Pd ormai è un accampamento
Dalla «liquidazione» di Letta alla «sindrome del cambio in corsa»: in un libro la sua visione dell’era renziana
di Monica Guerzoni Corriere 7.2.15
ROMA
I ribaltoni, i «traditori» Razzi e Scilipoti «eroi del tempo presente»,
i transfughi di Scelta civica e la «sindrome del cambio in corsa», che
ha colpito in un anno 160 parlamentari: «Chi si ferma è perduto». E
mentre i cittadini pietrificati dalla crisi restano vittime
dell’incantesimo mediatico la sinistra diventa destra, il Pd muta
geneticamente nel Partito della nazione e Berlusconi, «senza soluzione
di continuità» con il ventennio passato, realizza il contratto con gli
italiani del 2001: «Come se il pennarello avesse continuato il disegno».
Il pennarello di Matteo, il disegno di Silvio.
Con un tempismo
cronometrico Pippo Civati firma Il trasformista - La politica nell’epoca
della metamorfosi (Indiana editore). Un pamphlet di 100 pagine, in
libreria il 19 febbraio, in cui il più antagonista dei deputati del Pd
manda in pezzi lo specchio di Narciso del «premier attualmente in
carica». Così lo chiama Civati per smascherarne i lapsus, i paradossi, i
ribaltamenti prospettici e denunciarne i limiti: l’incoerenza come
manifesto politico, la provocazione come metodo per distrarre dal
merito.
Ritratto volutamente ingeneroso dell’era renziana, questo
piccolo trattato di semiotica politica è lo strappo finale, la presa
d’atto di una distanza incolmabile tra chi si ostina a credere nella
sinistra che verrà e chi rimuove i poverissimi perché non votano e
quindi «cavoli loro». Tra figure mitologiche, citazioni di Ovidio, Musil
e Borges e reminiscenze filosofiche Renzi diventa Zelig, un leader che
prende i voti della destra e, con quel «decreto vintage» che è lo
sblocca Italia, realizza i sogni di cemento di Berlusconi. Renzi come
Leopoldo Fregoli, protagonista di «metamorfosi a catena» come il
Porcellum che diventa Italicum. Un leader che fa «l’esatto contrario» di
quel che annuncia, picchia sulla sinistra come causa di tutti i mali e,
mutando pelle ogni giorno, fonda il «partito del tutti dentro». Maxi
«accampamento» dove c’è posto per chi vuole eliminare l’articolo 18 e
per chi lo difende.
Cos’è il patto «segreto» del Nazareno se non un
«patto col diavolo», in cui il vecchio e il nuovo gattopardescamente si
fondono? Com’è potuto accadere che il Nemico sia diventato «l’amico
giurato»? La tesi è che un premier in «perenne movimento» ha cambiato
tutto, tranne la vita degli italiani: «Realtà gufa, mondo crudele».
Nell’attesa della palingenesi lo spettacolo è talmente pirotecnico che i
cittadini non si accorgono di un bluff che ha fatto vittime illustri.
La «liquidazione» di Enrico Letta? Un «ca polavoro di trasformismo».
Intriso di «pessimismo leopoldino», nel finale il libello di Civati
intona note di speranza. L’incantesimo delle «lunghe intese» si può
spezzare, l’Italia può tornare alla «gara corretta» dell’alternanza. Ma
perché si alzi il vento del cambiamento bisogna che il messaggio «laico»
delle minoranze si affermi e che gli elettori comincino a soffiare
nella direzione giusta. Quella della sinistra.
Se D’Alema evoca le purghe (fotografiche) d’epoca staliniana
di Massimo Rebotti Corriere 7.2.15
Milano
Il nome di Sergio Mattarella avrà anche messo d’accordo tutti nel
centrosinistra, ma fino a un certo punto. Per esempio, se si domanda
«chi ha voluto Mattarella per primo?» la pace finisce.
Massimo
D’Alema è risentito: l’attuale presidente della Repubblica è stato, tra
il 1998 e il 2000, vicepremier e ministro della Difesa nei suoi governi.
«È divertente vedere — ha raccontato al Messaggero — che io nelle foto
fatte circolare da Palazzo Chigi non ci sono». Sostiene D’Alema che
l’entourage di Matteo Renzi, raccontando agli italiani il nuovo
presidente, abbia operato un occultamento della realtà: Mattarella
ministro, Mattarella vicepremier, senza dire di quale governo e di quale
premier.
«Nei regimi stalinisti — spiega — c’erano degli specialisti
che cancellavano dalle fotografie i volti dei dissidenti». In quei casi
la «purga» fotografica seguiva quella reale: i dissidenti prima
sparivano per davvero, uccisi, e poi «svanivano» dalle fotografie. Nella
storia del comunismo internazionale i casi sono stati tanti: Trotzky
rimosso dagli scatti vicino a Lenin, il capo della polizia di Stalin
evaporato dalle foto a fianco del leader, il dirigente del Pc cinese
cancellato dalle immagini con Mao. «Nel Pd abbiamo dimenticato tanti
valori della sinistra — chiosa sarcastico D’Alema — ma questa tradizione
è rimasta». Quella che storicamente fu una tragedia, la condanna del
dissidente che anticipa la sua cancellazione (perfino dalle foto), si
ripete nel Pd sotto forma di polemica iperbolica. Con Massimo D’Alema
che, per rivendicare di aver avuto un ruolo nella scelta per il
Quirinale, accusa Renzi di averlo «cancellato» dagli strateghi
dell’operazione. Quei suoi due governi (con Mattarella) tra il 1998 e il
2000 — dopo la caduta di Prodi e con l’appoggio di Cossiga — furono nel
centrosinistra assai controversi. E la condanna all’oblio, secondo
D’Alema, arriverebbe fino ai giorni nostri.
L’esagerazione della
realtà è parte di ogni propaganda: Renzi fa capire che Mattarella l’ha
voluto solo lui e che gli ex Ds sono all’angolo? D’Alema risponde che
l’elezione del nuovo capo dello Stato è una vittoria della minoranza e,
sotto sotto, sua personale. E la verità su come siano andate davvero le
cose, piano piano, viene cancellata dalla fotografia di questi giorni.
Voti blindati in Senato, ma si esalta l’opportunismo
di Massimo Franco Corriere 7.2.15
Si
comprende l’ottimismo sui numeri del governo al Senato, che Matteo
Renzi ostenta. Non è soltanto la migrazione della pattuglia di Mario
Monti da Scelta civica al Pd: un passaggio che ha il colore
dell’opportunismo ma chiude una parentesi politicamente già finita, e
formalizza un’appartenenza affidata finora solo al voto favorevole. La
vera riserva di consensi parlamentari, per una coalizione che a Palazzo
Madama ha dovuto faticare più volte per raggiungere la maggioranza di
161 voti, arriva da spezzoni dell’opposizione. Spunta tra i frammenti
espulsi dal Movimento 5 Stelle; e, sul versante opposto, da «costole»
del centrodestra ansiose di stare al governo.
Sono una ventina di
senatori sui quali Palazzo Chigi ha giustamente puntato molte delle sue
speranze di approvare le riforme. Porterebbero l’area della maggioranza
oltre la soglia di 190, garantendo margini di sicurezza finora
inimmaginabili. C’è già la parola che dovrebbe sublimare questa
operazione: «stabilizzatori». Parlamentari eletti per combattere il
governo, e ora pronti a puntellarlo per evitarne la crisi. L’operazione
sa di trasformismo: quella pratica tutta italiana, inaugurata nel 1883
da Agostino Depretis e basata sulla cooptazione nelle maggioranze di
schegge dell’opposizione; e replicata l’ultima volta tra il 2008 e il
2011 dal governo Berlusconi.
Fu giustamente criticata dal Pd, che nei
«responsabili» di allora vedeva gli eredi di Depretis; e difesa da FI,
che legittimava l’arruolamento come un modo per risarcire Berlusconi
della perdita dell’appoggio di Gianfranco Fini. Adesso, la manovra viene
attaccata da FI e da Beppe Grillo, mentre nel Pd si tende a difenderla
in nome dell’interesse dell’Italia a completare le riforme. Spettacolo
discutibile, che riflette la scomposizione del sistema dei partiti e lo
sgretolamento di alcuni: un sottoprodotto prima delle elezioni del 2013,
con un Parlamento spezzato in tre tronconi; poi dell’arrivo di Renzi.
La
domanda è quanto tutto questo rafforzerà davvero la coalizione Pd-Ncd; e
se la terrà al riparo dai ricatti di piccole minoranze che alla fine
furono tra le cause della caduta di Berlusconi nel 2011. Certo, i
cosiddetti «stabilizzatori» offrono a Palazzo Chigi un supplemento di
forza contrattuale. Il coltello del patto del Nazareno tra il premier e
l’ex premier sarebbe sempre più nelle mani di Renzi. In più, l’idea di
un governo col vento in poppa viene accreditata dalla corsa di
semi-oppositori nell’orbita del potere. E si alimenta la narrativa di un
M5S che perde pezzi.
Eppure, il saldo dell’operazione potrebbe
risultare assai più controverso di quanto appaia. Intanto, la
trasparenza dei rapporti parlamentari e della dialettica
governo-opposizione viene intorbidita per puri calcoli di potere. E
gonfiandosi con innesti di formazioni avversarie, la maggioranza finisce
per confermare la sua necessità di ricorrere ad un aiuto esterno. Non
si vede una grande operazione politica dietro quanto sta avvenendo. Al
massimo, un surrogato raccogliticcio di quel patto del Nazareno che
l’elezione del capo dello Stato ha scompaginato.
Il cantiere vuoto della destra e la calamita del premier
L’arrivo degli ex montiani nel Pd è anche un messaggio alla “zona grigia” di transfughi grillini e centristi delusi
di Stefano Folli Repubblica 7.2.15
PER
adesso non cambiano i numeri della maggioranza. Soprattutto al Senato,
dove il margine è assai sottile, gli eletti di «Scelta Civica» che
arrivano in soccorso al vincitore non modificano la situazione: i voti
sono gli stessi di prima, visto che il partito di Monti puntellava fin
dall’inizio l’alleanza renziana. È il motivo per cui la responsabile
dell’Istruzione, Giannini, aveva ottenuto il ministero un anno fa e a
maggior ragione lo conserva oggi.
Il senso dell’operazione tuttavia è
chiaro. Si tratta di creare un «effetto calamita», dando l’impressione
che è in atto uno smottamento definitivo a favore del «partito di
Renzi». Come dire: se non vi sbrigate a salire a bordo, dopo per voi
sarà troppo tardi. Messaggio rivolto a quanti ristagnano in una sorta di
«zona grigia», non più opposizione e non ancora maggioranza, ma sono
tentati dal salto trasformista. I transfughi dei Cinque Stelle in primo
luogo e forse altri, magari fra i centristi delusi. Renzi è molto abile
nel creare l’effetto valanga, suggerendo che il fenomeno è già in corso.
Anche se fino a questo momento si è più che altro rafforzata la
corrente renziana all’interno del Pd: una corrente ampia e ben nutrita,
tenuta insieme dal carisma del leader e dal potere che egli garantisce.
In
ogni caso per il partito di Berlusconi è una pessima notizia. Alla
quale serve poco reagire con l’accusa al presidente del Consiglio di
fare «campagna acquisti», argomento usato a suo tempo (nel 2011) contro
il governo di centrodestra. Quindi si tratterebbe di un peccato di
incoerenza da parte del Pd. Ma è una polemica perfettamente inutile che
serve solo a segnalare la condizione di crescente debolezza di Forza
Italia. Dal 2011 a oggi lo scenario è cambiato in modo profondo. Quattro
anni fa Berlusconi tentava con i «responsabili» di salvare il suo
governo da una costante erosione parlamentare. Oggi Renzi vuole
dimostrare di poter fare a meno del contributo di Forza Italia anche al
Senato. Il che significa ridurre fin quasi ad annullarlo il potere
negoziale di Berlusconi, quando questi vorrà riproporre una versione
minimalista del «patto del Nazareno».
Ma c’è di più. Con
l’«operazione calamita» Renzi prefigura la prospettiva contenuta nella
riforma elettorale. Vale a dire l’Italicum approvato con entusiasmo dal
centrodestra giusto alla vigilia della contesa per il Quirinale. Il
premio alla lista vincente — e non più alla coalizione — costituisce una
spinta possente verso il bipartitismo: una forza politica governa,
l’altra si oppone (con i partiti rimanenti confinati in un ruolo minore,
più o meno di testimonianza). Non è strano che i movimenti e i sussulti
parlamentari di questi giorni anticipino la tendenza: si corre a
rafforzare il Pd, che in questo momento è la forza centrale, nel
tentativo di guadagnare vantaggi anche personali prima delle elezioni,
peraltro ancora lontane.
Invece di una replica stizzita, sarebbe
interessante sentire dal partito berlusconiano quale sarà la risposta
alla strategia renziana che è chiarissima. Visto che hanno votato
l’Italicum pochi giorni fa, si suppone che l’anziano leader e i suoi
collaboratori sappiano cosa opporre a un premier che si sta attrezzando
per vincere e governare senza condizionamenti. Ma non sembra che sia
così. A sinistra, il cantiere del «partito di Renzi» fra poco chiuderà
per eccesso di domanda; a destra il cantiere del secondo «partito della
nazione» non è nemmeno stato aperto. Certo, ci sono le iniziative di
Fitto che si definisce il «ricostruttore». E c’è il tentativo, destinato
al fallimento, di rincorrere Salvini con la trovata della «Lega delle
libertà»: un po’ tardi visto che il Carroccio post-Bossi è intorno al 16
per cento. In altre parole mancano le idee e anche i volti nuovi per
contrastare Renzi. Il che rischia di creare un grave squilibrio in un
sistema che è pensato per avere due gambe in grado di bilanciarsi. Per
ora la gamba è una sola.
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